di Angiolo BandinelliL'OPINIONE, 1 SETTEMBRE 1995
Il raid aereo Nato sulle posizioni serbe del Monte Izman accellererà forse una soluzione militare-diplomatico della guerra, ma sicuramente non contribuirà a spostare la "soglia critica" dell'auspicabile accordo per traghettarlo dall'armistizio guerreggiato ad una pace vera, duratura.
Il baratro di risentimenti, di odi secolari, di rivendicazioni, di faide etniche, religiose, culturali, è comunque di dimensioni tali da far perdere la speranza di un ritorno di quei popoli ad una forma accettabile di convivenza. Ma la Jugoslavia, o quel che ne resta, è - o almeno era - anche altro.
Alla fine degli anni '50 varcai per due volte, in due anni, il brullo confine carsico tra Trieste e Lubiana. Da turista, o da curioso. L'emozione che provai, quando vidi alle mie spalle le postazioni confinarie e le guardie con la stella rossa sulla caratteristica bustina e lo Sten automatico in braccio, fu enorme. Passavo da un Paese occidentale ad un Paese comunista, dall'Ovest all'Est: entravo - allora la parola non era eccessiva - nell'avventura. E come una avventura vissi molti giorni tra Lubiana a Zagabria, tra Sarajevo e Belgrado, tra Subotica e Banja Luka; giorni intensi, indimenticabili. Sopratutto in grazia di quella che a me apparve subito una ricchezza stupenda, la diversità e varietà delle genti, dei volti, degli atteggiamenti, che scoprivo da una città all'altra, da una regione all'altra. Ne scrissi sul "Mondo". Pannunzio era restìo a parlar bene dei paesi d'oltrecortina. Ma i miei Reisebilder dovettero convincerlo, e magari gli piacquero. Non ne tagliò una sola riga.
Non so se quella Jugoslavia fosse fittizia, libera o coatta: io parlai con gli italiani di Lubiana e con gli ebrei sopravvissuti della Sinagoga di Subotica, circondata dai carrettini e dai cavalli degli zingari venditori di meloni ai bordi delle strade; chiacchierai con studenti colti di Zagabria e con dirigenti d'industria; fui ospitato nella pensioncina di una vecchia dama (Esterhazy-Palffy era il suo cognome) che conservava l'Almanacco di Gotha fino al 1914, i ritrattini oleografici di Sissi, una stampa del generale Radetzky nella bianca divisa imperiale, le giacche con gli alamari di astrakan degli ussari ungheresi e le primissime opere di Thomas Mann e di Schnitzler; bevvi caffé alla turca tra i minareti di Banja Luka e visitai monasteri e chiese ortodosse a Belgrado, sul Kalemegdan che sorveglia ancora le porte del Danubio.
Quella Jugoslavia era, o poteva essere, un esempio per l'Europa. Era nata così, come impasto di popoli, non solo per ambizioni dinastiche intese a creare la Grande Serbia, che pure furono determinanti sotto la spinta e la protezione della Francia e di altri paesi, ma non meno per possenti spinte democratiche. Quella Jugoslavia era anche l'opera di patrioti come il croato Franjo Supilo, il mazziniano, l'amico e seguace di Gaetano Salvemini con il quale intessé un lungo scambio di progetti ed idee su questioni delicatissime, quale ad esempio il destino della Dalmazia. Ma ancora all'inizio della guerra mondiale patrioti e nazionalisti slavi, ungheresi, slovacchi, non pensavano affatto a distruggere l'Impero Austroungarico: quel che si cercava era una nuova dislocazione, un miglior riassetto tra etnie, governi, classi dirigenti. Poi le cose precipitarono, e nacque lo Stato multietnico che abbiamo conosciuto.
Chi voglia ripercorrere quella storia può farlo scorrendo la splendida ricostruzione che ne ha fatto uno studioso illustre, Leo Valiani ("La dissoluzione dell'Austria-Ungheria", Il Saggiatore, 1966). E' un libro di enorme documentazione ed insieme di affascinante lettura, perché nutrito di quella passione civile che è fondamento di ogni opera autentica e duratura. Dà corpo, direi, al modello di storia etico-politica su cui Croce meditò una intera vita e che oggi sembra disdegnato dai nuovi storici, anche "laici", i quali preferiscono rispolverare una lettura "geopolitica" degli eventi fondata su paradigmi assolutamente inutili nel mondo di oggi, con le "superpotenze", le polarizzazioni "regionali", l'ONU, ecc. Questi sono (e penso ai collaboratori della rivista "Limes") conservatori per i quali l'essenza della politica internazionale è lo status quo eterno, il gioco degli scacchi determinato da immutabili e rozzi rapporti di forza. Leo Valiani è l'uomo di cultura ma anche di azione per il quale la storia è i
l teatro di progetti, di volontà, di eticità in atto. Sulla vicenda Jugoslava, tra tante voci inutili, perché non intervistare un esperto di questa fatta, una buona volta?
Supilo e gli altri democratici, croati, serbi, sloveni, che diedero vita alla Jugoslavia compirono uno sforzo immane per superare le formulette della geopolitica. Inventarono un modello che precorreva i tempi. Perché, piaccia o non piaccia, la Jugoslavia non potrà mai essere spartita tra Stati-Nazione, serbi di qua, croati di là, mussulmani o albanesi ancora più in là o magari fatti fuori, liquidati.
La Jugoslavia è una necessità storica e politica. Fu "inventata" per in qualche misura riempire il vuoto dell'Impero austroungarico. Quando essa fu ferita dall'Asse, Mussolini puntò sulla Croazia per arginare la spinta russa, ortodossa, verso il Mediterraneo. Dopo la sua scomparsa, risorge oggi il mito della Grande Serbia in nome del quale Milosevic commette i suoi crimini. E sul terreno si muovono visibilmente, con le loro diplomazie, la Germania come la Francia e - più o meno copertamente - la stessa Italia. Potenze esterne e rivalità interne non daranno mai pace alla regione. Qualunque suddivisione in Stati nazionali produrrà i suoi SudTirol, le sue Irlande del Nord, i suoi Paesi Baschi, e l'Europa vivrà nel continuo terrore delle bombe, degli attentati, delle guerriglie urbane. Che finiranno con l'alllargarsi alla Macedonia e all'Albania, alla Grecia e alla Bulgaria.
Vi fosse, tra Belgrado e Zagabria, solo una minima parte di quella classe dirigente che con Fanjo Supilo, nel dialogo con democratici europei e mazzininiani italiani, progettò l'antica Jugoslavia, forse ci sarebbe ancora qualche speranza. Purtroppo, di questa classe dirigente non vediamo traccia.
Angiolo Bandinelli