del 9 settembre 1996pag. 1
Declino europeo e modelli di civiltà
PARTITA MONDIALE TRA MERCI E VALORI
Di Ernesto Galli della Loggia
Il G7, il Fondo monetario internazionale, l'Ocse, l'Organizzazione mondiale del Commercio non più con i Paesi dell'occidente (Stati Uniti in testa) protagonisti e padroni assoluti delle decisioni, bensì nelle mani della Cina, del Brasile, dell'lndia dell'Indonesia, ormai divenuti Paesi con i prodotti interni lordi più alti dell'economia mondiale: questo lo scenario del 2005 secondo un rapporto del ministero del Tesoro inglese ripreso dall'Economia ma che in Italia, se non sbaglio, è passato quasi inosservato. E sì che non c'è quasi bisogno di dirlo il nostro Paese sarà certamente il primo a risentire di questo terremoto delle gerarchie economiche del pianeta, ad esempio perdendo il diritto di sedere nel G7.
Ma il terremoto, ripeto, riguarderà tutto l'occidente - forse sarebbe meglio dire tutto l'emisfero settentrionale del pianeta il quale è ormai alle soglie di perdere il primato produttivo che è suo (fatto salvo il caso del Giappone) da oltre 200 anni. Ciò che determinerà, tra l'altro, la necessità di cambiare anche sul piano ideologico-culturale molti consolidati punti di vista: a cominciare da quello che vorrebbe il mondo diviso nettamente in un Sud misero e sfruttato e in un Nord tanto ricco quanto rapace. Le cause della frattura storica che ci attende sono naturalmente diverse: dall'impoverimento demografico della nostra area di civiltà, al vantaggio rappresentato per l'economia del Sud del mondo dalla possibilità, come dicono gli esperti, di "capitalizzare sul progresso che all'occidente è costato denaro e investimenti nella ricerca". Ma a me sembra che se il Brasile o l'Indonesia possono crescere a tassi qui da noi inimmaginabili, e soprattutto mantenere tali tassi per un lungo periodo di tempo com
e essi stanno facendo, e con loro Taiwan, Corea
del Sud, Thailandia, India e Cina, - cioè in pratica l'intera Asia - se ciò accade è perché opera al fondo, una causa di ordine non economico. Il fattore che rende enormemente forti e probabilmente oggi per noi invincibili le economie dei Paesi del nuovo capitalismo è costituito dalla loro struttura sociale e dai valori che storicamente la sorreggono. Specialmente in Asia - ma anche in numerose altre aree del Sud del mondo - l'industrializzazione capitalistica ha modo di dispiegarsi in un ambiente permeato di un'etica e di una prassi sociali di tipo gerarchico-castale, in culture che ignorano la dimensione individuale e l'aspirazione alla giustizia che costituiscono, viceversa, il cuore della prospettiva religiosa giudaico - cristiana e dunque lo sfondo religioso e di ogni altro nostro modo d'essere, in società infine dove non è l'eccezione bensì la regola, per i più non scandalosa, la presenza di regimi autoritari caratterizzati da un debole grado di tutela dei diritti civili e politici.
In tali condizioni il meccanismo dell'accumulazione capitalistica se gode dell'appoggio del potere, ha modo di funzionare libero da quei vincoli di ordine soprattutto etico e antropologico che nei nostri Paesi hanno rappresentato certo una sfida propulsiva e dinamizzante di grande valore, ma anche, non c'è dubbio, un forte limite oggettivo alla potenzialità del capitalismo stesso. E, dunque, di funzionare con un livello di risultati, almeno in termini quantitativi, decisamente superiori. In tale contesto, infatti, il salario e l'occupazione possono essere variabili assolutamente indipendenti, la legislazione sociale assai tenue o virtualmente assente, i sistemi di assistenza sanitaria e di previdenza anch'essi assenti o ben lungi dall'avere quell' ampiezza che essi hanno da noi. L'esperienza che è sotto i nostri occhi, insomma, induce fondatamente a credere che, un contesto di civiltà non europea sia oggi (ma solo oggi? il caso del Giappone ha ormai un secolo di storia) pi
ù propizio allo sviluppo della produzione capitalistica. Tanto più quando, com'è accaduto specialmente negli ultimi cinquant'anni, alla libertà sociale pressoché limitata dei Paesi dell'ambito extraeuropeo corrisponde invece nell'area euro-atlantica una forte crescita di vincoli di cui è incarnazione e simbolo il welfare-state: inteso non solo come impiego di quantità ingenti di risorse nella spesa sociale, ma più in generale come sistema dei diritti, sistema del costo del lavoro, delle norme sulla sicurezza dell'intervento vincolistico dello Stato sulla società, eccetera, il tutto in vista del benessere del maggior numero e, dunque, del loro consenso. Non a caso, come si sa, proprio su una drastica riduzione del welfare-state punta chi (anche il rapporto del Tesoro inglese lo fa) immagina oggi i modi per ridurre lo svantaggio di cui soffre l'area euro-atlantica nei confronti di quella extraeuropea. Tale riduzione, infatti, è al primo posto in tutte lo agende politiche dei Paesi occidentali. Ma se è ovv
iamente giusto cercare di correggere le principali debolezze che i sistemi di welfare hanno palesato (la loro ambizione universalistica e il loro burocratismo), sono convinto che per quanto si possa ridurre la spesa sociale , per quanto si possa liberalizzare, alla fine questa strada si rivelerà sempre perdente. Su questo piano gli "altri" saranno sempre più competitivi e più forti.
Ma c'è una via diversa, che grossolanamente definirei così: invece di abbassare i nostri costi cercare di fare alzare quelli dei nostri concorrenti. In che modo? Esportando i valori, i modi e le abitudini socio-culturali della democrazia, dal momento che in ultima analisi, da un punto di vista sistemico, il vero vantaggio economico di cui gode il capitalismo del Sud del mondo è il fatto che esso non è costretto a fare i conti con i meccanismi del consenso individualistico, con il suffragio universale in regime di vero pluripartitismo, cioè con la democrazia appunto. La comunità degli affari è invece cieca su questo punto. Lo dimostrano i capitalisti occidentali, per esempio, quando, incapaci di guardare più in là del proprio interesse immediato, si oppongono regolarmente a qualunque sanzione di tipo politico a carico di Paesi colpevoli di violare le regole, anche le più elementari, della democrazia caso della Cina è emblematico di mille altri e di un atteggiamento generale: dopo la selvaggia repressione del
l' 89 da parte del regime comunista dl Pechino gli esponenti degli interessi economici europei o americani e le loro organizzazioni si sono dati subito un gran da fare (riuscendoci) perché le migliaia e migliaia di arresti voluti dal governo cinese non mettessero minimamente in pericolo i rapporti di scambio con il grande Paese asiatico. Sicché quelli di loro che oggi si lamentano della concorrenza cinese dovuta al bassissimo costo del lavoro sanno chi devono ringraziare. Non è vero che il denaro non ha odore e le merci sono solo merci. I narcodollari puzzano di sangue così come le automobili sudcoreane, tanto per dire, portano appiccicato addosso non solo la politica repressiva e antisindacale di quel governo ma anche i valori dominanti di quella società e dei padroni della sua storia. L'economia mondiale è una cosa troppo seria per essere lasciata solo agli economisti e alle loro categorie interpretative; la competizione economica tra le grandi aree del pianeta è lungi da mettere in gioco solo dati stret
tamente economici. Al dunque essa è una competizione innanzitutto di modelli di valore, diciamo pure di civiltà.
Ho il sospetto che oggi siamo solo noi occidentali ad essercene dimenticati, o a far finta di non accorgercene.
Ernesto Galli Della Loggia