L'URGENZA DI UN "MANIFESTO" E DI UNO "STATO DEL pARTITO"(Mi scuso per potere qui e altrove proporre soltanto la versione in Italiano di queste non poche righe. Attendo almeno la versione in Inglese entro breve.)
Vi sono, nel mondo, popolazioni più vessate e massacrate di quella tibetana; e che hanno meno voce, meno attenzione sollevano e catalizzano. il nostro partito ha invece e da anni individuato la questione tibetana come centrale.
Occorre che se ne recuperino le ragioni, e che queste entrino nella nostra consapevolezza anche collettiva.
Non vi è altra ragione per battersi in favore del Tibet e della sua gente se non quella di affermare con il Tibet la necessità di un nuovo ordine istituzionale sul pianeta, fondato sul Diritto, e su una nuova, del tutto nuova articolazione istituzionale. Nuova per natura, per capacità vincolante, per poteri che vi agiscono.
La tragedia tibetana è una rappresentazione tragicamente fedele della assenza di punti di equilibrio sul pianeta, della perdita di punti di equilibrio su un pianeta che ne ha conosciuti di tragici, ma funzionanti per decenni.
Non è possibile, quindi, intervenire sulla questione tibetana senza la esplicita e politica consapevolezza della sua funzionalità e utilità rispetto al problema complessivo della organizzazione istituzionale del mondo intero, dei rapporti cosiddetti internazionali. Per quanto riguarda noi, noi PR.
Il Partito Radicale non può avere posto a se stesso la priorità della battaglia per la libertà del Tibet quale iniziativa per la indipendenza di un popolo; se ciò fosse, il Partito Radicale non sarebbe la organizzazione più adeguata e utile in funzione di un tale obiettivo; e sarebbe assai meglio, probabilmente, dare vita o favorire la nascita di un soggetto ad hoc, che recherebbe il vantaggio indubbio di potere catalizzare e riunire energie e risorse diverse e nuove, comprese quelle che esplicitano ritrosie riguardo al nostro essere Partito e radicale.
Perché è il Partito Radicale e non una associazione mondiale per la salvezza del Tibet e del suo ecosistema a battersi per la libertà dei Tibetani? perché non è un "Peoplepeace"?
Se il Partito Radicale operasse in supporto di una causa di indipendenza nazionale non avrebbe legittimazione alcuna; se non quella di impegno caritativo fine a poco più che a se stesso.
E' questione di legittimazione ad agire: se è per la liberazione del Tibet, foss'anche in funzione di un processo di democratizzazione in Cina, nessuna legittimazione potrebbe rivendicare il Partito Radicale, che non conta tra i propri iscritti se non pochissime unità di Tibetani - e se possibile ancor meno numerosi Cinesi.
La legittimazione sorge o deve sorgere da altro. Dalla strumentalità esplicita che il Partito Radicale attribuisce alla causa tibetana. Strumentalità rispetto ad altro, ad un altro da concepire, o almeno da rendere compiuto e politico. Senza il quale caduca permarrà la legittimazione stessa del PR rispetto al suo agire in posizione centrale nella causa e nella questione tibetana.
In termini tattici non può sfuggire che se da parte radicale si insiste in una immagine e in una pratica di complementarietà rispetto alle legittime istituzioni tibetane in esilio, questo approccio si scontrerà e cozzerà presto o tardi nel difetto - evidente e naturale - di legittimazione di un soggetto quale il nostro rispetto alla rivendicazione di indipendenza e autonomia di un popolo.
Noi transpartito transnazionale - come insistiamo o non insistiamo a definirci - saremmo legittimati ad agire sul Tibet soltanto nell'ambito della esplicita e praticata consapevolezza della strumentalità della causa tibetana rispetto alla potenzialità di un nuovo assetto istituzionale del pianeta.
Altrimenti il difetto di legittimazione presto farà pagare a noi prezzi troppo elevati e financo - vista la situazione nostra di oggi - definitivi.
Sembra che invece noi si stia lottando proprio per una legittimazione nostra, nell'occuparci della questione tibetana. E non ha senso. La nostra legittimazione non può giungere come conseguenza di cautele, o come contropartita. Ancor meno può giungere da una pratica politica che prescinda da quel che siamo e dalle ragioni concrete e vere per le quali abbiamo individuato nella contraddizione tibetana una crepa in cui inserire una leva. Deve invece questa legittimazione sorgere dalla limpida chiarezza delle diversità e dei diversi interessi in gioco, compreso il nostro.
Nella contingenza di questi mesi ci rendiamo conto di come a noi talvolta o spesso non giungano informazioni di importanza cruciale per la valutazione della situazione e del suo evolversi. Ed è questo non il prodotto di politiche o comportamenti politicanti da parte altrui, quanto piuttosto della non chiarezza sul ruolo nostro e sugli interessi nostri.
Il Partito deve agire da soggetto politico che prefigura, nel suo stesso essere e nel modo in cui si organizza, l'ambito istituzionale in cui intende agire, e che intende creare.
La alleanza operativa con le istituzioni governative in esilio del Tibet, e quella conseguente con i gruppi di vario genere e natura che operano come possono e vogliono in favore di quel popolo non può ispirarsi a logiche di "intergruppo", che sovente o sempre tendono per propria natura a smussare le diversità in senso tattico, piuttosto che valorizzare le diversità anche profonde con nette utilità strategiche.
Patiamo spesso la tendenza a privilegiare la prudenza rispetto alla saggezza. Ma molto spesso ciò che ci appare prudente non è saggio.
E' il momento, per noi radicali, di dire e praticare, affermare e testimoniare la realtà per cui la causa della indipendenza tibetana non è la nostra causa. Non è la causa tibetana più urgente e tragica di altre. Di conseguenza, non può esistere alleanza strategica con il Governo Tibetano in esilio, o con i tanti gruppi filo-tibetani. Deve esservi e deve rafforzarsi la esistente opera comune. Nella nettezza della e delle diversità. In primo luogo perché a noi radicali i Tibetani e la loro storia, il loro oggi e il loro credo servono. Servono a noi, servono a quel che dobbiamo fare.
Quel che dobbiamo fare è ciò che ci manca. Ci manca in termini di riflessione e dibattito.
Non diversamente le cose stanno se si guarda alla nostra politica, o alla politica che alcuni iscritti al Partito conducono, in tema di pena di morte, o su altri terreni.
Va detto che manca - magari per la insipienza di chi scrive... - la consapevolezza del motivo e della ragione per cui siamo contrari alla sanzione capitale. forse non lo abbiamo mai detto; o almeno non lo diciamo da anni.
Perché no alla pena di morte? E allo stesso modo, perché la libertà del Tibet? Le prudenze recano ad automatismi e ad enfatizzare ragioni umanitarie, o quasi-umanitarie come connotati immediati del messaggio, nella presunzione che queste siano più direttamente comprensibili e assimilabili quali componenti di un messaggio politico. La saggezza lo sconsiglierebbe.
Se è vero, come è empiricamente vero - empiricamente, e non perché lo abbia detto il Mahatma o King o Pannella - che i mezzi sono in verità fini, che i mezzi prefigurano e non soltanto interpretano i fini, e li condizionano, sembra indubbio che almeno in termini di soggettività politica l'avere demandato la iniziativa in gran parte ad un soggetto specificamente impegnato per l'abolizione nel mondo della pena di morte potrà portare a null'altro che alla abolizione della pena di morte attraverso la statuizione di una istituzione che tra l'altro non ha legittimazione alcuna ad esprimere decisioni legislative vincolanti, cogenti. Il mezzo, lo strumento politico non può che produrre quel fine, prefigurarlo e quindi produrlo.
Sembra difficile sfuggire ad una considerazione, che è ragionevole molto prima e più che conseguenza di un punto di vista teorico gandhiano: è cruciale nella cultura politica di cui siamo interpreti il punto del diritto, e il punto - che si interseca con questo - della strumentalità della organizzazione della politica rispetto agli obiettivi che ci si pone. un soggetto che afferma la propria strumentalità (per le ragioni note di efficacia, e pure di laicità liberale...) sembra difficile possa dare vita ad altri soggetti politici diversi da sé senza negare la necessità della sua propria esistenza.
Si consenta una considerazione, anche se con questa chi scrive rischia di essere male interpretato in una apparente durezza e sprezzanza che è però lontanissima dalla sua volontà. Si tratta di un parallelo lontano, che nella consapevolezza del rischio di essere male interpretato e questo rischio sottolineando è però forse utile esporre.
Chi scrive è un portatore di handicap, e ha appreso con poca sorpresa, ma con un certo comprensibile dolore, che il vero ostacolo a che in Italia un portatore di handicap possa girare con relativa libertà è nella congerie di entità ed associazioni alleate che organizzano e gestiscono a suon di quattrini l'assistenza e l'accompagnamento di gente come noi. E la peggiore jattura per quelle entità e quelle associazioni sarebbe la trasformazione degli ambienti urbani in senso accessibile - per noi e quindi per tutti. Un handicappato è un tesoro per chi vi mette le mani sopra; se quell'handicappato è libero di muoversi e di girare, di pagare le tasse. Ogni entità che si occupa di portatori di handicap ha l'obiettivo interesse, che è quasi automatico e magari nemmeno troppo colpevole, a che la condizione di difficoltà dell'handicappato permanga il più a lungo possibile.
Il parallelo è poco calzante, forse, e certo non riguarda i compagni. Ma di certo è utile riflettere in proposito.
Diversissimamente da quanto appena detto, ma non troppo diversamente da quanto detto più sopra può guardarsi alla decisione assunta dal recente Congresso europeo del Cora, che ha scelto la prospettiva della federazione al PR, abbandonando quella sua di associazione interna al PR.
Beninteso, non può intravvedersi in questo nulla di male, nulla di criticabile, al di fuori delle considerazioni esposte. Ed è anzi commendevole che compagni la cui sensibilità li porta a concentrare energie su temi e campagne specifiche decidano di organizzarsi e di dare vita a soggetti funzionali al perseguimento degli obiettivi che scuotono le loro intelligenze.
E non c'è dubbio, pure, che nessuno e nulla può o deve impedire ad alcun compagno di decidere come organizzarsi. Il problema è piuttosto in alcune inadeguatezze, che non in volontà di impegno di compagni.
Ma certo questa realtà mette in causa la natura del Partito, e la sua politica.
Non è su questo necessario altro che una piena consapevolezza dello strumento partito. Null'altro. E a questa consapevolezza è necessario giungere. La diligenza del buon padre di famiglia consiglierebbe e consiglia sempre di fare i conti con le risorse esistenti e possibili, tenendo presenti gli obiettivi che ci si pone. E se gli obiettivi sono molteplici, occorre al soggetto politico una forma adeguata. Con ogni probabilità il permanere di questa situazione renderebbe necessaria una responsabilità politica divisa per settori, e congiunta nemmeno collegialmente, ma in sola sede di coordinamento. Probabilmente la direzione monocratica o diarchica quale è oggi quella che regge formalmente il Partito non ha più ragione di esistere, stando così le cose.
Certo, se su questo è opportuno soffermarsi ancora, la impostazione attuale può consentire alcuni vantaggi, segnatamente ad alcune individualità delle nostre. Che non vi è ragione di discutere, se non in sede di opportunità e utilità per le ragioni per cui il Partito esiste.
Che il Partito debba esistere non sta scritto da nessuna parte, insomma. Difettandone le ragioni, nulla di più opportuno che convertire il tutto, per chi lo vorrà o ne intravvedrà l'utilità.
Pur con la differenza quanto meno formale per cui la iniziativa sul Tibet è condotta dal Partito Radicale in prima persona, il rischio che si corre non è diversissimo, ed è espresso sopra. In questo caso il rischio è costituito dall'essere palesemente svincolata la attualità tattica delle iniziative dalla consapevolezza - almeno - strategica di chi vi partecipa.
E' necessario che il Satyagraha sia una invasione nonviolenta e non pacifica del Tibet.
Questa parola composta è da anni nel nostro lessico familiare. Familiare e spesso troppo privato.
Dobbiamo proporlo al di fuori del mondo tibetano e di quello connesso.
Ma in primo luogo occorre raggiungere una intelligenza, una capacità di intelligenza collettiva rispetto a quel che intendiamo fare. Affinché quella parola astrusa e tratta da idiomi remoti possa non essere o ridursi a totem E alibi.
Se Satyagraha non è soltanto un logo, occorre concepirlo noi. E condividerlo. Ma è saggio condividere quanto si domina, mentre è al massimo prudente attendere tatticamente una condivisione che patirebbe necessariamente una perdita di ricchezza nella potenzialità di elaborazione anche teorica.
Cosa deve essere il Satyagraha?
La domanda è insensata se non ci si pone lo scopo e l'obiettivo.
Se vi è una cosa relativamente indubbia nella teoria della nonviolenza politica e nella sua storia, questa è che i connotati della politica e della azione nonviolenta si evincono e misurano dai fini, piuttosto che dai mezzi che si dispiegano - ed è difficile smentirlo.
Dunque, occorrerà pure determinare gli obiettivi che ci poniamo; che ci poniamo noi. Per poi coniugare con chiunque il dispiegamento di mezzi adatti e adeguati.
L'obiettivo deve essere l'imposizione non alla comunità degli stati, ma alle nuove Nazioni Unite della questione tibetana, anche attraverso l'emergere di una nuova classe dirigente in Cina. Detta così è rozzissima. E rimane certamente rozza pure se la si dice in altro modo.
Ma non c'è dubbio che se vi è un problema di conquista di legittimazione da parte tibetana quale soggetto di diritto internazionale, vi è assolutamente parallela la necessità di conseguire anche attraverso quella legittimazione, la legittimazione delle Nazioni Unite quale luogo sempre più esclusivo delle vertenze internazionali. Cioè la necessità della affermazione del diritto quale punto di equilibrio progressivo nei rapporti tra le persone e i gruppi sociali, etnici, nazionali.
Se non siamo fermi su questo è molto probabile che quella del Tibet si rivelerà peggiore - per le sue conseguenze - della esperienza dell'Europa centrale e orientale. Che è stata esperienza sì di speranze sgonfiatesi come neve al sole, ma soprattutto di occasioni perse per l'occidente ricco e retto da regimi di democrazia politica.
Dipende insomma dagli obiettivi che ci poniamo il conformare in un modo o in un altro il soggetto politico; che non c'è dubbio sarà fedele rappresentazione degli obiettivi.
E' in questo senso che è cruciale la soggettività dello strumento Partito Radicale - purché il Partito sappia mutare e radicalmente la sua natura di oggi, e non soltanto i suoi connotati.
Liberare il Tibet, o affermare la necessità di istituzioni politiche sovraordinate alla contingente e anacronistica forma degli stati?
La domanda è questa.
Nel percorso possono aversi tutti gli alleati immaginabili.
Ma il timone su questo punto è per noi ineludibile. Non per ragioni esclusivamente ideali; ma per le evidenti e progressivamente più accentuate inadeguatezze nostre.
Non sembra dubbio che le cose sul pianeta vadano più rapide di quanto non vada la nostra politica.
Queste righe sono lontane anni luce financo dalla pretesa illusoria di "summare" alcunché. Va detto per chiarezza, prima che per umiltà.
E dunque, oggi occorre scrivere, oggi, il grande manifesto della necessità del diritto e di istituzioni internazionali nel mondo.
Il grande Manifesto programmatico dell'assetto istituzionale del Pianeta, in relazione alle necessità e alle urgenze del mondo di oggi. Quella del Tibet è rappresentativa di molte di queste, o di alcune di quelle più suggestive, oltre che più drammatiche.
Ma occorre concepire il Manifesto del Diritto planetario, e del nuovo punto di equilibrio di cui il mondo abbisogna.
Concependo una progressione di azioni e interventi, da illustrare, e sui quali catalizzare il consenso.
Che sarà il Manifesto della invasione nonviolenta e non pacifica del Tibet.
Dobbiamo aprire il processo di preparazione politica e anche di azione sul campo di questo.
Il Satyagraha non può essere che questo: la preficurazione civile delle capacità di intervento della comunità delle persone rispetto alle emergenze e alle questioni globali. Nella richiesta e nella volontà di dare vita a istituzioni globali.
Molto sarebbe necessario aggiungere sullo specifico di questo, che qui appena viene evocato. Meglio predisporre, anche con il dir questo, sedi e continuità di dibattito e riflessioni, aprendo per ciò stesso una fase nuova.
Non è questione di nonviolenza, gandhismo o altro del genere: è solo e semplicemente saggio scegliere di operare, per un gruppo organizzato come il nostro, su terreni sui quali non si sia destinati ad essere battuti. E magari su terreni nuovi.
Occorre andare là; e portarci un milione di persone. Anche i rapporti e gli equilibri interni alla dirigenza tibetana - peraltro a noi non ancora noti a sufficienza, e proprio per questo - e alcune riflessioni che giungono da lì lo consigliano; tra l'altro, tra il molto altro.
Che alcune e fondamentalissime urgenze possano e debbano portarci a responsabilmente prorogare e procrastinare alcune iniziative, e la attività stessa di alcuni soggetti dei "nostri", è certo fuor di dubbio, utile, necessario. Ben altro è omettere di governare, con l'oggi, il possibile o eventuale dopo. E allo stesso modo non vi è dubbio sul fatto che il dibattito e la riflessione sulla forma del partito, e sulla forma della cosiddetta area non è procrastinabile. Per nessuna altra ragione che quella della sua utilità, della utilità dell'attrezzarsi anche teoricamente oggi; recuperando e colmando ritardi ormai quasi non più recuperabili.
Soprattutto per quanto riguarda il soggetto Partito Radicale in senso stretto; i cui connotati non potranno prescindere dal più ampio e ampiamente pubblico dei dibattiti.
Nell'operare, prefigurando intanto e subito anche le forme dell'operare.
In questo senso la prospettiva del Satyagraha quale iniziativa direttamente funzionale a percorrere strade più ampie e chiare, è non solo necessaria, ma indispensabile.
Possiamo e dobbiamo praticare questa possibilità, che comporta una scelta. Anche sulla allocazione delle risorse. A partire dal patrimonio del Partito, dalla sede, da quel che ha. Occorre intanto e almeno un computo di quel che c'è, di quel che potrebbe per esempio vendersi.
Non sembra dubbio che oggi, qui e ora, sia necessario compilare quel che da tempo e da parte di tanti e quanto prestigiosi compagni si invoca, quel nuovo "Stato del Partito" che riprenda la felicissima decisione che i responsabili del Partito oltre otto anni fa assunsero, di rendere pubblico quanto è disponibile, quanto non lo è, quanto dei beni del Partito e della famiglia radicale può essere investito e speso e come.
Con il Manifesto, per il quale occorre che subito si costituisca un gruppo di redazione e studio, con il compito primario di allargarsi a nuove e altre e alte risorse intellettuali e culturali, occorre subito che si rediga lo Stato del Partito di oggi, la fotografia di quello che è ed ha - essere e avere la cui identità e coincidenza hanno sempre e quasi esclusivamente assicurato la credibilità laica del soggetto che formiamo.
Occorre almeno rompere la continuità abitudinaria dei nostri compiti, e concepire questa possibilità, in funzione di quel che dobbiamo essere capaci, dotandoci di competenze e intelligenze forse soprattutto esterne, di concepire la risposta e la proposta.