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Conferenza Partito radicale
Inzani Giorgio - 15 ottobre 1991
1. LA PUREA DI LEGUMI

Il 25/5/91 si è tenuta, in Vigentina, una assemblea dell'Associazione, durante la quale introdussi i lavori con una lunga relazione che si snodava lungo l'asse Goethe-Jung-Lorenz-Baget Bozzo-Gandhi-Pannella. Chi c'era, c'era (e non eravamo pochi), chi non c'era farà forse un po' fatica a seguire i primi cinque minuti della relazione odierna, ma non sarà, ritengo, fatica sprecata.

Quando Faust chiede a Mefisto chi egli fosse, ne ottiene questa risposta sibillina:

Se l'uomo,

quella meschina congerie di pazzia,

si dà ad intendere ch'egli sia un tutto;

io son parte della parte

che nel principio era in ogni cosa:

son parte delle tenebre che partorirono la luce.

Sono parte di quella possenza

che vuole continuamente il male

e continuamente produce il bene.

Questi versi fecero scrivere a Jung, nella sua autobiografia:

»Leggendo il Faust di Goethe mi resi conto che vi erano uomini che vedevano nel male e il suo potere universale, e - cosa più importante - il compito misterioso che esso ha nel liberare l'uomo dalla sofferenza e dalle tenebre .

Jung lesse il Faust a tredici anni, ma il tarlo mefistofelico continuò ad essere presente per tutta la sua vita, lasciando importanti tracce in pressoché tutte le sue opere. Poco prima di morire all'età di ottantasei anni egli scrisse un capitolo (titolato "Ultime riflessioni") a dir poco inquietante, di difficilissima lettura, ma nel contempo estremamente affascinante. Sono trenta paginette pesanti come il platino (ma nel contempo brillanti come il diamante) che si concludono - non a caso - (ma qui il traduttore italiano compie un errore di banalizzazione) con il Cap. XIII della prima lettera ai Corinzi di S.Paolo (per i profani è quello titolato "Sovrana eccellenza della carità"). Voglio riportarvene alcuni brani, scusandomi per l'approssimazione, che Jung davvero non merita, ma tant'è: meglio poco che niente. Dunque:

»Alla fine del secondo millennio cominciano a delinearsi i tratti di una catastrofe universale, e cioè innanzitutto di una minaccia per la coscienza. Questa minaccia consiste nel gigantismo, cioè in una "ubris" della coscienza "Nulla è più grande dell'uomo e delle sue azioni". La trascendenza del mito cristiano è andata persa, e con essa la concezione cristiana della totalità raggiunta nell'altro mondo. Alla luce segue l'ombra, l'altro lato del Creatore.

»Questa evoluzione giunge al suo massimo nel secolo XX. Il mondo cristiano è ora veramente messo a confronto con il principio del Male, con l'ingiustizia palese, la tirannia, la menzogna, la schiavitù, la coercizione della coscienza. Tale manifestazione del Male senza maschera ha assunto una forma stabile nella nazione russa, ma la sua prima violenta eruzione si ebbe in Germania.

»Di fronte a ciò, il male non può più essere minimizzato con l'eufemismo della "privatio boni". Il Male è diventato una realtà determinante. Non può essere più eliminato dal mondo con una semplice circonlocuzione: dobbiamo trattare con esso, perché esso VUOLE LA SUA PARTE NELLA VITA. Il criterio dell'azione morale non può consistere più nella semplice concezione che il bene ha la forza di un imperativo categorico, e che il cosiddetto male può essere assolutamente evitato. Il riconoscimento della realtà del male necessariamente relativizza sia il bene che il male, tramutandoli entrambi nelle metà di un contrasto, i cui termini formano un tutto paradossale.

Mi fermo qui per Jung. Per non complicare di molto il discorso accenno a K.Lorenz con una semplice battuta: lui titola un capitolo del suo libro "L'aggressività" con "Quel che c'è di buono nel male". Non avete capito male. E' proprio così.

Per Baget Bozzo (di cui riparlerò più avanti), riprendo del suo "famoso" articolo (sempre citato ma - a mio parere - poco letto nella sua interezza), articolo del 1977, un brano molto breve:

»In questa impotenza della ragione storica, successiva alla sconfitta dell'intelletto metafisico, bisogna dare atto ai radicali di aver scoperto "quello che rimane": l'individuo. Un individuo che non ha per sé nessuna prospettiva di soluzione universale, ma che vuole la sicurezza di possedere la sua peculiare irriducibile realtà: la realtà del suo corpo.

Di Gandhi due brevi riflessioni (attenti alla apparente "leggerezza" gandhiana!):

»Per quanto mi concerne ho sempre creduto alla lealtà dei miei nemici. Essi naturalmente ne hanno approfittato per ingannarmi. Nove volte di seguito mi hanno ingannato ed io, con stupida ostinazione, ho ricominciato a credere nella loro lealtà. Cosicché alla decima volta non hanno più potuto non essere leali. Scoprire la loro lealtà è stata per loro una felice sorpresa, e anche per me. Perciò ci siamo sempre lasciati molto contenti l'uno dell'altro, il mio nemico ed io.

»La mia opera sarà compiuta se riuscirò a convincere l'umana famiglia che ogni uomo o donna, per quanto debole, è il difensore della propria libertà e del rispetto di sé. Questa difesa è valida, anche se tutto il mondo si schierasse contro il singolo resistente.

A questo proposito, e prima di passare a Pannella, voglio ritornare brevissimamente a Jung che, nello stesso periodo di Gandhi, affermava: »L'opposizione alla massa organizzata è possibile solo all'uomo altrettanto organizzato, nella propria individualità, della massa stessa.

E per finire con Pannella:

»Lo sguardo del nonviolento non guarda tanto - alienato - al momento della istituzione di mediazione, ma guarda all'istituzione PERSONA (donna - uomo) come costituita dai diritti storicamente inalienabili (umani, civili e politici).

»Non esiste differenza morale fra chi crede nella violenza e chi crede nella nonviolenza.

»Il problema centrale è quello dell'adeguatezza. Il problema è di offrire a sé e agli altri, attraverso il dialogo, il rapido superamento della sofferenza che è il consumo - nella solitudine - del male che si ha.

Ho messo insieme, con questa sfilza di citazioni, una mini-collezione di francobolli male amalgamati? Credo di no, e cercherò di dimostrarvelo.

 
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