da Sette supplemento settimanale del Corriere della Sera 9/11/95
pezzo di copertina pag. 31
UNDICI GIUDICI SU UNA CASSA DA MORTO
di Guido Santevecchi
Duecentocinquantamila vittime. Cinquantamila casi di tortura. Ventimila di stupro. E, per adesso, un solo detenuto. Ad attenderlo, una giuria internazionale, presieduta da un italiano e chiamata a esprimere un verdetto storico. Ecco come si prepara a farlo.
Nella sua cella di otto metri quadrati, più »area igienica con doccia e gabinetto privati, il detenuto Dusko Tadic, 38 anni, numero di matricola 1 del carcere di Scheveningen, Olanda, ascolta la radio e guarda la televisione, gentilmente fornite dall'amministrazione carceraria delle Nazioni Unite. Poco lontano, in un'aula rettangolare protetta da una vetrata antiproiettile, i giudici del tribunale penale per la ex Jugoslavia ascoltano le testimonianze da incubo di coloro che hanno avuto la sventura di conoscere Dusko Tadic, quando era uno dei kapò serbi del campo di Omarska in Bosnia. Tadic, che prima di diventare macellaio di uomini in nome della »pulizia etnica era proprietario di un bar e insegnante di karate nel villaggio di Kozarac, è il primo imputato giudicato per crimini contro l'umanità da una corte internazionale dopo i processi di Norimberga e Tokio contro i gerarchi della Germania nazista e i generali del Giappone imperiale. Sede della Corte è questo palazzo in stile art déco che sbuca dalla ne
bbia dell'Aja, di proprietà di una compagnia di assicurazioni olandese. Sono le 8,30 del mattino: superato il cancello elettronico, a destra timbrano il cartellino gli impiegati delle assicurazioni. A sinistra si entra negli uffici del tribunale internazionale: i poliziotti in camicia azzurra scambiano qualche parola con giudici, procuratori, investigatori, cancellieri, segretarie, traduttori. Si vede che si conoscono tutti: il sistema giudiziario creato dalle nazioni Unite per la ex Jugoslavia (budget annuo 50 miliardi di lire) è affidato a non più di 250 persone, compresi i 30 agenti della sicurezza e la 16 guardie carcerarie.
I giudici sono undici, scelti dal Consiglio di sicurezza dell'Onu nel febbraio 1993. Si sono riuniti per la prima volta giusto un anno fa, l'8 novembre 1994: undici uomini che devono emettere sentenze su non meno di cinquecentomila casi di persecuzione, cinquantamila di tortura, ventimila stupri accertati, 151 fosse comuni scoperte, 3 mila villaggi distrutti. »Un'impresa quasi disperata ammette il presidente della Corte, l'italiano Antonio Cassese, 58 anni, professore di diritto internazionale a Firenze: »Non so quando finiremo, ma so che bisogna andare avanti: la pace senza la giustizia è fittizia e fragile, congela lo status quo senza sopprimere l'odio. Io credo che la missione di questo Tribunale sia di individuare i criminali, cancellando il concetto barbaro di responsabilità collettiva: solo così croati, musulmani, serbi potranno tornare a convivere .
Nel suo studio al secondo piano il giudice cassese ha appeso una fotografia del campo di Omarska, con i prigionieri magri e stralunati dietro il filo spinato. Ben in vista anche la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (»per darmi forza quando tutto sembra difficile ) e una riproduzione della 'Fucilazione' di Goya (»un crimine di guerra di secoli fa, quando i francesi passarono per le armi i guerriglieri spagnoli ). La toga è riposta con cura in un angolo. Sul classico nero sono applicati grandi risvolti rosso porpora. Cassese la mostra orgoglioso per quello che rappresenta: »L'ha disegnata un collega australiano, ma i gusti erano molto diversi: sa, veniamo da tutto il mondo, dalla Cina al Centro America, all'Africa, così abbiamo messo ai voti tutti i particolari: quando siamo arrivati ai bottoni qualcuno li voleva rossi, ma mi sono rifiutato, quelli no, ho detto, non voglio essere scambiato per un cardinale .
Il televisore a circuito chiuso accanto alla scrivania è collegato con l'aula al primo piano, dove sta parlando un testimone d'accusa. Racconta dei compagni di sventura. Della »cassetta rossa degli interrogatori nel lager di Omarska: nessun prigioniero ne è mai uscito vivo. Ricorda del suo amico torturato, spezzato nella volontà, che implorava di ricevere il colpo di grazia; e l'aguzzino serbo che rispose con altre botte »perché una pallottola costa un marco e tu non vali nemmeno un mozzicone di sigaretta . Chissà se Dusko Tadic, nei sei mesi che lo separano dal processo, ripenserà a quella mattina di giugno del 1992, quando costrinse un prigioniero musulmano a evirare con i denti un compagno, prima di finirli entrambi a bastonate. Chissà se le altre undici vittime che sono elencate nel suo atto di incriminazione erano mai entrate per un caffè nel suo bar prima della follia della »pulizia etnica ?
Il Tribunale finora ha incriminato 42 serbi e un croato. In carcere c'è solo Dusko Tadic, catturato perché aveva fatto l'errore di lasciare il territorio serbo per rifugiarsi in Germania. Chiediamo se non sia una sconfitta. »Quelli che sfuggiranno alla cattura saranno messi al bando dalla comunità internazionale, il loro rifugio diventerà una sorta di prigione , risponde Cassese. Ma ammette che in questa fase »è complicato anche consegnare ai sospetti l'atto d'accusa. Per informare gli imputati il Tribunale Onu ha dovuto mettere annunci pubblicitari su giornali, radio e tivù della ex Jugoslavia . Un lavoro complicato. Una responsabilità enorme: nella lista degli imputati per il genocidio contro i musulmani di Bosnia compaiono anche Radovan Karadzic e Ratko Mladic, nelle cui mani ancora oggi sono le sorti della tregua. E come se non bastasse, cinque dei giudici dell'Aja hanno un doppio incarico: fanno parte del Tribunale per i crimini del Ruanda: un milione di morti. Anche il »pubblico ministero è lo stesso:
si chiama Richard Goldstone, è un sudafricano bianco che si è conquistato la fama di implacabile indagando negli anni Ottanta sulle violenze commesse in nome dell'apartheid. In questi giorni, mentre si indaga sui massacri compiuti a luglio dai serbo-bosniaci a Srebrenica, stringe i tempi sul caso Ruanda: a Kigali adesso ha 50 investigatori. Le prime incriminazioni sono previste per la fine dell'anno.
Il carcere dell'Onu a Scheveningen è piccolo e accogliente. Non si può visitare per motivi di sicurezza. Le 24 celle e gli spaziosi locali di servizio sono stati costruiti seguendo standard altamente umanitari. Cassese è stato a capo della commissione internazionale sulla tortura carceraria. Così, quando ha dovuto organizzare la prigione dell'Onu ha visitato una gran quantità di galere. Alla fine si è ispirato a un braccio del moderno penitenziario di Amsterdam e ha voluto anche chiedere ai carcerati come si trovassero. »Bene, è quasi come essere a casa, d'altra parte questo braccio è riservato proprio a chi sta per essere liberato, è una sorta di ala di riabilitazione , gli rispose uno spacciatore di droga. Poi, volle sapere dal giudice il perché di quella visita, di quelle domande. »Quando gli dissi del nostro carcere modello, quello spacciatore quasi mi aggredì, mi urlò: "Siete dei pazzi, quei serbi sono dei mostri, dei massacratori, all'inferno dovete mandarli" . Il presidente del Tribunale delle Nazioni
Unite non si scompose: »Noi vogliamo solo fare giustizia .
UNDICI GIUDICI SU UNA CASSA DA MORTO
di Guido Santevecchi
da Sette supplemento settimanale del Corriere della Sera 9/11/95, pezzo di copertina pag. 31