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Cicciomessere Roberto - 22 luglio 1993
L'ONU E IL NUOVO DISORDINE MONDIALE

di Jacopo Toscano

Il collasso sovietico ha scongelato i rapporti internazionali dall'illusoria stabilità che aveva mascherato, e trascurato, gli emergenti problemi dell'umanità. L'immediatezza dei moderni mezzi di comunicazione ha così repentinamente svelato l'intrico di fenomeni globali potenzialmente esplosivi, che sfuggono alle capacità di controllo dei singoli Stati (povertà, siccità, fame, demografia galoppante, migrazioni di massa, movimenti di rifugiati, catastrofi ambientali, squilibri commerciali e finanziari, proliferazione di armamenti, droga, AIDS, criminalità organizzata, ecc.), molti dei quali intimamente collegati fra loro.

Si ripropongono però anche, per reazione, istinti di autoconservazione sotto forma di egoismi nazionali, etnici e culturali, e di integralismi religiosi, normali sintomi di agorafobia, l'angoscia dei grandi spazi spalancati dalle improvvise libertà. Le aspirazioni ad un nuovo ordine internazionale, ed al conseguente »governo mondiale , ricorrente mito dell'umanità, sono pertanto apparentemente smentite dai comportamenti conflittuali, spontanei e spesso irrazionali, delle più disparate entità nazionali assetate di autodeterminazione.

Le rapide considerazioni che seguono si limitano a tracciare le potenzialità ed i limiti della diplomazia multilaterale, piuttosto che prefigurarne l'efficacia nei confronti del bersaglio mobile di comportamenti ancora troppo eterogenei. Circostanze analoghe al primo dopoguerra ripropongono pertanto le potenzialità della Carta di San Francisco, che la guerra fredda aveva bloccato. Erede delle ambizioni della Lega delle Nazioni, lo strumento multilaterale dell'ONU, in campo tanto politico-militare quanto economico-sociale, si presenta questa volta al centro dell'attività internazionale e non più ai margini, in funzione residuale. Gli stessi tradizionali pilastri dello Stato nazionale stanno venendo meno, sotto lo scrutinio di una comunità internazionale che pretende ormai forme di intervento anche armato negli affari interni, specie per finalità umanitarie. Si assiste infatti ad una revisione del principio di sovranità nazionale, che non è più assoluta ed esclusiva, bensì corresponsabile dei rapporti internaz

ionali. Il conseguente corollario di politica interna, in termini di rispetto dei diritti dell'individuo e delle minoranze, costituisce certamente una evoluzione illuminata. Essa può tuttavia trovare imparziale applicazione soltanto sotto l'egida dell'ONU, braccio secolare del nuovo diritto internazionale.

Le condizioni di indigenza di intere popolazioni non sono nel complesso peggiori che in passato. Liberatasi dai condizionamenti delle opposte ideologie, esse sono però diventate più evidenti e meno tollerabili. Sotto i riflettori delle telecamere (che non hanno però ancora scoperto le tragedie in Sudan, Afghanistan e chissà dove altro), le situazioni di emergenza esigono ormai interventi multilaterali risolutivi, non più soltanto nei casi di aperta aggressione, come nel caso iracheno, ma anche in situazioni di guerra civile fino a ieri precluse all'azione internazionale (si pensi alla tragedia libanese nell'impotenza dell'ONU).

La sempre più marcata tendenza ad affidare agli strumenti dell'ONU la soluzione di problemi dell'umanità non può però condurre all'esautoramento delle responsabilità degli Stati, primari soggetti internazionali. L'adeguamento del sistema (e del diritto) internazionale si sviluppa quindi in modo poco lineare, pragmaticamente, anche se nella maggior trasparenza e tendenziale imparzialità che soltanto i meccanismi delle Nazioni Unite paiono poter assicurare.

Il diritto/dovere di ingerenza umanitaria, invocato da alcuni »eretici poco più di un anno fa, è ormai comunemente accettato. La sua prima manifestazione, non senza controversie, si verificò con l'assistenza ai curdi nell'Irak debellato, in condizioni pertanto del tutto eccezionali. L'eccezionalità della situazione è d'altronde stata avocata esplicitamente anche per l'intervento in Somalia. Lo stesso Pontefice riconosce che la sovranità nazionale è oggigiorno limitata dagli imperativi superiori della »coscienza dell'umanità , che gli organismi collegiali di New York legittimamente rappresentano. Tale compito andrà tuttavia esercitato nel più accurato equilibrio fra responsabilità collettive ed incombenze nazionali, che l'organizzazione di New York può promuovere, ma non sostituire.

Nell'esercizio della sua funzione statutaria di mantenimento della pace e della sicurezza, l'ONU è andata espandendo i suoi strumenti operativi. Oltre 60.000 »caschi blu sono oggi sparsi per il mondo, in 25 missioni di pacificazione e riconciliazione nazionale, in modo peraltro scarsamente uniforme, in un flessibile adattamento al variare delle situazioni. L'autorità del Consiglio di Sicurezza viene esercitata con modalità variabili; alle sue direttive politiche non si accompagna sempre il pieno controllo operativo.

Il »peace-keeping (mantenimento della tregua militare o civile) consiste nell'interposizione non armata, con il consenso delle parti. Non espressamente previsto dalla Carta, esso si è sviluppato empiricamente e si trova a dover oggi rispondere ad una molteplicità di situazioni, dalle componenti più disparate ed intricate. Il »peace-enforcing (intervento armato nell'esercito delle facoltà coercitive disposte dal Cap. VII della Carta, in condizioni conflittuali) richiede direttive più precise e continuative da parte del Consiglio di Sicurezza, compresa l'unità di comando che la Carta di San Francisco attribuisce al Segretario Generale; sia in Irak per scopi militari che in Somalia per finalità umanitarie, le operazioni sul terreno sono state però intraprese e guidate dalle Forze Armate, statunitensi, dotate dell'avallo ma non dal controllo operativo delle Nazioni Unite.

Il »peace-making , ovverosia la funzione negoziale nell'interrelazione delle sue varie componenti, rimane infine affidato all'iniziativa del Segretario Generale e al sistema societario di sicurezza collettiva, ma presuppone il concorso delle parti in causa.

Nei tre casi il sistema delle Nazioni Unite può proporre ma non imporre né surrogare. La sopravvenuta disponibilità dell'ONU (per le pressanti sollecitazioni internazionali) ad intervenire d'imperio, anche senza il consenso delle parti interessate, costituisce una innovazione nel diritto internazionale ed una forzatura della Carta istitutiva. L'uso della forza per impellenti emergenze umanitarie viene giustificato dal rischio di turbative all'ordine e alla sicurezza internazionali. Le componenti umanitarie e quelle politiche tendono così a confondersi, in una ambiguità non sempre costruttiva per i risultati che si perseguono e per la stessa immagine societaria. Lo stesso Dipartimento per gli Affari Umanitari, di recente istituzione, si è trovato stretto fra le funzioni di peace-keeping e quelle di peace-enforcing, con mal definiti compiti di coordinamento operativo e privo di responsabilità negoziali, affidate invece ad appositi rappresentanti speciali del Segretario Generale.

La struttura dell'ONU, concepita per corrispondere alle realtà dell'immediato dopoguerra, non può comunque svolgere prolungate funzioni coercitive. Il Comitato di Stato Maggiore avrebbe il compito di stabilire le regole di ingaggio, ma esso include soltanto i cinque membri permanenti e una sua rivitalizzazione appare improponibile. Il venir meno del sistema coloniale ha inoltre reso ben più complesse le modalità di spiegamento delle forze di coercizione (servizi logistici, comunicazioni, trasporto e copertura aerea). Un esercito dell'ONU, teoricamente previsto dalla Carta, presuppone capacità militari risolutive che l'Organizzazione non intende né può sostenere, specie nei confronti di bande armate o capi tribali, in condizioni di collasso dell'autorità statale, quando l'intervento umanitario si fa invece più pressante.

Lo spiegamento dei caschi blu è pertanto calibrato caso per caso, con modalità ogni volta sui generis. Esse vanno dall'assunzione di ogni funzione statuale in preparazione delle elezioni cambogiane, a spese di tutti gli Stati membri dell'Organizzazione, alla protezione militare dei convogli per la distribuzione di assistenza alimentare e sanitaria in Somalia, a carico dei Paesi che ne hanno preso l'iniziativa; dall'attribuzione di caschi blu a truppe europee già intervenute nella ex-Jugoslavia all'avallo societario di una coalizione occidentale ed araba contro l'aggressione irachena, con la serie di recrudescenze che continuano a manifestarsi senza il pieno controllo societario.

Alla messa a disposizione dell'ONU di forze nazionali, con compiti non più di mera iterposizione bensì di coercizione, ostano però le prerogative del comando e controllo nazionale, oltre che l'efficienza logistica e delle comunicazioni. Le considerazioni del ministro Andò alla vigilia della partenza del nostro contingente per il Monzambico sono diffusamente, anche se più discretamente, condivise.

L'»Agenda for peace elaborata nel giugno scorso dal Segretario Generale non tende pertanto all'istituzione di un esercito dell'ONU, bensì ad indurre gli eserciti nazionali a tenersi a disposizione per collaborare più efficacemente. Il suo auspicio che il materiale militare sia proporzionato per le eventuali necessità societarie si urta tuttavia ancora con la prerogativa nazionale di deciderne di volta in volta l'impiego.

Va anche considerato che l'unica superpotenza superstite appare sempre più riluttante ad assumere compiti di polizia planetaria, come dimostrano le esitazioni di Washington nei confronti della Bosnia e le funzioni circoscritte accettate in Somalia. La transizione del contenimento delle conseguenze all'eradicazione delle cause, il passaggio dalle finalità assistenziali all'intervento risolutivo, da cui dipende la credibilità dello strumento multilaterale, esige comunque l'attivo coinvolgimento di altri, più numerosi protagonisti del nuovo diritto internazionale.

Il venir meno delle responsabilità globali che Mosca e Washington si erano arrogate (o si erano trovate a dover assumere) e l'imprevedibilità dei comportamenti che ne consegue creano vuoti di autorità che il »villaggio globale non tollera. Gli stessi problemi sovranazionali determinano responsabilità più parcellizzate e coinvolgono le collettività locali, le minoranze, le organizzazioni non governative, le autorità religiose e tribali. La diffusione di potere emerge infine dai processi di democratizzazione e di più estesa partecipazione alla vita civile nazionale ed internazionale. Tutte le possibili forze vitali vengono così sollecitate ad affrontare le nuove complesse interrelazioni. Nella ricerca di condizioni di convivenza e sviluppo più equilibrate e sostenibili.

Nei loro confronti, l'organizzazione delle Nazioni Unite deve pertanto proporsi come stimolo e catalisi. Il baricentro dell'ONU continua a consistere in compiti di interposizione, dissuasione, persuasione e formazione del consenso. Il ripetuto ricorso a poteri coercitivi potrebbe altrimenti ledere la sua imparzialità, in un mondo diventato ben più multiforme di quello che le »super-potenze ereditarono nel 1945. La nuova coscienza internazionale non può essere troppo a lungo imposta dall'alto di un Consiglio di Sicurezza dalla composizione per certi versi anacronistica.

La motivazione umanitaria continua a fungere da comune denominatore nelle Risoluzioni che dispongono azioni di forza a sostegno di esercizi diplomatico-negoziali e di riabilitazioni economico-sociali, negli ormai frequenti casi di collasso dell'autorità statale e di conseguente minaccia alla pace e sicurezza internazionali. La promozione e protezione dei diritti umani fondamentali rimane in effetti uno dei pilastri su cui poggia l'ONU (è stato anche appena istituito un apposito Tribunale per i crimini di guerra). Ne consegue in particolare il diritto/dovere di assistenza multilaterale a fini umanitari, ma i poteri coercitivi per l'attuazione di una incombenza caritatevole provocano una commistione di sacro e profano. Fino a che punto l'intervento armato a protezione di convogli alimentari può essere invocato per restaurare l'ordine pubblico o condizioni di convivenza democratica?

La molteplicità di fattori ed attori complica le funzioni di iniziativa e controllo del Segretario Generale. La latitudine consentitagli dall'art.99 della Carta non gli conferisce alcuna esclusiva e lo espone invece alle opposte esortazioni e critiche di quanti lamentano al contempo l'inefficienza e l'interferenza dell'ONU. Il centro di gravità rimane comunque statutariamente nel Consiglio di Sicurezza, il cui pragmatismo dettato dalle circostanze dovrà tuttavia scongiurare ogni erosione dell'autorità dell'ONU, anche soltanto nella percezione delle opinioni pubbliche. Districatosi dalla contrapposizione Est-Ovest, l'organo esecutivo dell'organizzazione rischia infatti di trovarsi impigliato nelle persistenti diffidenze Nord-Sud e nel ricorrente sospetto di imposizioni occidentali. La passività russa e le astensioni cinesi non facilitano le cose. E riemerge la questione della sua rappresentatività.

Oltre al Giappone e alla Germania, nuove potenze economiche, come India, Nigeria, Brasile ed Egitto, demograficamente o strategicamente imponenti, aspirano ad accedervi in permanenza. La maggiore rappresentatività geografica non si tradurrebbe però necessariamente in efficienza, indipendentemente dalla questione dell'esercizio del diritto di veto. Va infatti considerato che i cinque membri permanenti contribuiscono complessivamente al 46,2% del bilanci ordinario dell'Organizzazione (nel 1945 la loro quota era del 71%). Tale criterio appare un titolo di merito ben più rilevante, in base al quale va tenuto presente che la Germania partecipa al 12,45%, il Giappone all'8,93% e l'Italia al 4,29%.

Un allargamento della composizione del Consiglio di Sicurezza e l'aumento dei suoi membri permanenti non potrà pertanto di per sé accrescerne la legittimità, giacché la sua efficacia continuerà a dipendere dalla loro capacità di esprimere ed attuare iniziative comuni, oltre a sostenerne l'onere operativo. Per evitare l'impressione che l'ONU funzioni soltanto quando e come lo vogliano gli USA, gli europei dovrebbero sin d'ora contribuirvi con maggior continuità e compattezza. Perché l'autorità dell'ONU non si eroda è necessario inoltre che i principi invocati non vengano percepiti, neppure a torto, come imposizioni di valori occidentali estranei alle culture e tradizioni dei Paesi cui si rivolgono. Se vi sono, come vi sono, princìpi e valori comuni all'intera umanità, la loro applicazione richiede il concorso dei diretti interessati, in tempi e modi concordati.

L'Organizzazione delle Nazioni Unite può esortare e catalizzare, ma non imporre quel che Saverio Vertone chiama lo »sforzo innaturale della civiltà .

Proveniente dal Terzo Mondo, Boutros Ghali ne è ben consapevole e continua ad evocare l'esigenza di un più sistematico coinvolgimento di organismi regionali, meglio rappresentativi delle sensibilità ed esigenze locali. Ciò varrà non soltanto a sollecitare più consistenti solidarietà, ma anche a rispettare prerogative e suscettibilità. Esse non contraddistinguono soltanto i PVS. E' infatti evidente quanto i Paesi europei, specie occidentali, siano riluttanti ad accettare interventi dell'ONU nel vecchio continente. Sequestrata per quarant'anni dal confronto fra USA e URSS, l'Europa continua a considerarsi diversa e a puntare piuttosto sulle potenzialità della Comunità Europea e della CSCE, presidiate dall'UEO e dalla NATO.

Il ricorso a deleghe operative nei confronti di organismi regionali, genericamente previsto dal Cap.VIII della Carta, andrà però calibrato con attenzione, ad evitare che una dispersione delle fonti di intervento eroda l'autorità dell'ONU. Le organizzazioni regionali asiatiche, centro-americane e latino-americane (non ancora purtroppo quelle africane) vanno suscitando nuove solidarietà, in campo politico oltre che economico e sociale. Più delicata è la condizione degli organismi europei. La CEE nella ex-Jugoslavia, la CSCE nei Paesi già sovietici, la NATO nell'interdizione in Adriatico svolgono compiti di pacificazione che l'ONU ha riconosciuto come sussidiari del proprio operato. Tali deleghe in campo militare, e pertanto a carattere sanzionatorio invece che preventivo, sono imposte dalle circostanze locali, ma dovrebbero figurare sempre come »subappalti dell'ONU che, sola, è in grado di rivendicare una imparzialità di propositi.

Con altrettanta premura andrà curato il contributo delle numerose organizzazioni non governative, presenti nei Paesi in via di sviluppo in modo capillare e indiscutibilmente apolitico.

Impossibilitate ad operare in situazioni catastrofiche senza la partecipazione morale e materiale dell'ONU, esse non intendono confondere il loro operato con interventi multilaterali intergovernativi. Altro caso di commistione e confusione di ruoli, certo bene intenzionati ma potenzialmente incompatibili. All'estremo opposto, vi è invece chi invoca il ristabilimento di protettorati dell'ONU, come avvenuto praticamente in Cambogia e come auspicato apertamente per l'Estonia e la Lettonia dal ministro degli Esteri russo. Ne risulterebbe senza mezzi termini l'esautoramento delle incombenze nazionali e la restaurazione di un regime con connotazioni neo-coloniali, anche se collettivo, mentre il compito dell'ONU dovrebbe essere piuttosto quello di stimolare l'assunzione di responsabilità nazionali e di mediare fra le diverse e contrastanti pretese, anche di ordine interno.

Ai meccanismi multilaterali, per generale riconoscimento, viene ormai riconosciuta la preminente funzione di prevenzione di tensioni e crisi, che ne affronti le cause immediate e quelle più profonde, prima di doverne contenere le conseguenze. Nell'ottobre del 1930, dopo il »crash di Wall Street, l'Economist commentava: »La maggior difficoltà del nostro tempo è che i nostri successi economici hanno superato il nostro progresso in campo politico. Sul piano economico il mondo è organizzato in un'unica entità onnicomprensiva. Su quello politico, esso è non soltanto diviso in 60 o 70 Stati nazionali sovrani, ma le stesse entità nazionali sono diventati più piccole e più numerose, e le coscienze nazionali più sensibili. Le tensioni fra queste due tendenze antitetiche stanno producendo una serie di scosse e strappi nel tessuto sociale dell'umanità . Nihil novi.

Boutros Ghali va affermando con insistenza che la stabilità politica non può essere perseguita in isolamento dalle sue componenti economiche e sociali, essendo invece al contempo conseguenza e causa di condizioni di equilibrato progresso umano e produttivo. A tale settore la Carta societaria riserva esortazioni generali, ben diverse dalle più rigorose disposizioni per il mantenimento della pace e della sicurezza. Ciò si deve non al fatto che i Paesi in via di sviluppo non esistevano nel 1945, come taluno argomenta pretendendo un nuovo ordine anche economico, bensì all'ovvia circostanza che in campo economico e sociale ben più sfumate sono le rispettive competenze e responsabilità.

La Carta istitutiva, al Cap.IX, conferisce all'ONU il compito di »promuovere il progresso economico e sociale, e la soluzione dei relativi problemi, con il concorso delle agenzie specializzate . La formula è interpretata in modo estensivo dai Paesi in via di sviluppo, che vorrebbero conferire all'organizzazione funzioni decisionali, o quantomeno la formulazione di direttrici comuni in campo macroeconomico. I Paesi donatori negano che tale compito possa essere affidato ad una organizzazione tanto eterogenea, cui riconoscono invece utili finalità di reciproca sensibilizzazione su temi finalmente non più oggetto di contrapposte impostazioni ideologiche. Le conseguenze di persistenti omissioni in proposito - è ormai incontrovertibile - possono infatti rivelarsi altrettanto devastanti, con sanguinosi conflitti civili ed imponenti pressioni migratorie, il cui impeto turba i rapporti internazionali quanto le deliberate aggressioni ed ambizioni egemoniche.

Pace e sviluppo, sostengono ormai all'unisono personalità con vocazioni universali quali Boutros Ghali e Giovanni Paolo II, vanno ormai perseguiti in modo integrato e reciprocamente galvanizzante. Liberatasi dai condizionamenti politici e clientelari della guerra fredda, l'assistenza allo sviluppo viene ormai impostata secondo criteri di corresponsabilità (»global partnership ) fra donatori e beneficiari. Gli stessi programmi bilaterali si traducono oggi in progetti impostati e gestiti in comune.

La parola d'ordine, il criterio principale è ormai quello dello »sviluppo umano , tendente a valorizzare le capacità nazionali e pertanto ad esaltare la partecipazione democratica degli stessi cittadini dei PVS. Anche in tale settore, come un quello del mantenimento della pace, vengono pertanto sollecitate le energie endogene. Va peraltro tenuto presente che i concetti di progresso umano, crescita economica, giustizia sociale, diritti individuali, democrazia, rappresentano formule ideali la cui indiscriminata applicazione può essere percepita come una indebita imposizione occidentale. L'ultimo Vertice dei Non Allineati di Jakarta ha respinto »il diritto di chiunque di dettare la propria concezione della democrazia e auspicato »un equilibrato rapporto fra diritti della comunità e diritti individuali, ed il rispetto delle responsabilità governative nella loro applicazione . Lo stesso Diretto del Fondo Monetario afferma che »i valori umani essenziali non possono essere sostituiti da quelli del mercato ed invo

ca il »rispetto del nostro patrimonio umano in tutta la sua diversità .

Il nuovo ordine mondiale non andrà, in altre parole, imposto dai più potenti ed efficienti Paesi industrializzati, in un resuscitato atteggiamento di tipo colonialista. Esso dovrà invece scaturire dalle diverse potenzialità di ognuno, nella ricerca di compatibilità, piuttosto che da una astratta uniformità di comportamenti. In tale impresa, non nuova nella storia dell'umanità, ma da proporre su scala planetaria, le Nazioni Unite hanno una funzione insostituibile.

Nel gennaio 1992, il primo Consiglio di Sicurezza, a livello di Vertice di Capo di Stato e di Governo, aveva incoraggiato il neo-Segretario Generale Boutros Ghali ad elaborare più efficienti meccanismi di mantenimento della pace e sicurezza. Sei mesi dopo. Boutros Ghali è andato oltre, non soltanto con la menzionata »Agenda per la pace che rivendica la disponibilità di maggiori strumenti coercitivi, ma anche con una molto articolata »premessa al suo annuale rapporto all'ECOSOC, che sottolinea l'intima interconnessione fra fattori politici ed economico-sociali della stabilità internazionale, da affrontare pertanto simultaneamente.

Quest'ultimo aspetto della riforma dell'ONU, rimasto finora nell'ombra dei drammatici avvenimenti che coinvolgono i »caschi blu , costituisce invece l'attività fondamentale per il consolidamento del nuovo edificio dei rapporti internazionali.

Pressato dai Paesi in via di sviluppo che ne hanno promosso l'elezione, Boutros Ghali ha appena operato una profonda ristrutturazione del Segretariato, con una tripartizione dei suoi diretti collaboratori (Undersecretaries-General) nel settore economico, sociale e ambientale, preposti rispettivamente a finalità di analisi delle macrotendenze, di elaborazione normativa (a sostegno degli organismi itergovernativi, specie l'ECOSOC e la neoistituita Commissione per lo Sviluppo Sostenibile sui temi ambientali) ed infine di attuazione e coordinamento operativo dei programmi di sviluppo. Vi è anche l'intenzione di galvanizzare le stesse Commissioni Economiche Regionali dell'ONU e promuovere un processo di decentralizzazione »sul terreno dell'attività analitica ed operativa del sistema societario. Ma l'opera di sintesi e di composizione delle diverse sollecitazioni dovrà continuare a gravitare verso New York, per l'opportuna maggiore visibilità ed autorità.

L'incidenza effettiva di tali meccanismi multilaterali sull'evoluzione dei rapporti economici internazionali è ovviamente soltanto potenziale. Nelle nuove condizioni internazionali, gli organismi intergovernativi dell'ONU sono soltanto in apparenza meno incisivi di quelli di Bretton Woods, giacché rispondono alla ben diversa ma altrettanto essenziale finalità di ampliare il consenso internazionale attorno alla più appropriata ripartizione di compiti e comportamenti fra Paesi donatori e beneficiari della cooperazione allo sviluppo. E non si tratta di meri atteggiamenti astratti, bensì di un'opera di convincimento che già va mostrando i suoi frutti. Più accettabili si presentano infatti le condizioni dell'assistenza allo sviluppo, in termini non più di sottomissione alle pretese del donatore, bensì di accettazione di comuni criteri di »sviluppo umano , di riduzione delle spese militari e di consolidamento delle istituzioni pluralistiche e democratiche nei Paesi beneficiari. Tali pretese, anch'esse »umanitarie

, fanno ormai parte dell'impostazione tanto dei Parlamenti occidentali quanto dell'OCSE.

Ne è risultato, in positivo, uno sfaldamento del cosiddetto »gruppo dei Settantasette , attestatosi per decenni su impostazioni rivendicative fondate su pretese riparazioni per i danni della colonizzazione. I latino-americani vanno riassorbendo i loro conflitti interni, si organizzano in strutture di integrazione economico-regionale e danno segni di consistente ripresa; gli asiatici si raccolgono attorno alle »nuove tigri con modelli di sviluppo autoctoni; soltanto gli africani a sud del Sahara, appesantiti da tradizioni tribali, e gli arabi in presa a introversioni fondamentaliste, appaiono ancora emarginati. Per tacer del caso anomalo dei Paesi in transizione est-europei ed ex-sovietici.

Anche nell'assistenza allo sviluppo, però, l'emergenza prevale di questi tempi sull'impostazione a medio e lungo termine. Ma la funzione essenziale dell'ONU, quella di formare costantemente il consenso internazionale, persiste ed è più che mai rilevante. Fuori luogo, in campo economico, sociale e ambientale, è pretendere - come fanno i Paesi Scandinavi - la costituzione di un »Consiglio di Sicurezza Economico , che gli stessi Stati Uniti rifiuterebbero.

I PVS sono ancora esitanti ad accettare il preteso nuovo ordine mondiale, perché non sono sicuri che quest'ultimo sia intenzionato ad accettarli. Il sistema delle Nazioni Unite, progressivamente, per il tramite dei suoi organi intergovernativi collegiali, ha il compito di rassicurare gli scettici, Di questi tempi, però, l'ONU è ormai palesemente sovraccarica di responsabilità e non soltanto perché si vanno esaurendo le sue capacità finanziarie e strutturali, ma anche perché si interpretano ormai troppo estensivamente le sue competenze statutarie. Vero è che il Consiglio di Sicurezza può difficilmente discriminare fra crisi e crisi ed esporsi ad accuse di parzialità. Ma è altrettanto vero che tale accusa gli può essere rivolta anche per eccesso di zelo, come testimoniano le accoglienze ostili riservate a Boutros Ghali in Somalia, Etiopia e Bosnia attorno a Capodanno.

Si può argomentare che l'Organizzazione fondata quasi cinquant'anni fa sulle macerie del precedente analogo esperimento della Lega delle Nazioni è paradossalmente vittima dei suoi stessi successi. Gli Stati devono però evitare di riversare su di essa compiti che non le spettano o che richiederebbero il concorso attivo di più consistenti responsabilità nazionali. Invece di trovarsi oberata di incarichi sostitutivi degli Stati nel contenimento delle crisi, l'ONU deve proporsi più convincentemente nel suo ruolo istituzionale di prevenzione e persuasione. Sotto la pressione delle emergenze umanitarie, l'azione prevale sulla riflessione e il consenso della comunità internazionale evolve per la forza delle cose, non sempre per intima convinzione.

L'efficienza e la legittimità dell'ONU rinnovata si sedimenteranno man mano, ma continueranno a dipendere dal grado di coesione operativa, nella convergenza di intenti, dei singoli Stati.

 
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