Parla uno dei protagonisti della finanza internazionale. Il miliardario che dice di voler salvare il pianeta. Ma che forse sta costruendo il suo impero.
da Internazionale, 10 marzo 1995
Da "Foreign Policy" un intervento di George Soros, finanziere, filantropo e presidente della Soros Foundation
Washington, primavera 1995 - Negli ultimi cinque anni ho dedicato molto del mio tempo, delle mie energie e del mio denaro all'Europa centrale e orientale e all'ex Unione Sovietica, perché ero convinto che il crollo dell'Unione Sovietica fosse un evento rivoluzionario le cui conseguenze avrebbero cambiato il corso della storia.
Avevo costruito la fondazione Open Society nel 1979 e nel 1984 avevo cominciato a operare a livello locale nel mio paese d'origine, l'Ungheria, ma il mio coinvolgimento era aumentato man mano che vedevo accelerare il processo di collasso del sistema sovietico. Oggi esiste in più di venti paesi del mondo una rete di fondazioni che cerca di promuovere il processo di trasformazione delle società chiuse in società aperte. Il mio contributo annuale è aumentato dai 3 milioni di dollari del 1979 ai 300 del 1993. Tuttavia, la quantità di denaro speso non è la misura migliore dell'efficacia dell'operazione; alcuni dei progetti più validi sono i meno costosi. Ad esempio, abbiamo commissionato con successo la stesura di quasi mille nuovi libri di testo per sostituire nelle scuole russe quelli ispirati al marxismo-leninismo, ma quando abbiamo stanziato più fondi per questo progetto hanno cominciato a verificarsi episodi di corruzione.
L'euforia del 1989
All'epoca in cui ho cominciato a occuparmi del problema, il comunismo aveva generato società chiuse in tutta l'area. Lo Stato era dominato dal partito e la società dominata dallo Stato. L'individuo era alla mercé dell'apparato dello Stato-partito. Il dogma comunista era falso proprio perché sosteneva di incarnare la verità ultima. I suoi principi potevano venir fatti rispettare solo facendo violenza alla realtà e, anche in quel caso, non potevano essere sostenuti a tempo indeterminato. La frattura tra dogma e realtà diventava sempre più evidente e l'influenza del dogma sulle menti della gente era sempre più tenue finché, alla fine, i regimi comunisti crollarono.
C'è stato un momento di euforia nel 1989, quando la gente si è sentita liberata da questi regimi oppressivi. Quel momento avrebbe potuto essere utilizzato per avviare la transizione verso una società aperta. Fu proprio quell'opportunità che mi indusse a impegnare tutte le mie energie in questo processo. Ma ora devo ammettere che il momento è passato e la possibilità di trasformazioni rapide ci è sfuggita.
Il crollo di una società chiusa non porta automaticamente a una società aperta, perché la forma di una società aperta è più avanzata e più sofisticata di quella di una società chiusa. La libertà non è soltanto assenza di repressione. Una società in cui le persone sono libere ha bisogno di istituzioni che proteggano questa libertà e, soprattutto, ha bisogno di persone che credano in quelle istituzioni. Le istituzioni stesse devono essere molto più sofisticate perché devono permettere l'espressione di diversi punti di vista e di differenti interessi, mentre una società chiusa riconosce solo un punto di vista - quello dominante. In poche parole, la transizione da una società chiusa a una aperta è un passo in avanti e verso l'alto. Non può essere realizzato con un balzo rivoluzionario senza aiuto dall'esterno. Io ho cercato di offrire questo aiuto, ma i governi delle società aperte del mondo libero non erano altrettanto motivati. All'epoca si era ben disposti verso l'Europa orientale, ma in qualche modo questo a
tteggiamento non si traduceva in azione concreta. La politica dei governi, sia in Europa che negli Stati Uniti, era caratterizzata da una singolare mancanza di comprensione e di sagacia.
Confrontiamo le reazioni al crollo dell'impero sovietico con quelle che si ebbero al crollo dell'impero nazista. Allora gli Stati Uniti ebbero ancora l'accortezza, e la generosità, di impegnarsi nel piano Marshall, e il piano Marshall fece miracoli. Non fornì semplicemente assistenza, fornì uno schema all'interno del quale i paesi europei poterono collaborare. Non inviò semplicemente tecnici esperti ma portò anche un gran numero di europei negli Stati Uniti e permise loro di formarsi. Sembriamo aver dimenticato queste esperienze così positive. Quando finalmente l'impero sovietico è crollato, non esisteva alcun sostegno politico a un piano di assistenza su vasta scala, e l'espressione "piano Marshall" era diventata quasi una parola sconcia.
Venendo a mancare una leadership occidentale, il crollo del sistema sovietico non ha fatto emergere delle società aperte. Inoltre, nessuno ci assicura che ciò che non è stato ottenuto sull'onda del momento rivoluzionario verrà realizzato nel corso di un processo più lento e laborioso. Al contrario, se mai una tendenza sta emergendo, va decisamente nella direzione opposta.
Il crollo di società chiuse che si basavano sul dogma universale del comunismo ha portato a un diffuso rifiuto di qualsiasi idea universale e i paesi che un tempo formavano l'impero sovietico stanno cercando un principio organizzatore nelle proprie storie individuali. Esistono, naturalmente, eccezioni alla regola. Ma il tema dominante che sta emergendo è quello di identità nazionale o etnica piuttosto che un qualsiasi concetto universale come democrazia, diritti umani, legalità o società aperta.
I nuovi nazionalismi
Tutto questo ha creato una situazione molto pericolosa perché le rivendicazioni nazionali possono essere sfruttate per formare società con un grado maggiore o minore di chiusura e portare a conflitti. Per mobilitare la società, lo Stato ha bisogno di un nemico; se non ha un nemico se ne deve inventare uno. E' quello che fece Hitler quando identificò negli ebrei i nemici del popolo tedesco, e ha molti imitatori nel mondo post-comunista. Purtroppo i motivi di rivendicazione non mancano, perché i regimi comunisti hanno represso qualsiasi aspirazione nazionalistica o etnica che non rispondesse ai loro scopi.
Anche se alcuni degli attuali leader nazionalisti sono ex dissidenti, gli ex comunisti sono di solito più abili nello sfruttare il sentimento nazionale perché sanno meglio come agire sulle leve del potere. Possono raccogliere un maggior consenso di quanto riescano a fare i leader democratici che lottano per realizzare una società aperta. Prendiamo ad esempio Slobodan Milosevic in Jugoslavia, Franjio Tudjman in Croazia, Vladimir Meciar in Slovacchia e Leonid Kravciuk in Ucraina, e confrontiamo il tipo di maggioranze che sono riusciti a conquistare all'apice della loro popolarità con la ristretta base politica di cui i governi democratici filo-occidentali hanno dovuto accontentarsi in paesi come la Russia, la Polonia, la Bulgaria e la Macedonia.
Le vittorie degli ex comunisti
In questo contesto, le recenti vittorie elettorali dei partiti ex comunisti in paesi come l'Ungheria, la Polonia o la Lituania non sono, di per sé, troppo preoccupanti. Si tratta in genere di riformisti che vogliono allontanarsi il più possibile dal comunismo. Il loro riemergere è un giusto allargamento dello spettro democratico. Inizialmente i risultati delle elezioni dell'anno scorso in Ungheria mi hanno fatto piacere. La linea nazionalista è stata rifiutata dall'elettorato e il fatto che il partito socialista sia entrato a far parte di una coalizione con i Liberi democratici sulla base di un programma ben concepito e ben articolato faceva ben sperare per il futuro. Purtroppo l'incapacità del governo di mettere in atto il programma mostra il lato negativo della tradizione riformista comunista: dà il massimo valore alla pace sociale e non è disposta a prendere le dure misure necessarie per introdurre le riforme.
Nel caso della Polonia, il cambiamento è stato ancora più infelice. Quando è stato sconfitto, il governo aveva appena cominciato a lavorare come si deve e le dolorose e radicali riforme introdotte nel 1990 avevano appena cominciato a dare i loro frutti. Ma il cammino delle riforme era irreversibile e di conseguenza oggi la Polonia è forse il paese europeo più dinamico, sia nell'economia che nello spirito. La cosa peggiore che gli può accadere adesso è di perdere un po' di slancio ma, tutto considerato, non sono molte le probabilità di un ritorno al comunismo. Il comunismo come dogma è ormai morto e sepolto. Il vero pericolo è che emergano potenziali dittatori nazionalisti. Stanno giocando su un campo che decisamente pende dalla loro parte. E' molto più facile mobilitare una società a sostegno di una reale o immaginaria ingiustizia nazionale piuttosto che a sostegno di idee astratte come quelle di democrazia o società aperta. L'edificazione di una società aperta è essenzialmente un processo costruttivo, ed è
fin troppo facile usare i conflitti etnici per minare le sue fondamenta.
Prendiamo il caso dell'ex Jugoslavia, un paese che era aperto all'occidente da più di vent'anni e che aveva sviluppato le risorse intellettuali necessarie per formare una società aperta. La riforma monetaria fu introdotta in Jugoslavia e in Polonia contemporaneamente nel 1990. La Jugoslavia era più preparata a realizzarla. Aveva un gruppo di persone che erano state addestrate dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, e inizialmente la riforma ebbe, in effetti, più successo che in Polonia. Poi Milosevic saccheggiò il tesoro dello Stato per la sua campagna elettorale, e questo contribuì alla distruzione della stabilità monetaria del paese. Fu la fine del tentativo di trasformare la Jugoslavia in una società aperta.
Ora abbiamo un esempio ancora più eclatante: la Grecia. Si tratta di un paese membro dell'Unione europea e della Nato, di un paese pienamente integrato nella comunità internazionale. E tuttavia è riuscito a portare il sentimento nazionalista contro la Macedonia a livelli di parossismo. Ha ingigantito questo piccolo e debole vicino con cui confina a Nord, la Repubblica di Macedonia, fino a farlo diventare una minaccia per l'integrità territoriale della Grecia. E' vero che in Macedonia esiste una minoranza che coltiva sogni di irredentismo basati su ingiustizie etniche sofferte in passato. Ma il governo della Macedonia è sinceramente impegnato nella creazione di uno Stato multietnico e democratico. E' pronto a fare praticamente qualsiasi concessione tranne quella di rinunciare alla propria identità. Ma l'opinione pubblica greca guarda agli estremisti, non al governo macedone, e in Grecia la situazione viene sfruttata per scopi politici interni.
Nel frattempo, l'economia macedone, già gravemente danneggiata dalle sanzioni contro la Serbia, sta crollando sotto il peso dell'embargo greco. Il collegamento ferroviario funziona da Nord a Sud e la Macedonia è isolata sia a Est che a Ovest. Di conseguenza l'industria pesante, che utilizza il trasporto su rotaia, si è dovuta praticamente fermare. La crisi economica sta mettendo in pericolo la stabilità politica. La coalizione multietnica e democratica è minacciata dagli estremisti sia sul fronte slavo-macedone sia su quello albanese. Potrebbe facilmente crollare sotto la tensione dell'embargo e, se la Macedonia crolla, ci sarà una terza guerra dei Balcani.
Ci sono molte cose di cui preoccuparsi in Europa orientale. Quando mi sono imbarcato nel mio progetto, avevo programmato una campagna a breve termine che fosse un esempio per le istituzioni più lente e impacciate delle nostre società aperte, compresi i governi. Purtroppo mi ero sbagliato. Ora penso in termini biblici - quarant'anni nel deserto. La battaglia in favore delle società aperte non è perduta, come dimostrano gli esempi di Polonia e Ungheria. Ma ci vorrà molto tempo e molto aiuto dall'esterno, ed è questo che mi preoccupa.
Paura della libertà
Le società aperte permettono alle persone di usare le proprie energie creative. La libertà produce prosperità. Ma sono stato sempre consapevole di un punto debole nel concetto di società aperta. Chi vive in una società aperta non se ne rende neanche conto, né tanto meno la vede come una meta desiderabile e degna di sacrifici. In un certo senso, la libertà è come l'aria. La gente lotta per averla solo quando ne è privata. Quando c'è, la diamo per scontata. Ma in un altro senso, la libertà è qualcosa di molto diverso: se non ce ne prendiamo cura e non la proteggiamo, ha una certa tendenza a scomparire.
Se c'è una lezione che dobbiamo apprendere dagli eventi rivoluzionari che hanno avuto luogo in Europa orientale a partire dal 1989, è che la libertà è qualcosa di più che assenza di repressione, e che il crollo di una società chiusa non crea automaticamente una società aperta. Il guaio è che questa lezione non è stata appresa. Quando è caduto l'impero sovietico, gli occidentali non hanno esitato a dichiarare che si trattava di una vittoria per il mondo libero. Ma al tempo stesso non se la sono sentita di fare nessun sacrificio per far nascere delle società libere e aperte in quella parte del mondo. Le conseguenze di questo sono ormai dolorosamente evidenti, ma non abbiamo ancora neanche cominciato a prenderne atto.
Che cosa è andato storto? Credo che il nostro concetto di libertà sia cambiato. Durante la Seconda guerra mondiale, la libertà veniva considerata un'idea per la quale eravamo pronti a combattere e a sacrificarci. Per come veniva concepita allora era un'idea che non implicava solo la libertà del nostro paese, ma anche di quelli dove regnava il totalitarismo. Questo concetto è sopravvissuto per qualche anno dopo la fine della guerra. Ha favorito lo smantellamento dei regimi coloniali e la nascita di un'alleanza anticomunista.
Ma gradualmente quell'idea si è andata affievolendo, e ne è emersa un'altra che rifiutava esplicitamente il perseguimento dell'ideale di libertà come obiettivo della politica estera di un paese. Era un'idea "realistica", secondo la quale si sosteneva che uno Stato dovesse cercare il proprio interesse in base alla propria situazione geopolitica e accordare a considerazioni morali o etiche solo un ruolo di secondo piano. Tali considerazioni possono essere utili a scopi propagandistici - per mobilitare l'opinione pubblica all'interno o all'estero ma ci si può mettere nei guai se si crede sul serio alla propria propaganda. Nelle relazioni internazionali, al concetto di realismo si è affiancato quello di economia liberista, che ha goduto di un miracoloso revival negli anni Ottanta. In base a esso si sostiene che la libera ricerca del proprio interesse porta a una migliore ripartizione delle risorse. Questi sono stati i due concetti principali che hanno guidato la nostra reazione alla caduta del sistema sovietico,
ma sono entrambi totalmente inadeguati all'attuale situazione.
Il nuovo ordine mondiale
Fin quando stavamo combattendo all'ultimo sangue con l'Impero del Male, avevamo una visione chiara della nostra posizione nel mondo. L'ordine mondiale era stabile perché ciascuna delle parti aveva la capacità di distruggere l'altra e perciò nessuna delle due poteva rischiare una guerra totale. Potevamo anche definirci in opposizione al nostro nemico; eravamo i leader del mondo libero. Ma adesso la stabilità dell'ordine mondiale è stata distrutta dalla disintegrazione interna dell'impero sovietico, e la cosa ancora peggiore è che abbiamo perduto il nostro senso di identità. Gli Stati Uniti vogliono ancora essere una superpotenza e guidare il mondo libero, ma gli americani non sanno più che cosa significano questi termini. Non sappiamo più che cosa vuol dire mondo libero e non sappiamo più se dobbiamo difenderlo, perché ormai siamo convinti che la nostra vita debba essere basata sul perseguimento del nostro interesse personale, come ci insegnano le dottrine del realismo e del liberismo.
Per certi aspetti la situazione attuale non ha precedenti. In passato, la pace e la stabilità sono state mantenute da una potenza imperialistica, da un equilibrio di poteri, o da una combinazione delle due cose. In questo momento non abbiamo niente di tutto ciò. Gli Stati Uniti non hanno la capacità, o l'interesse, di dominare il mondo come fece la Gran Bretagna del Diciannovesimo secolo. La Gran Bretagna traeva sufficienti vantaggi dal libero commercio per giustificare il mantenimento di una grande flotta navale. Gli Stati Uniti, invece, non sono più i principali beneficiari del libero commercio e non possono permettersi di essere i poliziotti del mondo. Dobbiamo fare affidamento sull'azione collettiva, ma non abbiamo le idee chiare su quale sia il nostro interesse collettivo.
La conseguenza di tutto questo è un pericoloso vuoto di potere. C'era una qualche speranza che sarebbe stato riempito dalle Nazioni Unite, ma le Nazioni Unite non sono migliori degli Stati che le compongono. Gli Stati membri generalmente hanno come obiettivo i loro interessi nazionali, a scapito dell'interesse collettivo, e le Nazioni Unite sono gestite da una burocrazia che e più interessata alla propria sopravvivenza che non alla sopravvivenza della nostra civiltà. Le istituzioni internazionali non sono quasi mai state capaci di mantenere la pace, e non c'è ragione di credere che nella situazione attuale le cose andranno diversamente. I disastri che hanno fatto seguito all'intervento delle Nazioni Unite in Bosnia e in Somalia ne costituiscono un'ampia prova.
Una via d'uscita
Che cosa si dovrebbe fare? Io proporrei di considerare la creazione e la difesa delle società aperte come uno degli obiettivi della politica estera dei nostri Stati. Nel caso dell'ex blocco sovietico dovremmo anzi considerarlo il nostro obiettivo principale. Faccio una distinzione tra l'ex blocco sovietico e il resto del mondo perché il sistema sovietico è irrimediabilmente crollato; la scelta del sistema che prenderà il suo posto avrà un'influenza profonda sul corso della storia e perciò sul nostro futuro. Nel resto del mondo, la promozione delle società aperte è un obiettivo tra tanti; nell'ex blocco sovietico è di fondamentale importanza. A mio avviso, anche il problema nucleare dovrebbe essere subordinato a questo.
Come il favorire lo sviluppo di società aperte nel resto del mondo si possa conciliare con altri scopi politici è una questione di valutazioni, o più probabilmente di errori di valutazione. Quello di favorire la nascita di una società aperta in Cina è un obiettivo valido, ma non è chiaro quale sia il modo migliore per farlo. Dato che il nostro governo ha optato per il commercio e ha deciso di confermare alla Cina la condizione di Stato più favorito, dovremo assicurarci che il flusso di capitali sia accompagnato da un flusso di informazioni e di idee. Un altro valido obiettivo politico è quello di fare pressioni per l'apertura di mercati interni in Giappone, ma non abbiamo ancora trovato il modo giusto per raggiungerlo. Ad Haiti, dove l'intervento militare non poteva essere evitato, lo scopo dichiarato avrebbe dovuto essere quello di creare una società più aperta e il successo dell'operazione dovrebbe essere giudicato in base a questo criterio. L'ultima volta che gli Stati Uniti hanno occupato Haiti hanno anc
he addestrato un esercito per reprimere i cittadini haitiani dopo il ritiro delle forze americane.
Una società aperta è un tipo di organizzazione che può essere approssimativamente descritta come una democrazia. Ma il concetto di società aperta e più ampio. Non significa solo un governo democraticamente eletto ma anche una società che non è dominata dallo Stato. Un tale concetto si fonda sulla presenza di una forte società civile e sulla legalità. E non è sufficiente che il governo sia eletto da una maggioranza, deve anche rispettare le minoranze e le opinioni minoritarie.
Io proporrei di sostituire uno schema che contrappone società aperte a società chiuse alla vecchia contrapposizione tra comunismo e mondo libero. Il vecchio schema era fortemente sospetto, anche quando era significativo, perché l'anticomunismo poteva essere usato per giustificare azioni incompatibili con una società aperta. Il nuovo schema ci permette di definirci in base ai nostri obiettivi piuttosto che in contrapposizione a un qualche nemico. Ci offre una prospettiva che al momento è totalmente assente. Tanto per cominciare, ci aiuta a capire che oggi le dittature nazionaliste sono una minaccia quanto prima lo era il comunismo. Ci fa anche capire che il conflitto in Bosnia non è una guerra civile tra serbi, croati e musulmani, ma piuttosto uno scontro tra un concetto civico e un concetto etnico di cittadinanza in cui il concetto civico sta subendo una sconfitta. Se lo avessimo capito prima, ci saremmo comportati diversamente.
Il ruolo delle Nazioni Unite
Non abbiamo molto tempo per ritrovare la ragione. Il crollo del sistema sovietico è stato un evento rivoluzionario. Coloro che vi sono stati direttamente coinvolti non hanno potuto fare a meno di rendersi conto che stavano vivendo una rivoluzione. Ma siamo stati tutti indirettamente coinvolti perché il crollo sovietico ha significato la fine dell'ordine del mondo stabile che è prevalso durante la Guerra fredda - solo che non ce ne rendiamo conto. Continuiamo a occuparci dei nostri affari mentre le istituzioni che difendono la nostra sicurezza collettiva si stanno disintegrando. Le Nazioni Unite sono screditate, la Nato è in crisi e se non prendiamo coscienza del fatto che l'ordine del mondo è crollato, ci troveremo di fronte al caos planetario. La disintegrazione dell'Alleanza atlantica seguirà la disintegrazione dell'impero sovietico.
Che ci piaccia o meno, il nuovo ordine mondiale dovrà fare affidamento sulle Nazioni Unite, perché gli Stati Uniti non sono disposti a fare o non sono in grado di fare la funzione di poliziotti del mondo. Né possono isolarsi dal resto del mondo, e non esiste nessuna altra istituzione per la sicurezza collettiva che possa prendere il loro posto. Le Nazioni Unite vanno altrettanto bene, o altrettanto male, quanto le grandi potenze che hanno il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Durante la Guerra fredda erano immobilizzate dall'antagonismo tra potenze occidentali e Unione Sovietica. Nella disfatta bosniaca sono state screditate dalla mancanza di unità tra le democrazie occidentali - Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Per permettere alle Nazioni Unite di agire efficacemente è necessario ricomporre l'unità tra le democrazie occidentali. E solo il concetto di società aperta può essere il principio unificatore. Esso implica valori condivisi, un comune interesse per la pace e la stabilità e la libera cir
colazione di merci, persone, capitali e idee. La creazione e la difesa di società aperte non può essere l'unico obiettivo della politica estera degli Stati, ma nel caso dei paesi dell'ex blocco sovietico dovrebbe avere la massima priorità.
Un incerto futuro
Una volta accettato questo principio, ne conseguirà un impegno costruttivo nei confronti della Russia e degli altri paesi dell'ex impero sovietico. L'obiettivo sarà quello di facilitare la loro trasformazione in società aperte anche con l'aiuto delle istituzioni finanziarie internazionali, del commercio e degli investimenti. La Russia potrebbe a sua volta offrire un apporto costruttivo al Consiglio di sicurezza, trasformandolo in un efficace strumento di sicurezza collettiva.
Sicuramente scoppieranno molti conflitti all'interno e nelle vicinanze dell'ex impero sovietico. Come questi conflitti si risolveranno, dipenderà in gran parte dal carattere delle società coinvolte. Il realismo sarà sia il risultato sia la causa dell'evoluzione interna di quelle società. Per esempio, il crollo economico e politico dell'Ucraina assicurerebbe il riemergere della Russia come potenza imperialistica. Al contrario, la sopravvivenza dell'Ucraina come paese democratico e orientato verso un'economia di mercato contribuirebbe a spingere la Russia nella stessa direzione.
Fortunatamente, nel corso del vertice di Napoli nel luglio del 1994, i capi di Stato del G7 hanno riconosciuto l'importanza dell'Ucraina offrendo 4 miliardi di dollari di aiuti se il paese avvierà una politica di riforme economiche. Il neo eletto presidente ucraino, Leonid Kuchma, era deciso ad afferrare quell'ancora di salvezza e ha avviato un ambizioso programma di riforme. E' la prima volta dalla caduta dell'impero sovietico che gli aiuti internazionali hanno dato origine a riforme economiche. Questo dimostra che se la creazione e la difesa di società aperte diventa un obiettivo politico esplicito, può effettivamente produrre i risultati desiderati.