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Conferenza Partito radicale
Kemura Adnan - 15 ottobre 1996
Ti ricordi Zepa in Bosnia ?
MESSAGGIERO 13 OTTOBRE '96 - Pagina 17

Scritto dal inviato Valerio Pelluzzari

Zepa.Questo e' il capolinea perfetto di nula. Non ci sono esseri umani, non

si vedono indicazioni stradali, automobili carri, greggi. Non ci sono case

intatte ne fuochi accesi. Solo un dainocompare e subito scompare dentro questo

bosco fitto e silenzioso, dove le mine sono piu' numerose dei funghi. La str-

ada di terra, che un tempo serviva solo ai coscaioli e che durante la guerra

era l'unica via di accesso ai villaggi musulmani della valle, a una comunita'

di circa quindicimila persone, adesso si ferma davanti al cratere di una

esplosione ancora fresca. E' stata una bomba serba a tagliare la strada,

perche' da questi parti i serbi non vogliono estranei. Anche se negli accordi

di Dayton c'e' scritto che tutti hanno liberta di movimento dentro i territori

della Bosnia. Sulla carta militare americana che orrienta questo villagio,

costeggiando la vecchia strada dei sultani che da Sarajevo portava a Costanti-

nopoli, continua a comparire sotto il nome dei villaggi piu' minuscoli,

scritta tra parentesi , la parola "destroyed".

Qualche chilometro piu' in basso ci sono le macerie di Zepa, della enclave

musulmana protteta con accordi scritti dalle Nazioni Unite e svuotta invece

con la forza dal generale mladic usando i gas e i carri armati nell'estate

del '95. Quella fu l'ultima enclave conquistata dal generale, il momento

di maggior successo militare e territoriale per la Grande Serbia, poi

crollata rapidamente davanti all'esercito croato e sotto le bombe degli

Aerei Nato. Prima di entrare nel bosco, di scendere dall'altipiano spoglio

giu' nella valle , si vedono i resti, con la cassette di munizioni, del posto

di blocco serbo che delimitava l'enclave. Poi qualche sacco di sabbia , qualche

rotolo di filo spinato e un'asta di legno sollevata in aria, che proteggevano

il campo dei caschi blu ucraini. Una lapide di pietra nera ricorda l'ufficiale

partito da Kiev e venuto a morire qui sopra una mina. Attorno a questi boschi

per quattro settimane - che ai serbi sembrarono interminabili - i montanari

musulmani del luogo e i profughi arrivati da altre zone cercarono di difendere

le loro case, di resistere alla pulizia etnica.

Gli abitanti di Zepa sopravvissuti sono sparsi chissa' dove, come i profughi

serbi e quelli croati, che la guerra ha spinto da una valle all'altra senza

una destinazione precisa. Ma il dottor Benjamin Kulovac, nato qui, figlio

di genitori nati qui, ha un indirizzo e dove lavora ce' un telefono. E' uno

dei due uomini che, mettendo uno straccio bianco su un bastone, andarono a

trattare la resa can Mladic. Siccome si puo' mantenere la dignita' anche nei

momenti peggiori, lui teneva la bandiera piegata in basso, come fanno i toreri

con il loro drappo rosso, senza dare grande soddisfazione alle telecamere della

televisione nemica. Kulovac per molto tempo non ha voluto raccontare quei

giorni. Mladic dettava le condizioni. "Prendete la penna e scrivete. Possono

essere evacuati i feriti, le donne, i bambini e i vecchi. Tutti gli uomini

sino ai sesantacinque anni, invece, sono nostri prigionieri. Se non accettate,

vi attacco con tutte le armi che ho, compresi i gas. Non avete bisogno di

testimoni stranieri. Sono io la vostra garanzia". Seimila musulmani erano

scomparsi da Srebrenica durante l'evacuazione nei giorni precedenti.

Dopo il primo incontro il generale manda di ritorno il dottore e il suo

amico con due stecche di sigarette marca "Partner". Ma la resistenza di Zepa

dura troppo, il generale ha fretta e il dialogo degenera rapidamente nei

incontri successivi. Uno dei due negoziatori, mentre si avvia al'tavolo

d'incontro viene derubato di 600 marchi dai serbi che presidino la strada.

La popolazione ormai si e' rifugiata nei boschi e nelle caverne, come

durante la Seconda guerra mondiale, quando i tedeschi si erano incautalmente

avventurati nella valle, bloccati poi con i tronchi che rotolavano da ogni

lato. A Zepa oramai sono rimaste una dozzina di persone. Mladic calca il

tono: " O fate come dico io, o vi faccio arrosto come quell'agnello su

quella casta di legna". L'ufficiale dei caschi blu che assiste agli incontri

e' una specie di notaio inerme, in pratica si limita a portare la pentola

con il caffe'. La garanzia della comunita' internazionale non garantisce nulla.

Oggi Zepa e' senza case, senza abitanti, senza strada; e' una realta cancellata.

Come e' successo alla moschea di Banja Luka, la piu' bella di tutti i Balcani,

prima distrutta con l'esplosivo e poi cancellata completamente. Al suo posto

oggi c'e' un piazzale vuoto. Come e' successo a villaggi ed edifici meno

celebri, dove nessuno vuole instalarsi in mezzo alle macerie degli altri. A

Derventa, in una valle spettrale, dove tutte le case sembrano fantasmi di

calce e mattoni senza tetto e senza finestre, un serbo aveva deciso di abitare

in una delle quelle rovine. Era partito con i chiodi e il legname aiutato da

un amico, ma dopo tre giorni esatti, guardando le macerie attorno, ha deciso

di abandonare tutto. La propaganda racconta le sue buggie, ma i villaggi

conquistati al nemico continuano a restare vuoti, da una parte e dall'altra.

Cosi l'enclave dei musulmani di fatto e' diventata l'enclave protteta dei

militari serbi. Qui attorno a Han Pijesak c'era il comando segreto dell'armata

jugoslava, costruito per resistere in caso di invasione. Oggi quel comlesso

e' stato ereditato da Mladic. Tagliando la strada per Zepa, il generale ha

alargato la sua cintura di protezione. Proprio qui passa la linea di divisione

tra il settore controllato dagli americani e quello dei portogesi dell'Ifor.

Entrambi fingono di credere che sia stata una frana ad interrompere la strada,

e non una bobma. Sono gli stessi militari che fingono di non vedere i criminali

di guerra ricercati dal Tribunale del'Aja.

Non erano criminali, ma banditi di buna razza, i polizioti che durante la guerra

presidievano l'ingresso a Rogatica, da dove le due portono strade per Gorazde e

per Zepa. Li ha conosciti anche Stefano Comazzi, che per oltre un anno ha portato

a Zepa e a Srebrenica i convogli umanitari dell'Alto Commissariato per i profughi.

Una volta gli autisti russi del convoglio furono sequestrati dentro un capannone,

in mancanza di un carcere vero, costretti a togliere li lacci delle scarpe,

insultati, schiaffegiati, senza godere piu' di alcuna benevolenza slava. I cavi

delle radio furono strappati. Un'altra volta il convoglio fu tenuto fermo per

dieci giorni, d'estate, senza alcun rifornimento, con gli uomini dell 'Onu costretti

a trovare un gabinetto solo quando scendeva la notte. E alla fine i camion furono

rimandati indietro senza scaricare gli aiuti.

Comazzi si era fatto una sua idea sulla dignit' della bandieras azzurra, piu'

consistente dell'idea di Akashi e di quella di Butros Ghali. Sempre senza armi

ha subito' prepotenze di ogni tipo, quando andava a portare gli aiuti a Zepa, ma

non ha mai fatto concessioni alla milizia di rogatica. Qualche mese fa e' tornato

nei villaggi in fondo alle valle, quando la strada ancora nion e' stata sabotata.

Ha visto due uomini, venuti da un'altra zona, che recuperavano pezzi di filo

elettrico ed altri miseri resti per portarli via. Attorno a loro solo macerie,

mucchi di immondizie e cani che giravano senza meta. Adesso abnche quei segni

minimi di vita si sono dileguati. La strada del bosco e' ancora punteggiata da

difese primitive, pochi sassi e qualche pezzo di legno. Protezioni per un uomo

solo con un fucile. In una caccia all'uomo della quale tra poche stagioni

nessuno trovera' piu' traccia.

 
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