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Partito Radicale Roma - 11 marzo 1996
10 MARZO/RASSEGNA STAMPA

LA BANDIERA DEL PAESE CHE NON C'E'

di Guido Ceronetti

La Stampa, 10 marzo 1996, prima pagina

Oggi una marcia a Bruxelles, pungitopo pacifico, vuole ricordare che il "Tibet è là", grande martire orientale di roccia, pensiero e sangue umano, martire di oppressione, di volontà predona e di violenza militare, che molti anni fa il 10 marzo si rivoltò alla disperata, come un ghetto senza scampo, e persa la partita è un'appendice di Cina, destinato a non essere più Tibet che nelle memorie studiose, nei libri, nelle fotografie dei monasteri perduti.

Il Tibet, che nella diaspora dei suoi Lama e dei suoi maestri reincarnati è diventato familiare, ed è entrato nelle famiglie europee come un lievito, uno spiraglio di luminosità in uno heart of Darkness di Internet e di incubo economico, è uscito dalla lontananza e dalla clausura medievale a prezzo di una mortale agonia.

Sarà stato raccolto l'invito ai Comuni d'Occidente di esporre oggi la bandiera tibetana, la bandiera di uno Stato che non esiste più e di un popolo in estinzione? I prefetti nostri hanno sconsigliato dal farlo: c'è sempre il rischio di perdere una vendita di dieci frigoriferi e di cinquanta tubetti di dentifricio a un mercato definito, con rapimento sempre "colossale". Meglio non provocare il ruggito di Behemòt corazzato, atomico, irritabile, al quale basta sussurrare una povera e generica parola come »diritti umani perché vomiti fiamme e rabbia.

Bandiera tibetana un simbolo di pianto. Bravi i sindaci che non si saranno tirati indietro.

Una bandiera di vinti ci rappresenta meglio di qualunque altra, perché l'umanità è un vinto, un esiliato, una vittima immolata. Bandiera senza arroganza: dietro non c'è nessuna armata, neppure di finzione, non c'è che un popolo cogli occhi a mandorla schiacciato da una violenza gelida, impassibile, amorale, e qualche migliaia di esuli, monaci e laici, che conservano una lingua e una religione non per sé, ma per l'utilità del genere umano in cerca di un arco di salvezza. Forse il destino del Tibet vivente è questo, di riaccendersi in focolai di pensiero e raccoglimento dovunque ci siano montagne in Occidente, perché il suo è un messaggio delle altitudini, una Rivelazione non ferrata e limitatrice come quella biblica e coranica, una voce piana che dà vertigini di calma, che non contiene minacce...

Mi sembra da sciocchi cercare di ottenere dei raddolcimenti e dei cedimenti dai padroni di Pechino, che sono un principe Shan Yang senza saggezza né cultura, pretendere il diritto da chi non conosce e applica la forza: non raddolciranno niente, né fermeranno l'impressionante trasferimento di famiglie cinesi in territorio tibetano: e a case fatte, quali rimasugli di tibetano resteranno, in Tibet? La sinizzazione modernizzante, deturpatrice di luoghi e colture tradizionali, avvolgerà e ricoprirà tutto, come i cardi di Caminito.

Tradizioni di millenni possono così sparire in poche frazioni d'ora, nel gorgogliare d'infamità che è la storia. Ma raccogliersi intorno allo straccio senza diplomatici di una Stato che non esiste e a gruppi di inermi in saio è pure una geniale rivincita contro la brutalità della forza temporaneamente vincitrice, e il Tibet invisibile è e sarà sempre libero dai fucili cinesi, che da noi un buon numero di orbi volle credere liberatori.

Con il Tibet, con la sua essenza portatrice di Buddha, col suo popolo sradicato - oggi e domani.

 
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