DISCORSO DI SUA SANTITA IL DALAI LAMA AI MEMBRI DEL PARLAMENTO EUROPEO DI STRASBURGO
23 OTTOBRE 1996
Onorevoli Membri del Parlamento e cari amici,
Già nel giugno 1988 ebbi modo di presentare dinanzi a questo onorevole Parlamento un programma per le trattative tra il popolo tibetano e il Governo cinese. Ispirato dallo spirito della Vostra Unione formulai pubblicamente e formalmente la mia disponibilità ad avviare delle trattative con il Governo della Repubblica Popolare Cinese basate su un programma che non prevedesse la separazione e l'indipendenza del Tibet. Feci appello alle autorità cinesi affinché comprendessero che l'Unione politica, la coesistenza pacifica e la cooperazione genuina possono avere luogo solo in maniera spontanea, quando vi siano benefici per tutte le parti interessate. Affermai inoltre che l'Unione Europea rappresenta un chiaro esempio di tale concetto. Evidenziai altresì la possibilità che un Paese o una comunità possano dividersi in due o più entità qualora vi sia mancanza di fiducia, in assenza di benefici o nel caso in cui la forza venga utilizzata come principale strumento di dominio. Dal momento in cui espressi la mia propost
a dinanzi al Parlamento riunito in Strasburgo, la causa del Tibet ha ricevuto grande attenzione al livello internazionale. Il Parlamento Europeo, in particolare, ha dimostrato un continuo interesse per la situazione del Tibet e ha adottato una serie di risoluzioni che manifestano le gravi preoccupazioni per la violazione dei diritti umani in tale Paese. Di pari passo all'accresciuto interesse del Parlamento, l'Unione Europea ha sollevato il problema dei diritti umani nel Tibet in occasione delle successive sessioni della Commissione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite e ha espresso i medesimi motivi di preoccupazione alle Assemblee Generali delle Nazioni Unite. Sul piano pratico e umanitario, la Comunità Europea ha offerto assistenza economica ai rifugiati tibetani e ai progetti di sviluppo del Paese. Altrettanto incoraggiante e di grande aiuto è il fatto che la nostra convinzione che sia necessario trovare una soluzione pacifica alla causa del Tibet attraverso i negoziati sia condivisa e coerentemente sos
tenuta. Gli effetti del crescente interesse internazionale per il Tibet sono visibili. Il Governo cinese è stato infatti costretto ad accettare il dialogo sui diritti umani, ha pubblicato un "libro bianco" sui diritti umani e di "proprietà" in Tibet, e ha altresì consentito a numerose delegazioni occidentali di visitare il Paese.
In rappresentanza di sei milioni di tibetani, colgo l'opportunità per ringraziare i Membri del Parlamento, la Commissione e i Paesi membri per la costante sensibilità e per il sostegno accordatoci. In qualità di portavoce libero del mio popolo, vi chiedo tuttavia di intensificare i vostri sforzi volti ad agevolare una risoluzione pronta e pacifica della nostra causa attraverso i negoziati. E' infatti assolutamente necessario e urgente fare dei veri progressi nell'avviamento di un processo di pace. I mancati progressi nella risoluzione del problema politico stanno infatti accrescendo il rischio reale dell'esplosione di conflitti violenti in Tibet. Le mie speranze trovano conforto nell'assicurazione fattami dalla Presidenza Irlandese dell'Unione Europea affinché la causa tibetana sia sostenuta attivamente con le autorità cinesi.
Entro i limiti delle mie conoscenze, ho provato in ogni modo a trovare una soluzione accettabile per entrambe le parti. Tuttavia, è oramai chiaro che i nostri soli sforzi non sono sufficienti a portare il Governo cinese al tavolo delle trattative. Non mi rimane, pertanto, altra scelta che quella di appellarmi alla Comunità internazionale affinché intervenga urgentemente e agisca per conto del mio popolo.
Oggi, la lotta del popolo tibetano per la libertà è arrivata a una fase cruciale. Recentemente il Governo cinese ha irrigidito le proprie posizioni, ha intensificato la repressione in Tibet, e ha fatto ricorso a tattiche di intimidazione nell'affrontare il problema di questo Paese. Purtroppo, il rispetto dei diritti umani non ha fatto alcun progresso. Al contrario, la repressione e la persecuzione politica hanno recentemente raggiunto livelli senza precedenti.
La violazione dei diritti umani in Tibet ha un carattere peculiare. Gli abusi cui sono sottoposti i tibetani in quanto popolo intendono impedire che essi possano affermare la propria identità e il proprio desiderio di preservarla. Pertanto, la violazione dei diritti umani è spesso il risultato della discriminazione razziale e culturale istituzionalizzata. Se il problema dei diritti umani in Tibet deve essere affrontato, ciò deve essere fatto conformemente alla situazione reale.
In Tibet, il nostro popolo è sottoposto a marginalizzazione e a discriminazione a fronte di una strisciante sinizzazione. Lo scardinamento e la distruzione delle istituzioni culturali e religiose e delle tradizioni, associate all'influsso cinese di massa, equivalgono al genocidio culturale. La pura sopravvivenza dei tibetani come popolo distinto è continuamente minacciata. Allo stesso modo, i problemi della distruzione ambientale, che ha gravi conseguenze al di fuori dell'altopiano tibetano, e dello sviluppo economico indiscriminato, debbono essere necessariamente affrontato in maniera consona alla realtà tibetana.
La violazione dei diritti umani, il degrado sociale e le sommosse popolari in Tibet sono solo i sintomi e le conseguenze di un problema molto più radicato. Il problema del Tibet è, infatti, fondamentalmente di natura politica. E' di fatto un problema di dominio coloniale: l'oppressione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese e la resistenza a tale dominio da parte dei tibetani. Tale problema può essere risolto esclusivamente attraverso negoziati e non, come intenderebbe procedere la Cina, attraverso la forza, l'intimidazione e le epurazioni.
Sono certo che i prossimi anni saranno fondamentali per l'avviamento di negoziati chiari con il Governo cinese. La situazione attuale offre ai Membri della Comunità internazionale un'opportunità storica per rivedere la propria politica con la Cina, al fine di influenzare e di rispondere ai cambiamenti che si stanno verificando in questo Paese. Che i cambiamenti futuri in Cina portino nuova vita e nuove speranze per il popolo tibetano, e che la Cina stessa si dimostri membro affidabile, pacifico e costruttivo della Comunità internazionale, dipende in larga misura dall'impegno che tale Comunità prenderà nell'adottare politiche responsabili nei confronti del Paese in questione. Ho sempre sottolineato l'esigenza di coinvolgere Pechino nella corrente della democrazia mondiale e mi sono sempre pronunciato a sfavore di qualsiasi idea di isolazionismo. Questo tentativo sarebbe moralmente scorretto nonché politicamente impraticabile. Al contrario, ho sempre suggerito una politica basata sulla responsabilità e sull'ac
cordo di principio con le autorità cinesi.
La Cina si trova a un crocevia molto importante: la società sta attraversando profondi cambiamenti e le autorità stanno affrontando un trapasso generazionale. E' altresì evidente che il massacro di piazza Tienanmen non è riuscito a ridurre al silenzio la richiesta di libertà, di democrazia e di diritti umani. Inoltre, le prime elezioni presidenziali dirette nella storia di Taiwan all'inizio di quest'anno avranno certamente un impatto politico e psicologico sulle aspirazioni del popolo cinese. La trasformazione dell'attuale regime totalitario di Pechino in un governo più aperto, responsabile e liberale è pertanto inevitabile.
La Cina ha bisogno di diritti umani, di democrazia e di giustizia. Questi ultimi rappresentano le fondamenta di una società libera e dinamica. Essi sono anche fonte di pace e di stabilità. Una società che sostenga tali valori offrirà maggiori potenzialità e sicurezza anche per il commercio e gli investimenti. Una Cina democratica è dunque nell'interesse anche della Comunità internazionale in generale e dell'Asia in particolare. Pertanto, sarà necessario fare qualsiasi sforzo non solo per integrare la Cina nel mondo economico, ma anche per incoraggiarla ad entrare nel cuore della democrazia globale. Tuttavia, la libertà e la democrazia in Cina possono essere conquistate dagli stessi cinesi e da nessun altro. Per questo motivo è necessario incoraggiare e sostenere i coraggiosi membri del Movimento democratico cinese. La popolazione ha chiaramente manifestato il desiderio di rispetto dei diritti umani, di democrazia e di diritto attraverso vari movimenti sviluppatisi a partire dal 1979 con il "Democracy Wall" e
culminati con la grande sommossa popolare del 1989.
Un numero crescente di membri del movimento democratico cinese riconosce l'illegittimità del trattamento subito dai tibetani da parte di Pechino e ritiene che tale ingiustizia debba essere riparata. Persone coraggiose come Wei Jinsheng affermano apertamente che i tibetani debbano poter esprimere e attuare il proprio diritto all'autodeterminazione. Proprio il mese scorso due dissidenti cinesi hanno rivolto un appello al Governo affinché concedesse ai tibetani il diritto all'autodeterminazione e avviasse delle trattative con me. Una richiesta simile, sottoscritta da 54 cittadini di Shanghai, fu presentata al Governo cinese nel marzo del 1994. Uomini di cultura cinesi residenti all'estero stanno studiando la possibilità costituzionale di rendere la Cina uno stato federale e di attribuire al Tibet lo status di confederazione. Tutti questi sviluppi sono per noi di grande aiuto e sostegno. Sono pertanto molto lieto del fatto che, nonostante l'assenza di segnali positivi da parte del Governo cinese alle mie inizia
tive volte ad avviare i negoziati, il dialogo tra persone tibetane e cinesi stia dando vita a una migliore comprensione dei problemi e degli interessi reciproci.
In ultima analisi, spetta proprio al popolo tibetano e al popolo cinese trovare una soluzione giusta e pacifica al problema del Tibet. E' per questo motivo che nella nostra lotta per la libertà e la giustizia io ho sempre cercato di perseguire la via della nonviolenza al fine di garantire a un rapporto basato sul rispetto reciproco, sull'amicizia e sul principio di una genuina convivenza tra i due popoli la possibilità di essere perpetuato anche nel futuro. Per secoli il popolo tibetano e quello cinese hanno vissuto fianco a fianco, e anche in una prospettiva futura non vi è altra alternativa che quella di intrattenere rapporti di buon vicinato. Per questo motivo ho sempre attribuito grande valore al nostro rapporto, ed è con questo spirito che ho cercato di avvicinarmi ai nostri fratelli e sorelle cinesi.
Storicamente, e per diritto internazionale, il Tibet è un Paese indipendente soggetto all'occupazione illegittima da parte della Cina. Tuttavia, negli ultimi diciassette anni, cioè da quando abbiamo stabilito un contatto diretto con le autorità di Pechino nel 1979, ho adottato un approccio "intermedio" ispirato alla riconciliazione e al compromesso. Nonostante il grande desiderio dei tibetani di riconquistare l'indipendenza nazionale, io ho ripetutamente e pubblicamente manifestato la disponibilità ad avviare dei negoziati nella cui agenda non sia compreso il tema dell'indipendenza. La protratta occupazione del Tibet rappresenta una crescente minaccia per l'esistenza stessa dell'identità nazionale e culturale tibetana. Ritengo pertanto che sia mio compito fondamentale compiere qualsiasi gesto necessario per salvare il mio popolo e la nostra eredità culturale dal totale annientamento.
Sono inoltre convinto che sia più importante guardare al futuro piuttosto che indugiare sul passato. In teoria non è impossibile che i sei milioni di tibetani possano trarre benefici dall'unione volontaria con il miliardo di cinesi, sempre che si possa stabilire un rapporto basato sull'eguaglianza e sulla reciprocità dei benefici e del rispetto. Se la Cina vuole tenere il Tibet, sta a essa creare le condizioni necessarie. Ma la realtà oggigiorno è ben diversa, essendo il Tibet un Paese occupato e sottoposto a dominio coloniale. E' questo il punto fondamentale che deve essere affrontato e risolto attraverso il negoziato.
Sfortunatamente il Governo cinese non ha ancora accettato neanche una delle nostre proposte e iniziative presentate nel corso degli anni e deve ancora avviare un vero dialogo con noi. Tuttavia, noi tibetani continueremo nella nostra lotta nonviolenta per la libertà. Il mio popolo richiede un'intensificazione degli sforzi e ritengo che tale richiesta si trasformerà in azione, ma continueremo comunque a opporci all'uso della violenza come forma di espressione della disperazione che molti tibetani sentono. Finché sarò io a guidare la nostra lotta per la libertà non si verificherà alcuna deviazione dal percorso della nonviolenza.
Il problema del Tibet non scomparirà spontaneamente né potrà essere spazzato via. Come il passato ha chiaramente dimostrato, né l'intimidazione né la coercizione del popolo tibetano possono portare a una soluzione. Prima o poi le autorità cinesi dovranno affrontare questa realtà. Di fatto il problema tibetano rappresenta una grande opportunità per la Cina. Qualora esso fosse risolto adeguatamente attraverso il negoziato, non solo contribuirebbe a creare un'atmosfera politica adatta a una transizione non travagliata verso una nuova era, ma migliorerebbe di gran lunga l'immagine della Cina agli occhi del mondo intero. Una soluzione negoziata in maniera adeguata avrebbe altresì un forte impatto positivo sulle popolazioni di Hong Kong e Taiwan e aiuterebbe a migliorare i rapporti sino-indiani attraverso lo sviluppo di un sentimento di fiducia e di sicurezza. Inoltre, lasciando la nostra cultura buddista libera di rifiorire nel Tibet, crediamo di potere dare un grande contributo ai nostri fratelli e sorelle cines
i instaurando con essi una proficua condivisione dei valori spirituali e morali che sono oggi chiaramente assenti in Cina. Ciò è tanto più vero in quanto il popolo cinese non è per tradizione alieno al buddismo.
Io rimango personalmente impegnato alle trattative con la Cina e per poter giungere a un accordo reciproco mi attengo all'approccio "intermedio" da me adottato. Sottolineo questa mia decisione in risposta e coerentemente a quanto affermato da Deng Xiaoping, ovvero che "qualsiasi accordo può essere discusso e preso fatta eccezione per l'indipendenza". Le idee fondamentali del mio approccio "intermedio" sono espresse formalmente nel Five Point Peace Plan del 1987 e nella Proposta di Strasburgo del 1988. Sono molto addolorato dal fatto che Deng Xiaoping non abbia ancora tradotto tale affermazione in realtà, ma nutro tuttavia la speranza che i suoi successori sapranno avere la saggezza di risolvere il problema in maniera pacifica attraverso il negoziato. Ciò che desidero più ardentemente è la possibilità che il Tibet possa auto-governarsi, e oggi riaffermo la nostra disponibilità a un negoziato con la Cina da avviare in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo e senza alcuna condizione a priori.