In occasione delle elezioni a Taiwan è stato intervistato per Radio radicale Fernando Mezzetti, per lungo tempo corrispondente in Cina per La Stampa, il quale ha anche affrontato il tema dei rapporti di potere interni alla Cina. Si riportano qui di seguito quei brani dell'intervista che attengono a tale argomento.
-------------------------------------------------
INTERVISTA A FERNANDO MEZZETTI DI MARINA SISANI. IN DIRETTA SU RADIO RADICALE. LUNEDI' 25 MARZO 1996.
Nel discorso che Sua Santità il Dalai Lama ha tenuto, lo scorso 10 marzo, in occasione del 37. anniversario dell'insurrezione di Lhasa il problema del rispetto dei diritti umani, civili e politici in Tibet è stato inserito nel più ampio contesto del processo di democratizzazione della Repubblica Popolare cinese.
Infatti il Dalai Lama ha affermato che la Cina si trova oggi di fronte ad un bivio, quello fra totalitarismo e democrazia e che l'esistenza di questo bivio e' evidenziata dall'intensificarsi della politica aggressiva del governo cinese sia nei confronti di Hong Kong, che il prossimo tornerà anno sotto il dominio cinese uscendo dal protettorato britannico, sia verso la popolazione di Taiwan. La Cina infatti rivendica Taiwan come una propria provincia; al contrario i taiwanesi tendono o verso una soluzione indipendentista o comunque autonomista nei confronti del governo cinese. Il governo cinese in questi ultimi mesi ha iniziato una serie di esercitazioni militari nello Stretto di Formosa al fine di condizionare la elezioni presidenziali che si sono tenute lo scorso sabato a Taiwan e che sono state le prime libere elezioni del popolo cinese in cinquemila anni di storia.
Commenteremo i risultati di queste elezione e del significato della crisi che vede la Cina opporsi a Taiwan, crisi che ha visto coinvolti anche gli Stati Uniti con l'invio di portaerei verso Taiwan con Fernando Mezzetti, giornalista, autore di DA MAO A DENG edito da Corbaccio che è frutto del suo lavoro di corrispondente in Cina.
D. Fernando, innanzitutto chi ha vinto le elezioni a Taiwan ?
R. Le elezioni a Taiwan le ha vinto sostanzialmente il popolo di Taiwan. E' un'affermazione apparentemente retorica, ma in realtà è fondata, nel senso che gli elettori taiwanesi per la prima volta nella storia della Cina, assumendo Taiwan come parte della Cina secondo l'assunto di Pechino, hanno potuto scegliersi liberamente e democraticamente il loro leader, in questo caso il Presidente. Avevano da scegliere tra quattro candidati; hanno confermato quello in carica. Quindi è una vittoria del popolo cinese in una lunga, millenaria storia che è storia della tirannia. Per la prima volta una parte del popolo cinese, cioè quella che abita a Taiwan ha potuto scegliersi il proprio leader. Questo non era mai avvenuto nella storia cinese.
[...]
D. Perché la Repubblica Popolare cinese ha reagito militarmente rispetto a queste elezioni ?
R. Pechino è in una situazione molto fluida. Ormai c'è questa perenne attesa della uscita di scena fisica di Deng Xiao Ping. Deng Xiao Ping è colui che ha demaoizzato la Cina; ha polverizzato letteralmente l'idolo che era Mao Tze Tung. La Cina di oggi è totalmente demaoizzata, ma non soltanto con un attacco al culto della personalità parziale e strumentale come fu quello di Kruscev nel '56 verso Stalin. Da Deng Xiao Ping e dal suo gruppo è stata veramente messa in discussione ed eliminata la corazza maoista che imprigionava la Cina e ciò ha permesso il grande decollo economico cinese in atto da quindici anni. La Cina, negli ultimi dieci-dodici anni, si è sviluppata al ritmo dell'oltre il 12%: è il vero miracolo sociale di fine secolo. Perché quando ci sono centinaia di milioni di persone tratti dalla fame grazie ad uno sviluppo economico tumultuoso, che crea naturalmente ingiustizie crea delle stratificazioni ma prima pativano tutti la fame in modo uguale erano tutti uguali nella fame, ecco questo è il grand
e evento di fine secolo. Deng Xiao Ping si è ritirato dalla politica attiva nell'ottobre del '92, fa sapere ogni tanto che lui non conta più niente, che vada avanti l'attuale leadership, lui non ci mette becco. Non è vero naturalmente, rimane sempre il punto di riferimento e comunque finché è vivo ci sono i posizionamenti dei gruppi di potere.
A ciò aggiungiamo un'altra cosa fondamentale: qualsiasi regime, sia esso il più bieco autoritariamente o democratico, ha bisogno di un'etica da proporre al suo popolo, al suo paese. Il regime comunista è stato un regime che è fallito clamorosamente sul piano economico, tanto è vero che la Cina ha cominciato a svilupparsi quando ha smantellato le strutture comuniste del potere dello stato, restando naturalmente un sistema autoritario. E quindi era venuta a cadere la tensione ideale che bene o male il maoismo, sia pure su obiettivi ignobili, era riuscito a creare. Sono venuti a cadere gli ideali dell'ideologia comunista nella quale generazioni sono state cresciute con una propaganda martellante di fronte alla quale il culto della personalità di Stalin era robetta da educande. Il regime ha detto sostanzialmente: arricchitevi. E poi si è arrivati alla Tienanmen. La Tienanmen del giugno '89, la strage in diretta televisiva sotto gli occhi del mondo; la Tienanmen è una ferita ancora aperta e lo resterà a lungo nel
la coscienza collettiva cinese. Il regime si è moralmente squalificato in modo definitivo: infatti lo sviluppo economico che era già in atto, paradossalmente con la Tienanmen non si è fermato, anzi dopo la Tienanmen è ripreso in modo ancora più tumultuoso e incalzante per il semplice motivo che il regime si è tirato da parte, il regime ha detto "Fate voi. Noi abbiamo fallito in termini economici. Chi può faccia qualcosa, si arricchisca". L'acceleramento dello sviluppo economico si ha soprattutto dopo la Tienanmen. Quindi un regime che ha riconosciuto il proprio fallimento, ma che continua a tenere il pugno di ferro. Allora: eliminati o dissoltisi gli ideali comunisti, questo regime che non ha più nulla da offrire al proprio Paese se non quello dell'arricchitevi. Senza idealizzare i cinesi io credo che un rapporto etico profondo esiste fra tutti i regimi e la loro popolazione, in questo caso non c'è. E allora è chiaro che non può bastare la legittimità dell'arricchimento per legittimizzare a sua volta un regi
me siffatto.
Nel vuoto ideale il regime trova la sua giustificazione nel nazionalismo. Perché la Cina, questo Paese grande malato della storia e dell'Asia, questo gigante malato, la Cina tutta ritrova una sua dignità e una sua fierezza nello sviluppo economico. Il cinese non è più quello col cappelluccio in mano che siamo abituati a pensare; il cinese medio è cosciente dello sviluppo economico del suo Paese, vede che in dieci anni le sue condizioni di vita sono migliorate enormemente, non riconosce legittimità al regime perché sono avvenute malgrado il regime comunista queste conquiste economiche. E però si unisce al regime nel sentimento di fierezza nazionalistica. Per esempio quando furono negate a Pechino le Olimpiadi, lo schiaffo non fu soltanto al regime, fu il Paese a sentirsi schiaffeggiato. E' un nazionalismo nascente, ma già abbastanza forte, anche perché i cinesi sono nazionalisti storicamente, si chiama il Regno di Mezzo Perché nella mentalità cinese fuori della Cina non c'era altro. E con il nazionalismo il r
egime trova la sua giustificazione, la sua raison d'etre. Quanto il nazionalismo sia cresciuto lo denota un elemento palese a tutti gli osservatori. Quando nel 1979 la Cina attaccò il Vietnam, e questo attacco era una sfida all'Unione Sovietica, la propaganda teneva tutto sotto tono, notizie a pagina due o pagine interne addirittura nei giornali, scarse informazioni radiotelevisive. Mentre invece in questa prova di forza con Taiwan, che in realtà era una prova di forza con gli Stati Uniti, c'è stato quasi un isterismo dei mass media, della propaganda, che ha trovato e trova una rispondenza nella popolazione, intere prime pagine, lunghi servizi televisivi sulle "nostre valorose truppe che si esercitano nelle acque interne cinesi e nelle quali nessuno deve metter bocca o piede" ; la Cina che viene di nuovo fatta oggetto di politica delle cannoniere, riferendosi alla settima flotta americana, ma non è più l'età colonialistica in cui la Cina si piegava, la Cina non si piega più. Sono tutti elementi che hanno aiz
zato e rafforzato questo nazionalismo in cui il regime trova la sua legittimazione. Il nazionalismo è un elemento unificante sia tra la popolazione e il regime sia all'interno dei vertici, in cui sono in corso non vorrei dire feroci lotte, ma certamente delle lotte di posizionamento in vista dell'uscita di Deng questo sì.
D. Quindi stai sostenendo, in altri termini, che le lotte di potere interne alla Cina vengono scaricate all'esterno con una metodologia classica nella storia e che il nazionalismo è un fattore unificante. Non è stato però un boomerang questa reazione militare della Cina? Probabilmente non sarebbero state su tutte le pagine dei giornali le elezioni di Taiwan, probabilmente Lee Teng-hui avrebbe vinto con uno scarto minore se non ci fossero state le esercitazioni militari cinesi.
R. E' un boomerang in molti sensi. E' anche un boomerang nei rapporti con i Paesi dell'area. Voglio dire i Paesi dell'area lo sapevano naturalmente, non avevano bisogno di questo che è avvenuto nelle scorse settimane, che la Cina è cresciuta in termini soprattutto militari anche e non soltanto economici. Questa crescita militare cinese e l'inclinazione cinese alla minaccia dell'uso della forza hanno mandato ondate di shock in tutta la regione. I Paesi della regione lo sospettavano, ne hanno avuto la prova. La Cina che tende i muscoli terrorizza tutti i Paesi dell'area. Quindi questo è un boomerang in che senso: riafferma la necessità della presenza americana nell'area e il rafforzamento o quantomeno il non dissolversi del rapporto militare Stati Uniti-Giappone. Se infatti si allentasse questo rapporto militare il Giappone non esiterebbe esso medesimo ad andare al potenziamento militare. Già oggi il Giappone ha il terzo bilancio per la difesa nel mondo in termini assoluti. Il Giappone non potrebbe restare a g
uardare la crescente potenza militare cinese senza far nulla se non avesse la protezione americana. I Paesi dell'area sanno che se venisse meno la presenza americana l'unico controbilanciamento alla Cina sarebbe il Giappone. Naturalmente non tutti sarebbero felici di vedere il Giappone, crescere militarmente ma questo è un boomerang con tutta l'area: con Malesia, con Filippine, con il Giappone stesso.
D. E' difficile sapere cosa succede dentro la Cina. C'è una sorta di cortina di ferro ed il tuo sguardo riesce a darci informazioni. Quali sono le forze politiche in campo. Jiang Zemin contro Li Peng o contro Qi Qichen ?
R. Li Peng è l'ultimo dei macellai della Tienanmen al potere. Nel gruppo dirigente, quietamente, tutti gli uomini della Tienanmen sono scomparsi. Li Peng è l'ultimo e tra un anno e mezzo dovrebbe finire il suo mandato, il suo terzo mandato di primo ministro e dovrà lasciare anche quella carica perché la Costituzione non permette più di tre mandati, naturalmente potrebbe restare al vertice in altra forma.
D. Quindi ritieni che Li Peng sia il meno importante...
R. No, non è il meno importante, assolutamente. E' il punto di raccordo tra conservatori e progressisti, anche se i termini sono un po' logori e desueti, sono termini difficilmente applicabili alla Cina. Il punto fondamentale è che avendo il Partito perduto la sua carica ideale, l'armata è l'unica istituzione che regge. Il Partito chi rappresenta oggi: la classe operaia in Cina? Non è vero, non si sa chi rappresenti il Partito perché molti si iscrivono al Partito per avere maggiore libertà di azione come imprenditori. A differenza che nell'Unione Sovietica dove il Partito quando dette il via alle prime timide riforme continuava comunque a guardare con sospetto a chi faceva attività economica privata quale peccato sociale, in Cina sono gli stessi esponenti del Partito che si buttano in attività economiche. Quindi il Partito ha perso la sua ragion d'essere se non come struttura di potere autoritario. L'armata rimane. L'armata è il fattore di coesione, l'armata è quella che più ha beneficiato delle riforme, si
è modernizzata, è molto potente, l'armata svolge una fortissima attività economica in Cina, non è un'armata come pensiamo noi. Quando mai noi penseremmo che un esercito gestisce centri di vacanza, grandi alberghi, industrie e non industrie nel senso classico dell'apparato industriale, ma anche industri civili, tessili, alimentari. Tutto l'agroalimentare in Cina è pressoché in mano ai militari, se non tutto una buona parte. Il complesso dell'attività economica dell'armata, secondo studi giapponesi, genera un profitto che è pari al bilancio statale per l'armata. Quindi sono fondi che noi non conosciamo e che sono nascosti, questi dell'attività economica dell'armata.
D. E da chi è controllato l'esercito cinese ?
R. Si autocontrolla, nel senso che ha un suo vertice che non dico che sfidi il Partito, sfidare sarebbe inappropriato, ma che ha una propria legittimità, una propria forza endogena per cui è meno sottoposto al Partito di un tempo, anche perché l'ultimo personaggio di grande prestigio è stato Deng Xiao Ping, il quale non ha mai avuto una carica. Deng Xiao Ping è sempre stato numero tre, numero quattro, mai numero due perché nella storia cinese essere numero due è pericoloso. Lin Piao era numero due e fu fatto fuori. Li Peng è numero due. Deng Xiao Ping ha preso la lezione di Ciu En Lai che non era mai stato numero due, sempre numero tre. Però Deng Xiao Ping era numero uno in seno all'armata. Deng Xiao Ping pur non essendo numero uno o due nelle cariche di Stato e di Partito, era numero uno nell'armata perché è anche un uomo che ha passato la sua vita nell'armata, viene da quella generazione. L'attuale capo nominale dell'armata è il Presidente della Repubblica e capo del Partito Jiang Zemin. Jiang Zemin arrivò
a queste posizioni di vertice nella crisi dell' '89 e ci arrivò perché lui era Post a Shangai e a Shangai non si era sparato. C'erano state manifestazioni parimenti importanti come a Pechino, ma a Shangai si erano risolte senza stragi. E non è un caso che oggi al vertice del Partito ci siano uomini di Shangai. I cinesi dicono sarcastici che c'è una nuova banda dei quattro, una nuova banda di Shangai, perché c'è Jiang Zemin di Shangai che è capo del Partito, capo dello stato, capo della Commissione militare. Al vertice c'è poi un altro di Shangai ex-sindaco ed ex-Post del Partito Giu Run Gi, il quale passa per il grande tecnocrate e certamente lo è diciamo che è lo zar dell'economia cinese. Poi l'anno scorso sono arrivati altri due da Shangai. Quindi sono quattro di Shangai anche se nulla hanno a che vedere con la precedente banda dei quattro della Rivoluzione culturale.
Ora il problema in Cina è che è sempre vero il detto di Mao: »Il potere è sulle canne del fucile . Il problema è chi controlla queste canne del fucile. Con personaggi come Deng Xiao Ping, fino ad ora, il Partito è stato in grado di controllare queste canne del fucile. E' significativo che nel 1992, all'ultimo Congresso del Partito, la dirigenza fu svecchiata di molto, ci fu un ringiovanimento ai vertici e ci fu però l'ingresso di un uomo di settantasei anni in una posizione di vertice, un ammiraglio che era stato un sottoposto di Deng Xiao Ping negli anni della guerra civile, creatore della moderna marina cinese e questo ammiraglio è certamente l'uomo che per il Partito controlla l'armata e infatti è vicepresidente della Commissione militare. Ma l'armata cerca di darsi una sua legittimazione.
Non dimentichiamo inoltre un altro elemento interno cinese. I rischi di balcanizzazione. In altri termini: la politica di Deng Xiao Ping è stata diretta a favorire le zone costiere, ma non perché volesse bene alle zone costiere, bensì perché sono state le zone che storicamente sono state più a contatto col mondo. E quindi le zone costiere si sono avvantaggiate di questa politica di sviluppo economico, anche perché sono state create zone economiche speciali in queste regioni costiere con minor lacci burocratici, con minori controlli del regime autoritario, minori controlli sul piano economico non politico perché dobbiamo sempre partire dall'assunto che il regime politico è fortemente autoritario ed onnipervasivo. Quindi ci sono state delle regioni che si sono enormemente sviluppate, come quella di Canton. La provincia di Canton è ormai un'appendice di Hong Kong. Oggi Hong Kong non vivrebbe senza la provincia di Canton. Quando si dice provincia di Canton bisogna pensare che sono 90 milioni di abitanti. In Cina
quando si dice una provincia o una regione bisogna sempre pensare a due o tre volte l'Italia. Certe regioni si sono enormemente sviluppate e sono andate avanti. Altre regioni o si sono sviluppate poco o non si sono sviluppate affatto o possono anche aver regredito per un altro elemento: con l'ossessione maoista dell'attacco e dell'accerchiamento molte industrie erano state create in zone economicamente prive di senso, cioè poniamo lontane dai centri di comunicazione, lontane dai rifornimenti di materie prime, però strategicamente sensate, cioè certe industrie le facciamo nell'interno, in regioni inaccessibili e in caso d'invasione restano lì. Nel nuovo clima, il primato economico si è affermato su quello politico e quindi certe regioni che vivevano di certe industrie vedono il ruolo di queste industrie diminuire e messo in pericolo dalla possibilità di riforme che mettano un po' d'ordine nell'immenso apparato mastodontico dell'industria di Stato, gran parte della quale è inefficiente come da noi, forse più
inefficiente. Allora il rischio è che le regioni economicamente più sviluppate dicano "non potete continuare a tenerci con i lacci e vogliamo maggiore autonomia, vogliamo maggiore possibilità di agire". In effetti uno dei motivi veri reali di tensione interna sono i sempre minori introiti che il centro riceve in termini fiscali da diverse regioni che pur si stanno sviluppando in modo impressionante. Ai provvedimenti per lo sviluppo economico si era unita una decentralizzazione del potere, specialmente in materia fiscale e il centro ha visto diminuire i propri introiti da regioni che pur avrebbero dovuto versare di più per l'impressionante sviluppo economico.
D. A proposito di decentralizzazione amministrativa ed economica. All'inizio della trasmissione ricordavo lo statement che il Dalai Lama ha letto per il 10 marzo che è un discorso molto politico in cui viene auspicata per la Cina una soluzione di tipo federalista. Questa è una elaborazione che molti intellettuali dissidenti che vivono fuori della Cina hanno elaborato e il Dalai Lama l'ha accolta come una soluzione possibile. Secondo te è realistico pensare al federalismo in Cina, sarebbe possibile cambiare la Costituzione in senso federalista?
R. Temo che questa proposta non avrà molto successo. O quantomeno io vedo possibile il federalismo riferito a regioni con caratteristiche proprie e dignità assolutamente nazionale quale il Tibet. Ma non dimentichiamo che i cinesi sono etnicamente omogenei.
D. Ma ci sono 55 o 56 etnie in Cina...
R. Ma la più grossa sono i musulmani del Xinjiang che le fonti ufficiali dicono essere 12 milioni. Ma capisci che su un miliardo e duecento milioni di persone...Ci sono certamente i mongoli che sono cospicui e abitano un territorio strategicamente sensibile, ma visto la fine che ha fatto la Mongolia indipendente, cioè con enormi difficoltà economiche dopo l'indipendenza diciamo dopo il crollo sovietico perché la Mongolia non cinese è sempre stata formalmente indipendente seppur subordinata a Mosca in termini di rapporti reali dei potere, faceva parte del blocco. Con la fine del blocco sovietico la Mongolia, storicamente indipendente quella di Ulan Bator per capirci, ha conosciuto enormi problemi mentre la Mongolia interna, quella ancora sottoposta alla Cina, dopo i primi momenti di entusiasmo e addirittura manifestazioni per l'indipendenza mongola dalla Cina, vedendo quello che è successo alla Mongolia esterna le manifestazioni si sono calmate. Voglie dire che molti temono che l'indipendenza non comporti di
per sé benessere, mentre invece in Cina, non dico ci sia benessere generalizzato ma c'è un avvio.
D. Sì, però federalismo non significa indipendenza...
R. Federalismo non significa indipendenza, ma la specificità di nazioni in Cina io la vedrei appunto in Mongolia e in Tibet, le altre regioni sono tutte composte da Han e Manciù.
[...]