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Ex-Jugoslavia/proteste anti Milosevic

LA RIVOLUZIONE AMBIGUA

di Giuseppe ZACCARIA

La Stampa, Giovedì 9 gennaio 1996

BELGRADO ERANO trecentomila l'altra notte i serbi che intorno al patriarca Pavle celebravano il rito del Natale. Trecentomila persone commosse ed unite. Trecentomila oppositori, grazie all'abilità di Zajedno. Ancora una volta il cartello delle opposizioni era riuscito a intrecciare proteste e momenti d'unità, cortei e celebrazioni popolari trasformando l'opposizione politica in rito liberatorio. Dietro tutto questo dev'esserci un grande talento della comunicazione. Eppure, proprio la notte del Natale ortodosso a Belgrado è accaduto anche qualcos'altro. Siamo a cinquantadue giorni dall'inizio della rivoluzione delle uova nata intorno a radio B 92 come manifestazione studentesca, fatto creativo. Oggi di quell'origine si trova traccia solo nella testata di Demokratia, giornale partorito da una scissione, che sotto la testata celebra il passato con una rossa manchette su cui campeggia un ironico Ab ovo. il resto è cambiato. Nella ribellione al regime di Milosevic molto resta ancora del tutto indefinito. Forse ci

hanno fatto caso in pochi, ma la più lunga dimostrazione popolare della recente storia europea non ha ancora trovato un'etichetta, una definizione, un volto. Non è primavera di Belgrado, se non altro per fattori meteorologici, né caldo inverno dei Balcani, non è più rivolta delle uova né sarà dei carri armati, non è più moto studentesco né ancora rivolta di popolo (tanto che i due movimenti continuano a marciare separa-ti). E' qualcosa che contiene una forte spinta verso il cambiamento ma non ancora verso la democrazia, almeno per come in occidente siamo abituati ad intendere tale defini-zione. L'altra sera Zoran Dijndijc, forse il più prudente fra i leaders dell'opposizione, ha spedito un telegramma di cui difficilmente si troverà traccia nei reportages dei grandi networks televisivi. Sarebbe imbarazzante infatti spiegare come un campione della nuova democrazia possa firmare un messaggio che non solo celebra, ma cristallizza e proietta nel futuro la nascita di un mo-stro politico. Quattro anni fa - era il

9 di gennaio - uno Stato mai riconosciuto dal resto del mondo si costituiva in Srpska Republika di Bosnia, eleggendo a capitale un villaggio di montagna. Il villaggio era Pale, il leaer politico Radovan Karadzic, l'eroe nazionale Ratko Mladic. L'azione, quella che con geometrica potenza si è esplicata per anni nell'assedio di Sarajevo e nel genocidio dei musulmani. L'altra sera dal movimento democratico serbo è partito un telegramma, a firma Zoran Djindiic, che celebra non solo il ricordo dell'evento ma anche il comune destino dei serbi, Noi siamo un solo Popolo scrive Dijndijc a Biljana Plavsic, attuale rappresentante dei fratelli d'Oltredrina - ed il nostro futuro dev'essere sincronizzato. Seguono ulteriori e straordinarie promesse di un percorso comune, grammaAttenzione. Un simile tele-non parte da improbabili personaggi come Vuk Draskovic, volta per volta monarchici ed europei, istigatori e martiri, cantori d'epopee guerriere e martiri del pacifismo, in una parola, guasconi. Giunge da chi dovrebbe rap-pr

esentare l'alamoderata ed europea di Zajedno, la consuetudine con la democrazia (nel caso di Djindijc, quella tedesca). Da chi incarna la spe-ranza. Bisognerebbe intendersi allora sui limiti di questa speranza, su quel che possiamo attenderci quando, dopo chissà quali convulsioni, il decrepito serbocomunismo di Milosevic lascerà il passo a qualcosa di diverso. La presa del potere, o meglio ancora il collasso del regime, potrebbe verificarsi questa notte come fra sei mesi, nessuno può dirlo. Ma quel che mi sento di poter dire fin d'ora, è che il mio Paese sta perdendo un'occasione storica, è la sconsolata ammissione di Sonia Biserko, una diafane signora sulla cinquantina che di questa Serbia incarna una delle rare coscienze critiche.

E' presidente dell'Helsinki committee per i diritti umani, collabora con il tribunale dell'Aia, vanta un'antica solidarietà con Vesna Pesic, oggi fra i leaders di Zajedno, interrotta poi ai tempi della guerra di Bosnia (Lei aveva valutazioni, come dire, troppo realistiche...). Queste manifestazioni, le richieste di dimissioni di Milosevic contengono obiettivi che lei condivide in pieno, ma nello stesso tempo le appaiono come una sorta di terapia collettiva, un pubblico lavacro di mani sporche di sangue e compromessi. Del regime non parlo nemmeno, sta cadendo per decomposizione, ma inorridisco vedendo chi guida la protesta contro di esso, Pensi solo Draskovic, il primo che sul finire degli Anni Ottanta riscoprì prima il nazionalismo poi il tradizionalismo serbo, ed in un certo senso spinse Milosevic a cavalcare la stessa tigre. Quando adesso si presenza a petto in fuori dinanzi ai cordoni della polizia e li costringe a lasciarlo passare, il nuovo Apostolo di Serbia arriva brandendo una croce ortodossa, l'alza

sulla folla e con voce profonda declama Hristos se rodi (Cristo è nato, il saluto tradiionale) per poi attraversare lo schieramento armato come un Mosè che stia spalancando il Mar Rosso. Una delle più tragiche realtà di questo Paese consiste non solo nella necessità di riconoscersi in un capo - continua Son ja Biserka - ma nel fatto che mai i serbi hanno fatto i conti con loro stessi. Prima il comunismo, poi la dissoluzione della Jugoslavia, infine la guerra ... Osservi questi leaders, tutti. Non ce n'è uno che abbia avviato un ripensamento su quanto è accaduto in questi ultimi anni, sui crimini che pure i serbi hanno commesso. Ecco un altro punto su cui presto bisognerà ragionare. Quando la Chiesa ortodossa esce da cinquant'anni di com. plicità col potere, lo critica in nome dei fratelli di Krai jna abbandonati a sé stessi e dei privilegi che intende recuperare. Ai profughi della piccola Sparta serba, al regime di Pale condannato dal mondo, Zajedno continua a riferirsi non solo cercando sostegno ma quasi p

refigurando una nuova fase della grandezza serba. Quando il tiranno sta per cedere, o forse per cadere conclude Sonja Biserka - è sconsolante accorgersi di quale vuoto esista dietro una protesta che finora si è alimentata di sé stessa. Spero solo negli studenti. E' vero, spesso marciano al suono di Kralie Petre Garda, la canzone della guardia del re Karageorgevic, ma loro almeno non sono compromessi.

 
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