OBIETTIVO: UNA NORIMBERGA PERMANENTEdi Furio Colombo
(L'Espresso, 9 gennaio 1997)
Ruanda, Zaire, ex Jugoslavia. Stermini quotidiani. E tanti boia da mandare davanti ai giudici. Ma occorre un unico efficiente tribunale mondiale. Ecco chi, in Italia e fuori, si batte per crearlo.
Il sogno si è affacciato per la prima volta con il Processo di Norimberga. Coloro che hanno commesso crimini contro l'umanità non sperino d'ora in poi di abbandonare le armi, togliere la divisa e tornare a casa. Quei crimini sono cosa diversa dalla guerra e per essi è necessario presentare un conto separato. Il sogno non si fondava su una presunta "umanità" della guerra, le cui regole morali sarebbero state infrante da alcuni criminali. Si è trattato invece di aprire gli occhi dopo quello che era accaduto nell'Europa insanguinata dell'ultima guerra. Certe responsabilità sono personali. E per ciò che si deve rispondere di persona. Ma il processo di Norimberga non è stato la realizzazione di quel sogno di giustizia. E' stato il processo del vincitore. E per quanto fossero colpevoli coloro che sono stati raggiunti dalla sentenza, per quanto meritassero le pene che quel tribunale ha deciso, il processo di Norimberga resta associato al segno del vincitore che impone la sua volontà.
Molti anni dopo c'è stato il processo Eichmann. In assenza del mondo, Israele ha dovuto provvedere da solo a cercare, catturare, condannare uno dei più grandi assassini di massa del mondo. E poiché lo ha fatto senza la partecipazione del consesso internazionale si è parlato di vendetta, di occhio per occhio. Interpretazione distorta, perché Auschwitz, e tutto l'universo concentrazionario impiantato con scrupolosa efficienza dalla Germania nazista aveva tentato di distruggere un intero popolo. Ma pochi allora (e nessuno dopo) si sono raccolti intorno a quel popolo. Tanto che quando, decenni dopo, si sono celebrati il processo Barbie in Francia e il processo Priebke in Italia, memorie e coscienza del crimine erano evaporate e i due criminali, colpevoli di stragi indimenticabili, sono apparsi nelle vesti di anziani pensionati colpiti da coincidenze sfortunate. Sono stati trovati fuori tempo massimo. Tanto che il Tribunale militare di Roma, del tutto privo di cultura storica (e, stranamente, di cultura giur
idica) nella sua prima sentenza stava mandando a casa l'ufficiale che aveva personalmente e meticolosamente preparato la strage delle Fosse Ardeatine. E' stato questo esito del processo Priebke a far invocare ad Antonio Cassese, presidente del tribunale dell'Aja, nell'intervista apparsa sull'ultimo numero dell'"Espresso", l'applicazione dei confronti dell'imputato del concetto di "crimini di guerra" che permise al tribunale di Norimberga di giudicare tanti capi nazisti.
Qualcosa di simile a ciò che è accaduto a Roma sarebbe sul punto di succedere, dopo il massacro della ex Jugoslavia e dopo le spaventose vicende africane, se un instancabile movimento internazionale non fosse impegnato da anni a scuotere la coscienza del mondo. E' un movimento che non intende darsi pace fino a quando un Tribunale penale permanente per i crimini contro l'umanità non sarà istituito, con tutta la forza giuridica, l'autorità e il sostegno che richiede dai governi e dalle organizzazioni del mondo, non solo per esistere ma per funzionare.
In questo movimento l'Italia ha un ruolo importante. E forse mai c'è stato, su una questione in cui non vi sono che valori morali, un impegno tanto grande e costante. Sto parlando del Partito radicale transnazionale che a questo compito dedica tutte le sue forze: giovani militanti che testimoniano in tante parti del mondo, visitatori instancabili che bussano alle porte dell'Onu, giuristi che tentano di impedire la distrazione dei governi, iniziative che tengono sveglia l'attenzione dell'opinione pubblica. Questo gruppo italiano ha disseminato in mondo di filiali e di inviati. Ad essi si deve dire grazie se su questo tema non scende il silenzio. Ma anche il governo italiano e la sua diplomazia non sono rimasti in disparte. Dicono i giovani operatori del movimento per l'istituzione del Tribunale penale permanente che il nostro ministero degli Esteri è costantemente in azione, che le ambasciate italiane rispondono, che i diplomatici - specialmente la delegazione presso l'Onu - sono presenti e informati. Un
a doppia rete di attivismo, uno informale e volontario, l'altro governativo, continua a tentare di agganciare l'attenzione del mondo. I risultati? Vediamo, per rispondere, lo stato delle cose. Governi e agenzie internazionali hanno finora acconsentito più a parole che con i fatti, e più in modo episodico che con la soluzione stabile e generale che viene invocata.
Molti avranno letto sui giornali o ascoltato alla televisione, nei giorni scorsi, della condanna di Drazen Erdemovic, detto il boia di Srebrenica da parte del Tribunale penale internazionale dell'Aja. Meno male - avranno pensato - che quel tribunale esiste. Ne esiste uno anche sui crimini contro l'umanità commessi in Ruanda e nel Burundi. Ma avreste dovuto leggere ciò che l'"Herald Tribune" ha scritto nelle ultime settimane di questi due tribunali. Ha detto che uno, quello del Ruanda, praticamente non esiste. L'altro, quello dell'Aja, dedica la sua attività a pesci piccoli come il boia di Srebrenica (un semplice soldato), lavora senza alcun sostegno internazionale e non è in grado di far sentire la sua autorità e la sua voce.
Il tribunale per i crimini africani non ha mai potuto arrestare o condannare qualcuno di coloro che hanno ordinato il genocidio, né gli esecutori. E non dispone di una segretaria. Un solo giudice inviato dall'Onu vive, isolato, nel Centro Africa. Il tribunale dell'Aja ha potuto raggiungere il modesto risultato di cui hanno parlato i giornali. E' molto, rispetto al niente della non punizione dopo uno sterminio. E' poco perché i crimini in discussione sono grandi e sono continui. E si devono processare i mandanti. Ma il vero problema, dicono i volontari del Partito radicale transnazionale e i diplomatici italiani, che, quasi soli nell'indifferenza della diplomazia del mondo, cercano di non permettere la dimenticanza, è che siamo ben lontani dall'aver ottenuto la sola istituzione che può diventare un punto di riferimento giuridico e morale: il Tribunale penale permanente per i crimini contro l'umanità.
Ti dicono che è indispensabile che non avvenga una frantumazione di istituzioni. Il triste caso africano dimostra come è facile cadere nell'abbandono e nell'isolamento. Sostengono che l'autorità può venire soltanto dai due caratteri: internazionale e permanente. Affermano, con ovvia ragionevolezza, che un mondo che non ha trovato unità politica e capacità di convivenza senza conflitti può salvarsi dal peggio se trova un fortunato istante di unità per proclamare che tutti, comunque e dovunque, devono rendere conto dei crimini. E che la responsabilità di quei crimini, dallo stupro al genocidio, è sempre responsabilità personale. Che non può essere elusa. Nessuno potrà fare quello che è stato fatto in ex Jugoslavia o in Africa e poi tornare, travestito da politico o da normale cittadino, a circolare per il mondo.
Ci sono toni di appassionato fanatismo nell'impegno senza sosta di coloro che si battono per ottenere da Nazioni Unite e governi l'istituzione e l'effettivo funzionamento del Tribunale permanente internazionale. E' difficile non dar loro ragione. Quella del Tribunale è una storia lunga. Comincia con le speranze dell'Onu. Rischia di naufragare con il fallimento di questa organizzazione. Eppure non deve fallire. E se c'è un gruppo che dovrebbe farsi garante di questa speranza, sono i mezzi di comunicazione di massa, sono i giornalisti che sanno più di altri che cosa è una strage, e che hanno visto in faccia le vittime. Ecco un impegno e un dovere. Impedire che i criminali la facciano franca. I giornalisti che conoscono i nomi, i volti, le circostanze, li denuncino e chiedano che i Tribunali comincino a esistere, comincino a lavorare.
Non c'è sentimento di vendetta in questa decisione di non rassegnarsi. Al contrario, c'è il desiderio di offrire protezione preventiva alle vittime del futuro. Esiste negli Stati Uniti un'organizzazione detta dei Giornalisti che partecipano. Per partecipazione non si intende assumersi un ruolo fazioso nella storia che si racconta, significa assumersi responsabilità, una responsabilità che continua dopo l'articolo: chi ga visto una strage, renda testimonianza. Per testimoniare ci vuole un'aula di tribunale. Perché il tribunale funzioni occorre che sia permanente e che abbia giurisdizione sul mondo.
Un sogno, si dice. Infatti gli Stati Uniti fanno orecchie da mercante, molti governi di paesi che consideriamo rispettabili e anzi superiori a noi, di quelli che di solito ammiriamo come modelli, preferiscono non rispondere. Di fronte a tragedie come quella dello Zaire, i grandi del mondo si dividono. Gli Usa accusano la Francia (con fondamento) di continuare a proteggere i dittatori che un tempo la Francia ha insediato. Ma gli Usa stentano a muoversi, e le Nazioni Unite, stremate dal debito (i paesi che, come l'Italia, pagano puntualmente la quota dovuta sono pochissimi) sembrano in uno stato confuso di debolezza e di indecisione.
Eppure, il Tribunale permanente che si cerca di creare avrebbe un effetto grandissimo sul comportamento del mondo, dunque un effetto di prevenzione. Potrebbe dissuadere dall'ebbrezza di diventare impuniti organizzatori di morte. E poi, come non considerare l'immensa portata educativa che il Tribunale avrebbe anche sul comportamento del mondo "buono"? Sarebbe un simbolo per i più giovani, un riferimento per tutti i cittadini. Ma anche un paradigma di comportamento per coloro che partecipano alla gestione pubblica del mondo. L'esistenza di un luogo di giudizio, la pubblicazione delle condanne, la rappresentazione del male commesso diventerebbero non solo un modo di prevenire, non solo un riferimento esemplare, ma anche la coscienza costante del dover rendere conto.
E' troppo dire che il Tribunale penale permanente cambierebbe il comportamento di tutti coloro che hanno responsabilità pubblica, una volta stabilito che non c'è rifugio per chi rompe l'estremo patto di coesistenza fra esseri umani? Forse lo è. Ma con che faccia vai a dire ai militanti di questa battaglia che sarebbe meglio lasciar perdere perché la causa è sconsigliata da alcuni "buoni" governi del mondo? Con che faccia raccontarlo alle vittime, che si moltiplicano anche adesso, mentre stiamo scrivendo e leggendo? Non sarebbe questa una causa che dovrebbe fare propria per primi coloro che hanno visto in faccia le vittime, i giornalisti?