Nel Kosovo si rischia la prossima guerra dei Balcani
Internazionale, 10 settembre 1994
The Wall Street Journal
Paula J. Dobriansky (*)
I serbi praticano l'apartheid con gli albanesi della regione. L'Albania potrebbe reagire. Che farebbero greci e turchi?
Per protestare contro il sistema di apartheid razziale in Sudafrica, la comunità internazionale intraprese una vigorosa campagna mondiale, che sfociò nell'imposizione di sanzioni economiche contro Pretoria e accelerò la fine del regime. Eppure, oggi, in pieno continente europeo, una politica di apartheid etnico viene energicamente condotta nell'indifferenza generale e senza risposte decise. Il luogo è il Kosovo.
Ormai la comunità internazionale è diventata quasi insensibile al flusso infinito di storie d'orrore proveniente dalla Bosnia, con i serbi nel ruolo di imputati principali e l'odio etnico assunto a causa scatenante della carneficina. Ma proprio il fatto che i combattimenti bosniaci, sebbene raccapriccianti, siano rimasti finora geograficamente circoscritti ha infuso una falsa sicurezza per quanto riguarda il rischio di una degenerazione dei conflitti in altre zone dell'ex Jugoslavia e le più gravi minacce che incombono sulla pace regionale.
Non si tratta di una preoccupazione puramente teorica. Il Kosovo rimane vittima dell'apartheid della Serbia ed è il più probabile candidato a un nuovo attacco serbo. La "questione Kosovo" è stata ripetutamente sollevata sin da quando la Serbia ha revocato la status di indipendenza riconosciuto alla repubblica. Ma mentre l'Occidente stenta a trovare una soluzione accettabile in Bosnia, i serbi rafforzano la loro morsa sul Kosovo. L'intervento militare, potenzialmente destabilizzante per la regione, appare soltanto una questione di tempo.
Pulizia etnica
Nel marzo 1989, la Serbia ha annullato unilateralmente l'autonomia del Kosovo e ha avviato una pulizia etnica sistematica dei due milioni di albanesi che rappresentano il 92 per cento della popolazione della regione, causando sofferenze profonde e su vasta scala. In una recente conferenza dell'American Enterprise Institute, l'ex ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Jeanne Kirkpatrick, ha paragonato i provvedimenti della Serbia contro gli albanesi del Kosovo alle prime repressioni degli ebrei nella Germania nazista.
Da quando la Serbia ha espulso una missione di monitoraggio della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), nel luglio 1993, gli attivisti dei diritti dell'uomo sono stati testimoni di un sensibile deterioramento della situazione nel Kosovo. Solo nei primi quattro mesi di quest'anno sono stati denunciati 3mila casi di brutalità della polizia contro gli albanesi. I fondamentali diritti umani degli albanesi sono stati gravemente repressi. Hanno subito perquisizioni immotivate, continue molestie, restrizioni alla libertà di movimento, licenziamenti ingiusti e arresti arbitrari. La maggioranza degli albanesi non può neppure parlare la propria lingua madre senza essere perseguitata.
Pulizia culturale
Tragicamente, stiamo assistendo a un'autentica pulizia culturale dell'ultima generazione di albanesi del Kosovo. Secondo la Federazione internazionale per i diritti dell'uomo di Helsinki, con il rafforzamento del controllo serbo sul sistema della pubblica istruzione, la chiusura delle scuole di lingua albanese, l'allontanamento di insegnanti e studenti albanesi, l'imposizione di un iniquo sistema di quote e la marginalizzazione - se non la diretta abolizione - dell'insegnamento della storia e della letteratura albanese, centinaia di migliaia di giovani albanesi sono stati privati di "un normale sviluppo intellettuale".
In seguito alle continue discriminazioni, gli albanesi sono stati sostanzialmente costretti e creare un sistema educativo "ombra" che va dalle scuole elementari sino a un'università alternativa. Il dottor Alush Gashi, membro del Consiglio per la difesa dei diritti e delle libertà dell'uomo nel Kosovo, ha dichiarato che "la strategia serba punta a cambiare l'etnicità del Kosovo con discriminazioni istituzionalizzate e repressioni strutturali. Il suo obiettivo è la pulizia etnica, per il momento senza una guerra aperta ma con quotidiane brutalità della polizia".
Ci si può chiedere perché, con tante drammatiche situazioni in tutto il mondo, fra cui il continuo massacro della Bosnia, gli sviluppi nel Kosovo dovrebbero preoccupare l'Occidente. Ma per gli europei l'importanza della pace nel cortile di casa è addirittura scontata, e sostanzialmente anche gli americani sono interessati a un'Europa pacifica e fiorente.
Di fatto, l'apparente impunità con cui il signore della guerra dei serbi bosniaci, Radovan Karadzic, e i suoi protettori di Belgrado hanno potuto perpetrare le atrocità della Bosnia ha già incoraggiato altri piccoli tiranni che considerano l'aggressione e le stragi uno strumento praticabile per preservare il loro potere. Se si consentisse al regime del leader serbo Slobodan Milosevic di scatenare una nuova ondata di barbarie nel Kosovo e aggravare la situazione, questo di fatto darebbe il via libera a una serie di altri conflitti che covano nell'ex Unione Sovietica e nei paesi confinanti. E stiamo parlando soltanto delle conseguenze a lungo termine.
Il risultato più immediato di uno scoppio di violenza nel Kosovo è che, con ogni probabilità, provocherebbe l'intervento dell'Albania in difesa dei fratelli etnici e potrebbe determinare anche il coinvolgimento di altri paesi vicini, compresi due membri della Nato, la Turchia e la Grecia. Il conflitto che ne deriverebbe avrebbe sicuramente un effetto destabilizzante nella regione e un impatto negativo sulla sicurezza europea. Inoltre, il prevedibile raddoppiamento dei rifugiati, se non la loro triplicazione, avrebbe alti costi politici, economici e sociali per l'Europa. Le popolazioni sfollate alimenterebbero un ambiente instabile e un profondo malcontento.
Per queste ragioni l'Occidente, e soprattutto gli Usa, devono agire. Nonostante la sua vicinanza geografica, l'Europa continua a dipendere dalla leadership statunitense nella crisi jugoslava. L'America dovrebbe continuare a fornire aiuti umanitari. In effetti, il senatore repubblicano Alfonse D'Amato, di New York, ha proposto una legge, già approvata dal Senato statunitense, che assegna al Kosovo 8 milioni di dollari. Gli Usa dovrebbero anche continuare a sostenere i programmi di assistenza ai movimenti democratici di massa che mirano a consolidare lo sviluppo democratico ed economico in Bulgaria, Albania, Romania e nell'ex Jugoslavia.
Le democrazie nascenti possono essere d'aiuto rappresentando un modello e al tempo stesso un contrasto: un modello per gli albanesi del Kosovo, i quali vogliono che la democrazia metta radici nel loro paese, e un contrasto rispetto al governo spietato e non rappresentativo della Serbia. Il processo democratico, inoltre, è il modo più pacifico e tollerante per affrontare le differenze e risolvere i conflitti.
Una politica sbagliata
La politica statunitense fino a oggi ha puntato soprattutto a sostenere il processo di pace in Bosnia. Tuttavia, anche se il piano che viene proposto dalle cinque potenze del Gruppo di contatto venisse accettato da tutte le parti interessate, la pace in Bosnia non trionferebbe perché il piano stesso è intrinsecamente sbagliato, in quanto legittima una parte del territorio conquistato dalle forze serbe incoraggiando di conseguenza ulteriori aggressioni. In secondo luogo, i negoziati non hanno neppure affrontato la tragedia del Kosovo e altri possibili punti caldi nel territorio dell'ex Jugoslavia.
Paradossalmente, la fine delle ostilità in Bosnia, liberando l'attenzione e le risorse di Belgrado, potrebbe provocare una nuova aggressione serba in un altro luogo e il Kosovo sarebbe la vittima più probabile. Fortunatamente la Camera dei rappresentanti statunitense sta discutendo una legge, nota come Atto per la pace e la democrazia nel Kosovo, secondo cui le sanzioni economiche internazionali contro la Serbia non dovranno essere revocate fino a quando non verrà risolta la crisi nel Kosovo; il collegamento auspicato dal progetto di legge indica una linea d'azione coerente e di principio che dovrebbe essere sostenuta.
Infine gli Stati Uniti, con l'appoggio dei loro partner europei, dovrebbero continuare a riconoscere il presidente Ibrahim Rugova - il leader legittimo del Kosovo - e svolgere un ruolo più attivo per promuovere i negoziati fra albanesi e serbi.
Anche se la credibilità occidentale, dopo le innumerevoli false partenze e le minacce rimaste inattuate in Bosnia, risulta gravemente compromessa, declinare ogni responsabilità nel Kosovo provocherebbe probabilmente calamità di carattere sia strategico che etnico.
Il sistema dell'apartheid era immorale e sbagliato in Sudafrica; è altrettanto disumano nel Kosovo.
(*) Paula J. Dobriansky è stata vice assistente segretario di Stato e direttrice per gli affari sovietici ed europei del Consiglio nazionale della sicurezza nelle amministrazioni statunitensi di Reagan e Bush