Cari compagni,oggi, 23 Agosto 1991, mentre davanti alle telecamere di mezzo mondo Michail Gorbaciov veniva costretto ad accettare una serie di condizioni dettategli da Boris Eltsin (le dimissioni dell'intero governo, la revoca delle nomine fatte soltanto ieri, la sospensione delle attività del partito comunista russo), negli Stati baltici si abbattevano le superstiti statue di Lenin, così come a Mosca si era finalmente rimossa quella di Dzerdzinski. La televisione polacca - a differenza di quella italiana, credo - ha ricordato con risalto l'anniversario del Patto Molotov-Ribbentrop, che portò ad assegnare all'impero di Stalin la Lituania, l'Estonia, la Lettonia, parte della Polonia e quella che sarebbe divenuta la "repubblica sovietica di Moldavia".
Sono passati due anni da quando nella stessa occasione ci furono quelle grandi dimostrazioni a Mosca, a Leningrado (che oggi è però tornata a chiamarsi Pietroburgo), a Riga, a Vilnius, a Tallinn ed in Moldavia alle quali anche in alcune decine di radicali prendemmo parte, con diversi arresti e pestaggi: due anni nei quali, come ricorderete, ho spesso notato che a mio parere la politica interna di Gorbaciov era quella di un frenatore del processo di riforma ormai necessariamente in atto, di una pedina in mano al sistema comunista che lo aveva espresso (al punto di circondarsi di quella serie di personaggi che avrebbero tentato il golpe), di un cristallizzatore oltre i limiti del possibile della struttura imperiale stalinista.
Mentre l'Europa centro-orientale si apriva effettivamente alla democrazia, sostanzialmente conquistandola nel caso della Polonia, dell'Ungheria e della Cecoslovacchia e giungendo alla riunificazione della Germania, l'Unione Sovietica non riusciva a scrollarsi dalla inefficacia del sistema gorbacioviano, che nell'ostinarsi a santificare la "glasnost" faceva di questa parola il surrogato, penosamente insufficiente, della democrazia, nel ridurre a slogan la "perestrojka" rimandava a data da destinarsi il passagggio all'economia di mercato, nel proclamare l'Unione confermava l'impero e negava le nuove, possibili e vere ragioni dell'indipendenza e della libera scelta di cooperazione e di vincoli federali.
Durante i giorni del golpe - dopo avere guardato per un attimo da che parte tirava il vento -, il mondo occidentale ha gridato "Ridateci Gorbaciov", affermando che si trattava del "presidente legittimo" e che il suo ritorno avrebbe costituito il "ritorno alla democrazia". Forse sarebbe stato meglio dire "presidente riconosciuto"; se, infatti, per "legittimo" si intende "democraticamente eletto", questo non è il caso di Gorbaciov, collocato al suo posto dall'apparato comunista e poi formalmente votato da un soviet supremo i cui attuali membri sono ancora per circa quattro quinti quelli di fatto designati dal PCUS e dalle sue strutture satelliti.
Diverso è il caso di Boris Eltsin: eletto direttamente dal popolo, egli è davvero rappresentativo, e certo gode di un consenso popolare che Gorbaciov, in patria, non ha mai avuto neppure lontanamente. Tuttavia, è fuor di dubbio che i provvedimenti che Eltsin sta prendendo in questi giorni sono propri di un capo rivoluzionario, e non di un organo democratico. Fa e disfà, proclama e censura, revoca funzionari nominati da altri organi e chiude d'arbitrio degli organi di stampa. No, non si tratta di democrazia.
E' propriamente una rivoluzione quella che sta finalmente avvenendo in Russia, alla quale si accompagnano rivoluzioni in parte analoghe in altre repubbliche. Di fronte a questo, il Gorbaciov che si ostinava fino a pochi giorni fa a difendere i suoi Yazov e i suoi Kriuchkov, i suoi Pugo e le sue statue di Lenin e di Dzerdzinski appare come l'ultimo - dopo lo stesso Lenin della NEP, Chrusciov ed Andropov - dei riformatori dall'interno di un sistema che ormai era così marcio che nemmeno le sue armi più classiche - le congiure di palazzo ed i carri armati nelle strade - potevano funzionare.
Ora che il vecchio babau della "ala destra" non fa più paura, ora che non si può più sostenere che Gorbaciov serva a mediare qualcosa, è tempo che il simpatico signore che pure ha avuto i suoi meriti innegabili nell'interpretare, spesso con grande talento, la parte che la storia gli aveva assegnato segua la sorte di altri celebri interpreti, e si metta da parte come Reagan e la Thatcher, ma anche un po' come quegli Honecker (fuggito non a caso a Mosca) o quegli Zhivkov che, fino a pochi giorni prima della loro caduta, aveva fraternamente abbracciato.
Da parte nostra, abituiamoci a dire "Pietroburgo" anziché "Leningrado" (pensate un po' se Milano si fosse chiamata per sessant'anni Benitopoli!), a parlare di Russia, di Lituania o di Ucraina anziché di "Unione Sovietica" (direste "Terzo Reich" invece di Germania, Olanda, Danimarca, Norvegia e Francia?), e magari di "province romene occupate" anziché di Moldavia: sarà solo così che potremo continuare ad avere le carte in regola per lottare per gli Stati Uniti d'Europa. E rendiamo onore all'attuale rivoluzione, ma teniamoci pronti a domandarne la fine perché al suo posto si sviluppino regole e prassi di una democrazia parlamentare che la Russia intravide fra il Febbraio e l'Ottobre del 1917, che erano state soffocate nel sangue e nel silenzio di tre generazioni e che adesso non devono restare a lungo sospese; nemmeno nell'euforia del redigere l'atto di morte di un sistema che ormai era spento da tempo.