Da "Il Manifesto" - 10 ottobre 1996 - pag. 17
di Ilaria Maria Sala
Mentre il ministro degli affari esteri italiano Lamberto Dini preparava la valigia per il suo viaggio in Cina, Hong Kong e Corea, organizzato con l'intento di rilanciare i rapporti politici ma che prevede un intenso programma di scambi commerciali, le autorità pechinesi hanno preceduto all'ennesimo giro di vite, arrestando e processando alcuni fra i nomi più noti del dissenso cinese. Così, il dissidente storico Wang Xizhe è scomparso dalla sua casa di Canton; il leader studentesco della Primavera dell'89, Wang Dan, dopo quasi due anni di detenzione senza accusa è ora sotto processo per "sovversione"; e il dissidente e critico letterario Liu Xiaobo è stato condannato a tre anni di lavori forzati, o "riforma attraverso il lavoro".
La visita di Dini prevede incontri al massimo livello: il ministro infatti stringerà la mano al suo omologo cinese Qian Qichen, al primo ministro Li Peng, al presidente Jiang Zeming e alla ministra per il commercio con l'estero Wu Yi. Il folto gruppo di industriali che lo accompagna (fra cui Tedeschi dell'IRI, Fabiani della Finmeccanica, Moscato dell'Eni, e Cantarella della Fiat) sembra comunque andare a garanzia del fatto che il tema privilegiato delle conversazioni sarà proprio il potenziamento degli scambi commerciali fra i due paesi, ed è forse inutile sperare che ci scappi una parola in difesa dei prigionieri di opinione, come è stato chiesto da molti, soprattutto dalla sezione italiana di Amnesty International.
"Colpire duro"
Eppure ci sarebbe davvero bisogno di sollevare il problema, dal momento che, da quando all'inizio dell'anno Jiang Zeming ha rilanciato la campagna contro la criminalità "Colpire duro", sono state giustiziate più di mille persone, le condizioni all'interno delle carceri sono peggiorate, si sono inasprite le repressioni in Tibet ed in Xinjiang, e si sono moltiplicati gli arresti e le punizioni ai danni di moltissimi intellettuali e dissidenti.
L'arresto di Liu Xiaobo mette nuovamente l'accento sia sulla facilità con la quale in Cina si può venir consegnati ad un campo di lavoro, sia sulla capillarità con cui il governo di Pechino continua a perseguitare ogni forma di obiezione politica, senza curarsi nemmeno, nella sua enfasi repressiva, di rispettare le stesse leggi cinesi. La colpa di Liu, è quella di aver organizzato, da gennaio a oggi, diverse petizioni dirette al Consiglio di Stato, nelle quali veniva via via richiesta la scarcerazione dei prigionieri politici come Wei Jingsheng, la cessazione degli abusi e delle violenze in Tibet, e, l'ultima, con Wang Xizhe, in cui invocava una miglior gestione politica della crisi intorno alle isole Diaoyu-Senkaku contese col Giappone. La legge cinese non vieta ai cittadini di scrivere lettere e petizioni, come ha ricordato Liu Xia, moglie di Xiaobo, ma la "rieducazione tramite il lavoro" è una punizione amministrativa decisa dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza (polizia) che può essere inflitta per un
massimo di tre anni senza bisogno di rincorrere ad un'accusa formale e ad un processo giudiziario. Secondo fonti diplomatiche a Pechino, negli ultimi anni il ricorso a questo tipo di punizione si sarebbe intensificato, proprio perché consente di liberarsi di scomodi dissidenti senza attirare la stessa attenzione suscitata da un processo in piena regola. E' la terza volta che Liu finisce nelle mani del sistema repressivo cinese: la prima volta fu pochi mesi dopo il massacro che pose fine al movimento di protesta di Tienanmen, quando venne però rilasciato dopo "soli" nove mesi di riconoscimento del ruolo positivo svolto da Liu nella mediazione fra studenti ed esercito che consentì l'evacuazione pacifica della piazza.
Ancora la Tienanmen
Il secondo arresto era avvenuto nell'inverno del 1995, in seguito ad alcune lettere firmate da Liu in cui chiedeva che venisse riaffrontato politicamente il massacro di Tienanmen.
Critico letterario estremamente noto in Cina per il tono iconoclasta dei suoi scritti, dal 1989 non gli è però consentito di pubblicare né di lavorare nel suo paese (gli è stata sottratta la cattedra di letteratura all'Università normale di Pechino), ma per quanto sia stato invitato ripetutamente ad insegnare in Australia e negli Stati Uniti, negli ultimi anni Liu ha rifiutato di lasciare il paese, malgrado l'insistenza in questo senso della polizia, consapevole del fatto che non gli sarebbe stato consentito di rientrare nel suo paese. E proprio come è successo a Wei Jingsheng, candidato al premio Nobel per la Pace, per chi rifiuta l'esilio e il silenzio rimane solo il gulag.