di RENATA PISU
(Il Venerdì di Repubblica, 25 aprile 1997)
"Soldati che sparano sui monaci, lezioni di 'patriottismo', antiche case trasformate in bordelli, città ribattezzate e documenti redatti solo in cinese L'esercito di Pechino sta annientando un paese, la sua gente, una cultura millenaria. E per chi grida parole di libertà resta solo la prigione"
Lassù, sul Tetto del Mondo, stanno assassinando un'antica civiltà: le armi sono quelle classiche del colonialismo e le impugnano i soldati dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese che i tibetani chiamano Esercito di Occupazione. Come occupanti si comportano infatti in Tibet i militari cinesi, militari dello stesso esercito che il primo di luglio di quest'anno entrerà a Hong Kong, la colonia che finalmente torna tra le braccia della madre patria. Mentre i soldati e gli ufficiali che saranno assegnati di stanza nella prospera Hong Kong da mesi ormai vengono addestrati alle buone e civili maniere perché gli occhi del mondo saranno puntati sulle città che è stata finora la "perla" della Corona britannica e che la Cina spera diventi la sua gallina dalle uova d'oro, quelli che occupano il Tibet mostrano un altro volto, hanno ricevuto un altro addestramento e obbediscono a ordini diversi.
A Hong Kong si tratta di prendere in consegna una colonia finalmente redenta, in Tibet si tratta di ridurre completamente allo stato di colonia un paese la cui popolazione non si rassegna all'annientamento. E il compito è facilitato dal fatto che gli occhi del mondo non sono puntati sul Tibet, le notizie impiegano mesi a scendere da lassù fino alle nostre pianure dove trovano scarsa eco.
Il Tibet è lontano. Eppure sono notizie tragiche come questa: cinque mesi fa, al monastero di Ganden, una cinquantina di chilometri da Lhasa, la capitale del Tibet, l'Esercito Popolare di Liberazione ha sparato sui monaci che protestavano contro l'esecuzione di un ordine venuto da Pechino: l'ordine era distruggere tutte le foto del Dalai Lama e i soldati cinesi hanno staccato dai muri delle celle le immagini del capo spirituale dei tibetani, le hanno gettate per terra e calpestate. I monaci, tutti giovanissimi, quasi bambini, hanno tirato dei sassi, i soldati hanno aperto il fuoco. I morti pare che siano stati una ventina, i feriti un centinaio, una cinquantina di monaci sono ancora oggi in prigione. Per questo oggi nessuno va a visitare il monastero di Ganden, né turisti né pellegrini: ai posti di blocco i soldati cinesi lasciano passare solo i membri delle "squadre di rieducazione", cinesi come loro, i quali impartiscono ai monaci lezioni quotidiane di "patriottismo", tentano di convincerli ai sottoscriver
e una dichiarazione in cinque punti nella quale ripudiano il Dalai Lama come capo spirituale, accettano l'autorità del Panchen Lama scelto da Pechino, riconoscono che il Tibet è sempre appartenuto alla Cina, si impegnano a rinunciare a qualsiasi attività separatista e a non ascoltare più la trasmissioni di radio straniere in lingua tibetana.
In effetti ormai soltanto emittenti estere trasmettono regolarmente in tibetano perché il regime cinese, per annientare la cultura tibetana, si serve anche di un'arma insidiosa e molto efficace: la condanna a morte della lingua. La televisione che imperversa trasmette quasi esclusivamente in cinese, nelle scuole l'apprendimento del cinese è obbligatorio e i bambini imparano prima gli ideogrammi che i segni dell'alfabeto tibetano. A poco a poco, inesorabilmente, mutano anche i nomi dei luoghi che prima vengono abbreviati e poi cinesizzati in modo che il villaggio di Paishen oggi si chiama Ba Yi, il lago Drakusum Tso è diventato Ba Sum e la vetta Mangshung oggi si chiama MiLa. Eppure nel 1987 le autorità avevano riconosciuto il tibetano come lingua ufficiale della Regione autonoma del Tibet e ancora ufficialmente, le cose stanno così anche se tutti i documenti e le ordinanze sono redatti in cinese senza badare minimamente al fatto che la gente, specie gli anziani, non capisce il cinese. Ma lo imparerà, deve im
pararlo e deve dimenticare il tibetano che, nonostante tutti gli sforzi della diaspora tibetana, rischia di sparire, diventare lingua morta per eruditi, non più viva parlata quotidiana come è stata per secoli prima della Conquista.
Ma ci sono anche mille altri modi per assassinare un paese e il suo popolo: per esempio, favorendo l'immigrazione di coloni, al punto che oggi i tibetani, nella loro stessa terra sono diventati una minoranza rispetto ai cinesi.
Oppure pretendendo di "modernizzare e risanare" un'antica città come Lhasa, oggi deturpata da costruzioni nello stile attuale della Cina popolare in vena di capitalismo, e cioè palazzine a due o tre piani, intonacate con colorini sbiaditi, rosa o celeste, o rivestite di piastrelle verdastre.
Quartieri interi della città vecchia spariti, pretenziosi ristoranti con grandi vetrate azzurrine e colonne rosse di plastica, lunghe file di botteghe che espongono il peggio del Made in China, persino il colpo d'occhio sul Potala, il palazzocastello dove risiedeva il Dalai Lama prima della fuga in India, impedito da edifici con pretese di modernità stridente con quelle antiche pietre. Così si presenta oggi Lhasa dove è stato raso al suolo il vecchio quartiere, la Sholl, che sorgeva proprio sotto il Potala, per costruire un lungo viale che va fino al Jokhang, il tempio più sacro della città dove sono avvenute manifestazioni anticinesi negli ultimi anni, subito soffocate perché il viale permette agli automezzi militari di raggiungere velocemente il tempio.
Per agevolare il movimenti dell'esercito cinese, tutto il tessuto della città è stato dilaniato da arterie stradali sfiguranti come ferite. E il fatto che l'Unesco abbia riconosciuto di culturale rilevanza i monumenti architettonici di Lhasa non ha impedito che più della metà della città vecchia venisse distrutta e riedificata in stile cinese contemporaneo. Lo scempio continua imperterrito, secondo le direttive che vengono da Pechino che ha espresso l'intenzione di "modernizzare" tutta la capitale entro il Duemila.
Lhasa dovrebbe quindi diventare il simbolo della vittoria del progresso sul Medioevo tibetano, ma in realtà si sta già profilando l'incubo di una Suburra delle Nevi, versione himalayana della città sfatta vista in Blade Runner.
Sale da gioco con videogames, locali dotati di karaoke, centinai di bordelli tenuti da coloni cinesi dove fino a poco tempo fa si trovavano soltanto ragazze cinesi e ora anche giovanissime tibetane (segno che il progresso avanza e nessuno può sottrarsi alle sue leggi) attirano una clientela soprattutto di militari cinesi in libera uscita ai quali si mescolano giovani tibetani storditi da questa "dolce vita" che il "socialismo con caratteristiche cinesi" ha messo a loro disposizione perché rinuncino ad essere tibetani.
Non si vestono nemmeno più con la lunga tunica, i tibetani che aspirano alla modernità, preferiscono i jeans e il giubbotto di cuoio. Solo i pellegrini che arrivano a Lhasa dalle zone più remote vestono ancora alla tibetana, le lunghe tuniche color viola o marrone, le collane di turchesi, le donne con i capelli intrecciati in trecce minute, gli uomini con i capelli raccolti in lunghe code avvolte intorno al capo. Si radunano intorno al Jokhang dove si prostrano per terra, lasciandosi scivolare lungo le stuoie dopo aver alzato le mani giunte prima al cielo, poi all'altezza del viso e al cuore, con movenze lente e dignitose.
Al Barkhor, il quartiere circolare che sorge intorno al tempio Jokhang, è rimasto qualcosa della vecchia Lhasa: vi sono ancora le case di pietra con le cornici di legno alle finestre dipinte a colori forti che si amalgamano bene alla struttura del luogo di culto più sacro di tutto il Tibet, appunto il tempio Jokhang dalle alte mura rossastre, dai tetti dorati a pagoda. Ma le case tibetane di Barkhor, stando a un'ordinanza di Pechino, devono essere ristrutturate ma "alla cinese". Un corpo speciale di polizia formato da tibetani convinti che la luce venga dalla Cina (gli altri tibetani li chiamano "traditori") pattuglia incessantemente il quartiere di Bangkhor alla ricerca di devoti sospetti: troppa dedizione può essere già di per sé sedizione, per questo telecamere e microfoni sono istallati ovunque, annidati tra interstizi delle pietre delle case, davanti ai cancelli del tempio.
Un anno fa - è l'ultima manifestazione di cui è giunta notizia dopo i moti anticinesi del 1992 - alcune giovani monache, prima di prosternarsi davanti al tempio di Jokhang, a mezza voce appena non osano gridare, invocarono "Libertà al Tibet". Furono immediatamente udite nella caserma cinese costruita a lato della piazza, le loro voci amplificate dai microfoni direzionali dei quali le monache ignoravano forze l'esistenza. Sono state subito arrestate, rinchiuse nella prigione di Drapchi, torturate, condannate a lunghe pene per "attività separatista". Una di queste monache si chiamava Sangdrol, ha diciotto anni, è stata condannata a nove anni di prigione. Pochi mesi fa, per aver testardamente gridato nella sua cella "Libertà per il Tibet", la pena è stata raddoppiata. Uscirà nel 2014, dopo aver passato metà della sua vita tra le sbarre. La sua storia è stata resa nota dal Tibet Information Network, un'associazione che si occupa di diritti umani nel Tibet. E' soltanto una delle tante storie di un paese che sta
morendo.