La sindrome algerina contagia la Turchia
I militari: "Siamo noi il baluardo contro l'Islam"
di PIERO BENETAZZO
ISTANBUL - Il vertice delle forze armate turche si riunito ieri d' urgenza per esaminare la situazione dopo la grande manifestazione islamica di domenica (300 mila persone in
piazza a Istanbul), la prima protesta pubblica contro il
laicismo voluto dal "padre della patria" Kemal Ataturk. Si
discutono le misure da prendere e, almeno per ora, s'insiste
sull'opposizione affinch serri i ranghi e s'accentuano le
pressioni sui dissidenti del partito di Tansu Ciller, affinch
abbandonino il governo a guida islamica. Non chiaro se
tanta pressione possa portare a un risultato positivo. La
situazione infatti sempre pi· difficile: crescono le proteste
contro il diktat del Consiglio per la sicurezza nazionale -
l'organismo di sorveglianza dominato dai militari - che vuole
prolungare di tre anni, portandoli a otto, l'obbligo alla scuola
pubblica e laica. Comporterebbe la chiusura di molte scuole
medie religiose, l'influenza degli imam accosterebbe non pi·
bambini ma ragazzi giß cresciuti. "Trasformeremo la Turchia
in un' altra Algeria", ha minacciato un deputato del premier
Necmettin Erbakan. Cosø, per la prima volta nella storia
della Repubblica, la piazza sfida i militari, l'istituzione pi·
chiusa e rispettata a cui la Costituzione affida la difesa delle
basi laiche dello Stato.
Forse il premier Erbakan - politico consumato, abituato a sopravvivere tra le pieghe del sistema - avrebbe preferito
ritmi pi· lenti, una dialettica pi· moderata, ma gli umori della
base del suo partito sono tesi, molto determinati. "Oh madri
- gridava qualche giorno fa l'oratore a un mare di chador
che riempiva il palazzo dei congressi di Istanbul - voi, a cui
spetta il paradiso, avreste messo al mondo i vostri figli
sapendo che le scuole religiose avrebbero chiuso?". Gli
rispose un rabbioso coro di no, molte donne in piedi
volevano uscire subito per le strade; hanno fatto fatica a
calmarle. Ma all'impazienza della base si contrappone eguale
decisione da parte dei militari, convinti che il tempo sia loro
nemico, che gli spazi per la difesa della laicitß dello Stato si
facciano sempre pi· stretti e sottili. Un rapporto dello Stato
maggiore sostiene che le scuole religiose continuano ad
aumentare e continuano ad aumentare gli studenti con balzi
del 170 per cento. Studiano da imam, ma si concentrano poi
nelle facoltß di scienze politiche, diritto, affollano l'
accademia di polizia. Nella facoltß di pubblica
amministrazione - da cui escono gli alti funzionari dello Stato
e i governatori delle regioni - giß il 50 per cento degli
studenti viene da scuole islamiche. Entrano dunque nei gangli
delle istituzioni, sfornano elettori: se l' attuale trend dovesse
continuare - scrive il rapporto - il partito di Erbakan
otterrebbe, nel 2005, il 67 per cento dei voti, avrebbe in
mano l'intero paese. "Non possiamo assolutamente cedere -
ha dichiarato il generale Kenan Diniz - una questione di
vita o di morte".
Paradossalmente sono stati proprio i militari - con il golpe
del 1980 - a dare via libera all'Islam, visto come un sicuro
antidoto a comunisti e sinistrorsi. Da allora la Turchia si
riempita di moschee (al ritmo di 1500 all'anno) e sono fiorite
le scuole religiose da cui si pu accedere anche all'universitß.
Ma ora l'Islam sfuggito a quel ruolo di sottofondo
silenzioso della vita civile affidatogli dai militari per invadere
da protagonista la scena politica, suscitando interrogativi e
molta inquietudine. In realtß i militari turchi, di educazione
rigorosamente laica, si sono inseriti nel dibattito politico con
molta riluttanza, per riempire il vuoto lasciato da
un'opposizione laica paralizzata, guidata da "capo- clan"
animosi, divisi soprattutto sul piano personale. Incapaci
dunque di formare un governo di unitß nazionale bench
dispongano - sulla carta - del 75 per cento dei voti.
"Con il loro intervento - sostiene il commentatore Ali Birand
- i militari cercano l'unitß dell'opposizione o il disintegrarsi
del partito della "traditrice" Tansu Ciller. Il golpe? Sarebbe
certamente inviso all'America e all' Europa. Ma sono usciti
allo scoperto: qualcosa devono certamente fare, in gioco
la credibilitß delle istituzioni". Ma la strategia dei militari si fa
pi· complicata per il veloce polarizzarsi della societß. Essi
hanno il sostegno incondizionato della societß civile laica,
che guarda con angoscia al riemergere di un simbolismo che
promette scontri e intolleranza: l'improvviso riapparire della
vecchia lingua ottomana; i sindaci islamici che vietano l'alcol;
opera e balletto classico - considerate arte impura - sempre
pi· rari al Teatro Municipale di Istanbul; e Sultanbelj - 20
chilometri dalla cittß - gestita come una specie di "zona
liberata": sparito il ritratto di Ataturk, tutte le donne in
chador, nella panetteria comunale un grande ritratto di
Abdulamid II, l'ultimo sultano dell'impero ottomano.
In questo paese che vaga tra Oriente e Occidente le identitß
sono fragili, le insicurezze sono forti e la classe media laica
ha la sensazione di una minaccia mortale. una classe che si
sviluppata in modo articolato in un'economia fortemente
legata all'Occidente: non si nutrita solo di petrolio e di
parassitismo - come in Iran - ma ha invaso il business, il
mondo produttivo, le professioni. Sono donne la
maggioranza dei medici e degli avvocati, la metß degli agenti
di Borsa e dei direttori di banca. Ma si trova di fronte un
Islam aggressivo, cresciuto nelle bidonville che gonfiano le
cittß, in un processo di inurbamento che ha pochi
precedenti. Istanbul e Ankara crescono di mezzo milione all'
anno e a migliaia ogni giorno scendono dagli altopiani
dell'Anatolia, fuggendo guerra e povertß. Li si incontra per le
strade, febbrili e inquieti, a trascinare mercanzie in piccoli
carretti, pulire i vetri delle macchine. Li si rivede stipati nei
gecekondu le piccole case che sorgono veloci, nello spazio
di una notte, mura di calce e tetto di lamiera.
In pochi anni il 75 per cento della popolazione turca si
trasferita nelle zone urbane, in una profonda rivoluzione
socio-economica. "Sono saltate tradizioni secolari e vecchie
clientele - spiega la sociologa Niluferi Narli - e questa massa
di contadini inurbati, che ha smarrito i suoi riferimenti politici
e culturali, trova ora l'unico momento di identificazione nella
religione". Sono loro dunque il grande serbatoio di voti del
partito islamico, il Refah. Dß loro una risposta al caos delle
cittß, allo shock delle donne in minigonna, al trauma delle
ricchezze ostentate, ai 16 canali televisivi che diffondo un
consumismo sfrenato e alienante. Ma offre anche assistenza
sanitaria, scuole, quei servizi sociali resi precari dall'ondata
migratoria. E cosø sembra vacillare l'equazione di Ataturk
che volle una societß a cultura musulmana retta da leggi
svizzere, inglesi, francesi e italiane.
Che fare dunque? Come uscire dalla crisi? Le voci che si
raccolgono tra gli intellettuali turchi sono confuse in un
alternarsi di cupore e di ottimismo. Il sociologo Emre
Kongar vede "una Turchia come l'Iran", ma sogna anche "un
compromesso storico" da cui esca il tanto atteso "Islam
all'europea". L'economista Murat Sertel guarda alla
geopolitica, alla Turchia vecchio bastione dell'Occidente:
"La nostra sconfitta sarebbe anche la vostra". Molti pensano
che il rigido laicismo filo-occidentale di Ataturk non sia pi·
possibile senza scendere nella guerra civile. "L'identitß
islamica ora una componente fondamentale dell'identitß
nazionale - dice un intellettuale - bisogna dunque
recuperarla: ma se fosse il suo paese lei si fiderebbe?".