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Conferenza Partito radicale
Meloni Riccarda - 6 marzo 1995
LA STAMPA, 4 marzo 1995

UNA SIRENA SENZA CODA

Mariateresa Di Lascia, un romanzo morantiano

di Lorenzo Mondo

Mariateresa Di Lascia è morta precocemente, nel settembre scorso, a quarant'anni. Nel rimpianto degli amici che l'hanno conosciuta come militante del Partito Radicale, impegnata generosamente sul fronte dei diritti umani e della difesa ambientale. Ma ora un altro rimpianto, più intenso e duraturo, si aggiunge per la scrittrice che ha avuto il tempo di rivelarsi soltanto con un romanzo postumo, 'Passaggio in ombra'. Sì, come è già stato osservato, è un romanzo che fa pensare immediatamente a Elsa Morante, che respira consanguineità e gratitudine per la scrittrice di 'Menzogna e sortilegio'; ma la cosa più sorprendente, a cinquant'anni di distanza, è che si sia sviluppato da quel seme come un fiore dotato tuttavia di una sua peculiare verità. E' un caso raro, che presuppone, nelle pagine di un libro letto con amorosi sensi, il disvelamento della propria vita e l'impulso a raccontarla: con diversi accidenti, nuove coloriture del linguaggio e dell'anima, che non compromettono tuttavia la sostanza di una trama e

di una legge: di un destino.

Che cosa è mai questo 'Passaggio in ombra' se non un percorso bruciante tra menzogne e sortilegi? Chiara li rammemora nella sua casa deserta, ricolma di pezze e abiti usati che ha raccolto rovistando nei mercatini, ciarpame di tante esistenze malandate. L'asma le contende il respiro, la nevrosi la spinge sull'orlo di quotidiani abissi, la protegge appena il suo "canto di sirena senza coda": incapace di nuotare tra i gorghi della vita, ma soltanto tra quelli del raccontare. I capitoli si succedono così come tante illuminazioni - benefiche o terrificanti - che sempre riconducono al paragone di quella donna prigioniera della claustrofilia. Non contano per Chiara, e nemmeno per la sua creatrice, gli avvenimenti della storia grande che appena sfiorano la sua coscienza, non l'aderenza a un Meridione che viene rappresentato senza sottolineature sociologiche e dialettali. Perché si tratta, con una diminuzione soltanto apparente, "di gesta semplici e tremende, come sono le imprese della vita".

In principio è la madre Anita, la giovane 'mammana' o ostetrica che, in forza della sua professione, è doppiamente investita dal compito di schiudere il varco alla vita. Tra lei e Chiara c'è un rapporto di grande tenerezza, di felicità piena, che sembra scaturire da una sorgente unica, non complicata e inquinata dalla dualità genitrice. Anita infatti è stata abbandonata con la figlia in grembo da Francesco, che è partito per la guerra. Quando ritorna, bello di fama e di sventura, è Chiara a esserne incantata, come se fosse un 'magnifico paladino', non la madre, che si protegge con l'orgoglio e la diffidenza. Francesco appartiene a una razza scapestrata e velleitaria, ma nel fondo neghittosa e pusillanime, in cui il conformismo delle donne è il risvolto delle trasgressioni maschili. Nulla di così nuovo, per il nostro Sud, per un ambiente piccoloborghese, se non fosse la figura di Peppina, la vecchia zia. Per lei, per la sua condiscendente visionaria, il sangue guasto dei D'Auria si imporpora di salute e nobil

tà. E' sempre lì a vaticinare un futuro luminoso per la famiglia, e soprattutto per l'amatissima Chiara, la 'principessa' chiamata a redimere lutti e sfortune con la grazia e intelligenza. Ed è sul versante di questa immaginazione fabulatrice, che si fa ricordare a ogni passo il libro della Morante, sia pure smorzato nel registro psicologico ed eluso in quello linguistico. Qui infatti, ad una comune attitudine allo scandaglio interiore non si accompagna una analoga accensione sentimentale e metaforica. Anita cederà alle insistenze di Francesco per compassione più che per amore, e ne resterà un'altra volta ferita, quando attenderà inutilmente nella chiesa il matrimonio riparatore. Ferita fino a morirne. E una stessa sorte tocca a Chiara, abbandonata dal cugino, il malinconico bastardo che non trova il coraggio di lottare contro i pregiudizi, di rispondere al suo radioso sogno di adolescente. Anche se la parte centrale in cui si raccontano le disavventure giudiziarie di Francesco è di impianto piuttosto tradiz

ionale, il romanzo vive di queste oscillazioni tra speranza e frustrazione, in un'ombra punteggiata di luci svanenti. A esserne esaltata è soprattutto la solidarietà femminile: nella sottomissione, nella sogneria, nella ribellione indomita a un mondo fatuo e feroce. Chiara, creatura di confine, non sa concedersi altro che il ripiegamento in una solitudine popolata di fantasmi, in un silenzio che - ci viene detto nelle ultime righe - "attraversa la sconfinata regione della salvezza". E non sai se la salvezza stia nell'esercizio stesso del ricordare e dello scrivere, o in una forma superiore di compatimento creaturale. Nella toccante trenodia sulla degradazione di una famiglia, sulla sconfitta di una giovane donna che si è illusa di raccogliere l'oro della vita, di sollecitare dalle meschine realtà quotidiane la lucentezza della favola.

 
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