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Partito Radicale Roma - 14 marzo 1997
Sul Tetto del mondo aspettando la fine della diaspora tibetana
MISTICISMO, DELITTI E POLITICA TURBANO L'ESILIO DEL DALAI LAMA CHE RISCHIA DI TORNARE IN UN PAESE COMPLETAMENTE CINESIZZATO

DA "IL FOGLIO" - 14397 - PAG.4

Un triplice omicidio attribuito a una setta buddista, ma nel quartier generale del leader spirituale non si esclude lo zampino del governo di Pechino. Lo sterminio comunista e la profezia dell'Oracolo di Stato: "Entro il Duemila ritorneremo a Lhasa"

Mc Leod Ganj. Il vecchio tibetano prega a mani giunte, il rosario stretto tra le dita, genuflettendosi pi- volte verso il massiccio del Dhauladhar infiammato dal sole del tramonto. Pi- a valle un migliaio di fedeli, tra cui molti occidentali saliti fin quass·, a quasi diecimila metri, tornano dal tempio dopo aver ascoltato gli insegnamenti pubblici che come ogni anno, in occasione della Losar, il capodanno tibetano, il Dalai Lama in esilio impartisce giornalmente a Mc Leod Ganj, villaggio indiano vicino Dharamasala. Ma la grande festa legata al calendario lunare, che quest'anno caduta l'8 febbraio, stata turbata da eventi tragici che, pur avvolti nel tipico velo di misticismo del Tibet, hanno risvolti, anche politici, assai concreti. Il primo si era verificato appena quattro giorni prima del suo inizio: l'assassinio di Lobsang Gyatso, l'anziano direttore della Dialectic School, l'istituto dove si insegna l'arte della retorica buddista, e di due suoi allievi. Un triplice omicidio perpetrato dagli adepti

della setta del Dorje Shugdhen, un antico culto che risale alla metß del Sei cento, all'epoca del V Dalai Lama, alla cui corte fu assassinato - con un rituale magico - un alto dignitario il cui spirito avrebbe giurato di vendicarsi di tutti i pontefici di Lhasa. Giß dieci anni fa il Nechung, il potente Oracolo di Stato, aveva "visto" in uno dei suoi stati medianici, che la setta dello Schugdhen avrebbe tentato di assassinare il Dalai Lama, ma questi aveva preferito mantenere segreta la notizia; almeno finch gli avvenimenti non gli hanno forzato la mano, inducendolo a chiedere pubblicamente l'abolizione di questo culto - teso ad ottenere vantaggi materiali e quindi contrario al buddhismo - e ad attentare alla sua vita.

La reincarnazione dell'undicesimo Panchen

Un "affaire" forse non facile da comprendere per la mentalitß occidentale, ma che ha provocato una seria spaccatura all'interno della societß in cui il capo spirituale nel contempo anche il leader politico. Gli alti funzionari della segreteria del Dalai Lama non escludono che tutto possa essere manovrato dal governo cinese, ma l'atmosfera che si respira a Mc Leod Ganj, villaggio indiano dove vive il Dalai Lama, carica di mistero, anche perch ancora avvolte nel silenzio sono le previsioni che l'Oracolo di Stato ha fatto, secondo la tradizione, all'inizio del nuovo anno e che il Dalai Lama non ha ancora reso pubbliche. Il futuro dei tibetani e del loro leader appare dunque sospeso. Nel summit di alti funzionari cinesi riunitisi nel 1995 a Chengdu, nei pressi di Beijing, venne pianificata una nuova strategia che prevedeva anche l'uso della forza, assassinio compreso, per fare il vuoto intorno al Dalai Lama; ma ora la morte di Deng Xiaoping potrebbe portare a qualche svolta. E l'uccisione di Lobsang Gyatso

potrebbe invece, essere l'inizio di una faida religiosa interna. Ma queste non sono le uniche preoccupazioni del Dalai Lama. Vi , innanzitutto, il conflitto con Pechino sulla reincarnazione dell'undicesimo Panchen Lama, la seconda autoritß religiosa del Tibet (il Panchen Lama e il Dalai Lama si legittimano vicendevolmente), che i lama favorevoli al regime cinese hanno riconosciuto in un bambino imposto da Pechino due anni fa, mentre il candidato del Dalai Lama stato imprigionato con tutta la famiglia in una localitß segreta della Cina. Anche in questo caso, dietro lo scontro religioso si nasconde un conflitto politico poich il Panchen Lama non ha abbandonato il Tibet ma rimasto nel monastero di Tashi Lhumpo che negli ultimi trent'anni diventato la roccaforte della corrente filocinese del buddhismo tibetano. Vi poi la meno conosciuta questione della diaspora tibetana. Decine di profughi tibetani varcano quotidianamente la frontiera con l'India e il Nepal, ingrossando le fila degli oltre centomila ch

e hanno giß lasciato il paese. Da qualche anno questa fuga non pi· contrastata da Pechino, forse nella speranza che la fuoriuscita dei tibetani favorisca la "cinesizzazione" del paese nel quale, dopo quarantasei anni di occupazione, i tibetani sono ormai una minoranza di sei milioni di individui contro gli otto milioni di cinesi di etnia Han, inviati a colonizzare l'altopiano. I tibetani in esilio soffrono lo status di profughi e il governo non dispone di mezzi finanziari per attuare interventi risolutivi. Gli introiti arrivano dalle donazioni internazionali, dalla tassazione volontaria di tre rupie mensili a testa (circa 150 lire) dei 130 mila tibetani sparsi in India e all'estero (per questi il contributo di 10 dollari) e dai profitti delle imprese commerciali impiantate in vari Stati indiani per la vendita dei tappeti e dell'artigianato tibetano. Ma il budget risicato per creare nuovi posti di lavoro e per aiutare l'inserimento dei nuovi arrivati.

Un milione e 200 mila morti

In patria la situazione non migliore. Nei quarantasei anni di occupazione, si calcola che i cinesi abbiano ucciso pi· di un milione e 200 mila tibetani e depredato quasi totalmente il patrimonio artistico. I tibetani sono ora una minoranza povera, discriminata sul lavoro, priva di scuole (il 70 per cento della popolazione analfabeta). Nei monasteri del Tibet, centri propulsori dell'indipendentismo, iniziata quest'anno una nuova campagna di "rieducazione patriottica" volta ad annientare le istanze di separatismo. Analogamente alle iniziative, ma molto pi· brutali, adottate nei confronti dei musulmani dello Xinjiang. Il futuro resta comunque incerto. L'invasione del Tibet ha mutato l'equilibrio geopolitico della regione, ponendo una frontiera comune tra indiani e cinesi che nel conflitto del 1962, tre anni dopo l'invasione del Tibet, occuparono una parte del Kashmir indiano: una ferita ancora aperta per Delhi. La militarizzazione del Tibet - attualmente vi stazionano mezzo milione di soldati che dispongo

no di quattordici aeroporti, diciassette stazioni radio e cinque basi missilistiche nei pressi del confine indiano - ha permesso una stretta cooperazione fra Cina e Pakistan, concentrata sulla costruzione della Karakorum Highway, la strada pi· alta del mondo, che unisce i due paesi e che Delhi considera ovviamente una minaccia. La politica di modernizzazione permette a Pechino di mascherare il depredamento delle enormi risorse naturali di cui il Tibet ricco: legname pregiato ( stato distrutto un terzo del patrimonio forestale) e minerali strategici, principalmente plutonio ed uranio, che i cinesi estraggono per la loro industria nucleare e le cui scorie radioattive vengono interrate nel Tibet, in enormi depositi (insieme con le scorie dei paesi occidentali che qui inviano il loro materiale, pagando in valuta pregiata), cosø che l'altopiano si sta trasformando in una pericolosa pattumiera nucleare. N cessata la sperimentazione atomica che proprio in Tibet, ad est del lago Kokonor, ha il suo maggiore cen

tro, noto come la "Nona Accademia". In questa situazione, secondo stime occidentali, entro i prossimi dieci anni i tibetani potrebbero perdere definitivamente la propria identitß e il Tibet trasformarsi in una della aree pi· a rischio del pianeta. Il Dalai Lama ne perfettamente consapevole e da ci scaturisce la sua grande fretta per il rientro in patria, che l'Oracolo di Stato ha previsto entro la fine del secolo, anche a costo di gravosi compromessi con Pechino. Ma c' da chiedersi quale sarß l'effetto di questo rientro e quali tensioni, anche sociali, scatenerß. La nuova generazione nata fuori dal Tibet ha una visione romantica della patria d'origine, parla inglese, conosce i costumi occidentali, ha esperienza di lavoro nella pubblica amministrazione, la sua cultura di gran lunga migliore e in pi· parla, scrive e legge il tibetano, mentre in Tibet la lingua nazionale non viene insegnata nelle scuole cinesi e quelle tibetane sono troppo poche. Il loro rientro li porterebbe inevitabilmente a occupare po

sti di preminenza. Non certo che i tibetani rimasti in Tibet durante questo lungo cinquantennio accetteranno di essere posti in secondo piano dai nuovi arrivati.

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