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Partito Radicale Angiolo - 18 ottobre 1995
I SOGNI PERDUTI DI MARTIN L. KING
L'Opinione, 18 ottobre 1995, pag. 10

Trenta anni dopo Martin Luther King, il nuovo leader afroamericano Louis Farrakhan ha portato a Washington, in dimostrazione di forza, una gigantesca marcia di neri. I due episodi non hanno nulla in comune. Anzi, sono antitetici.

Quando nel 1963 Martin Luther King, dinanzi all'obelisco di Washington, recitò la sua famosa preghiera di speranza ("I have a dream") aveva davanti a sé, nella piazza, una grandiosa folla che vedeva insieme, spalla a spalla, bianchi e neri, uomini e donne stretti intorno ad un obiettivo sentito come comune: la conquista di diritti civili uguali per tutti i cittadini degli Stati Uniti, indipendentemente dal colore della pelle e dalle diversità culturali e religiose che avevano fino ad allora diviso il "melting pot" americano. Farrakhan ha ignorato l'appello alla nonviolenza di Luther King e ha messo invece in piedi un movimento etnocentrico e intrinsecamente separatista, nel quale persino le donne, oltre agli ebrei e gli asiatici, sono indesiderati se non indicati come gli avversari da battere. E' il ritorno al filone di Malcolm X, con l'aggravante che Malcolm aveva sopratutto un grande fascino intellettuale, la sua predicazione essendo ricca di spunti di livello colto che non pare facciano parte del messiani

smo di Farrakhan, col suo fondamentalismo che prefigura un esito "serbo", "separatista", della vertenza aperta nei confronti dell'America bianca.

L'appello alla nonviolenza non ha riscosso mai troppo credito in occidente, ed è anzi stato snobbato da politici e da intellettuali (solo Popper e Rawls ne hanno fatto oggetto di attente analisi), per i quali l'equazione tra politica e forza, tra violenza e storia è apparsa sempre la facile risultanza di una concezione "realistica" del divenire umano e dei suoi machiavellici processi. I più distanti e incomprensivi nei confronti di quel messaggio sono stati proprio quelli che avrebbero dovuto esservi più interessati, gli intellettuali laico-liberali cui sarebbe spettato il compito di elaborare strategie innovative ed adeguate alle società di massa contemporanee. Chiusi nel loro stanco linguaggio saggistico, impossibilitati a comunicare alcunché alla gente e solo attenti alle mediazioni accademiche ed elitarie, costoro non hanno saputo cogliere l'enorme significato e l'urgenza storica della metodologia nonviolenta, profondamente ancorata ad una concezione laica, liberale ed "occidentale" del rapporto tra indi

viduo (cittadino) e legge: così, i tentativi di sollecitare presso ceti e masse emergenti l'esercizio quotidiano di una metodologia politica positiva, costruttrice di valori, di diritti e di leggi laiche e liberali, assorbite e fatte proprie da vaste maggioranze, sono stati considerati come utopici e vani, fastidiose e inconcludenti esercitazioni di un antistorico pietismo. Tale incomprensione è stata condivisa senza analisi critica, senza prospettiva storica, senza riflessione etica sulle vere problematiche del nostro tempo. E' questa la vera "trahison des clercs" che dobbiamo lamentare.

E così oggi la marcia di Farrakhan si colloca in un contesto esplosivo, che necessiterebbe di una risposta di pari grandezza e spessore. Ogni giorno, vediamo intorno crescere e dilagare nel mondo l'esercizio incontrollato, distruttivo di una violenza che sotto le più diverse forme sta divenendo il colore essenziale del panorama esistenziale, sociale, culturale nel quale ci troviamo a muoverci. La marcia dei neri di Farrakhan non è l'ultima manifestazione o sintomo; essa è in perfetta sintonia con altre di analoga pericolosità, come l'attentato islamico di ieri in Francia, ultimo rintocco funebre di una vendetta a orologeria foriera di imprevedibili sbocchi. E se il movimento di liberazione di Farrakhan dovesse saldarsi con il fondamentalismo islamico di Francia e magari del nord-Africa? E' immaginabille che nessuno vi abbia pensato? Quali conseguenze scaturirebbero da tale alleanza?

Purtroppo, l'assenza di meditazione storica sul significato della nonviolenza moderna - la nonviolenza non religiosa, ma metodologica - fa sì che oggi sulla scena mondiale non sia riconoscibile nessuna grande voce che sappia dare ai temi, ai problemi di oggi, uno sbocco di modello ed ispirazione liberale, credibile e forte.

La nonviolenza di Martin Luther King poteva offrire un messaggio di tale forza e significato. Essa indicava nella conquista dei diritti civili, anzi del "diritto", l'obiettivo alto e necessario di ogni rivendicazione, anche quella alla propria identità etnica e culturale (in questo caso, l'identità nera). Era dunque, quella nonviolenza, nient'altro che la traduzione in linguaggio di massa del messaggio del più puro e grande liberalismo, europeo e americano, il liberalismo per il quale diritto e legge sono, e devono essere, le basi essenziali, ineliminabili della convivenza sociale, nello Stato, delle molteplicità e delle singolarità. La nonviolenza di Luther King conteneva già in sé quasi un presentimento (e un ammonimento) rispetto a quella che appare la più grave, e forse irreparabile, crisi culturale e politica del nostro tempo: la frattura tra "bisogni" e "rivedicazioni" da una parte e "diritto" dall'altra. Il diritto è conculcato nelle sue basi, nella sua "necessità", e al suo posto irrompe la violenza

della forza, la ricerca ed affermazione dell'identità da conquistarsi con la violenza e a scapito dell'identità e del diritto dell'altro. E' una crisi epocale, che appare forsanco inarrestabile.

Avrebbe dovuto essere l'ONU il fulcro, la culla, di questo rinnovamento della civiltà e delle argomentazioni liberali: purtroppo non ce l'ha fatta. Così il mondo, senza luce e con pessimi auspici, sembra destinato a subire, nei prossimi anni, lo scontro diretto tra fazioni, etnie, soggettività esclusive e violente, ciascuna fattasi lupo per tutte le altre in una corsa disperata all'accaparramento di risorse sempre più avare ed insufficienti per gli esseri umani; per cui gli unici residui di speranza vengono affidati alla sola forza delle tecnologie emergenti, ancorché cieche ed anche esse violente e illiberali ma comunque capaci di spezzare i circoli chiusi e ristretti degli egoismi "particulari" in una prospettiva di massificazione ma anche di unificazione dei linguaggi e dei destini.

Angiolo Bandinelli

 
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