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Partito Radicale Roma - 14 maggio 1997
La sindrome algerina contagia la Turchia - La Repubblica, 14 maggio 1997

La sindrome algerina contagia la Turchia

I militari: "Siamo noi il baluardo contro l'Islam"

di PIERO BENETAZZO

ISTANBUL - Il vertice delle forze armate turche si riunito ieri d' urgenza per esaminare la situazione dopo la grande manifestazione islamica di domenica (300 mila persone in

piazza a Istanbul), la prima protesta pubblica contro il

laicismo voluto dal "padre della patria" Kemal Ataturk. Si

discutono le misure da prendere e, almeno per ora, s'insiste

sull'opposizione affinch serri i ranghi e s'accentuano le

pressioni sui dissidenti del partito di Tansu Ciller, affinch

abbandonino il governo a guida islamica. Non chiaro se

tanta pressione possa portare a un risultato positivo. La

situazione infatti sempre pi· difficile: crescono le proteste

contro il diktat del Consiglio per la sicurezza nazionale -

l'organismo di sorveglianza dominato dai militari - che vuole

prolungare di tre anni, portandoli a otto, l'obbligo alla scuola

pubblica e laica. Comporterebbe la chiusura di molte scuole

medie religiose, l'influenza degli imam accosterebbe non pi·

bambini ma ragazzi giß cresciuti. "Trasformeremo la Turchia

in un' altra Algeria", ha minacciato un deputato del premier

Necmettin Erbakan. Cosø, per la prima volta nella storia

della Repubblica, la piazza sfida i militari, l'istituzione pi·

chiusa e rispettata a cui la Costituzione affida la difesa delle

basi laiche dello Stato.

Forse il premier Erbakan - politico consumato, abituato a sopravvivere tra le pieghe del sistema - avrebbe preferito

ritmi pi· lenti, una dialettica pi· moderata, ma gli umori della

base del suo partito sono tesi, molto determinati. "Oh madri

- gridava qualche giorno fa l'oratore a un mare di chador

che riempiva il palazzo dei congressi di Istanbul - voi, a cui

spetta il paradiso, avreste messo al mondo i vostri figli

sapendo che le scuole religiose avrebbero chiuso?". Gli

rispose un rabbioso coro di no, molte donne in piedi

volevano uscire subito per le strade; hanno fatto fatica a

calmarle. Ma all'impazienza della base si contrappone eguale

decisione da parte dei militari, convinti che il tempo sia loro

nemico, che gli spazi per la difesa della laicitß dello Stato si

facciano sempre pi· stretti e sottili. Un rapporto dello Stato

maggiore sostiene che le scuole religiose continuano ad

aumentare e continuano ad aumentare gli studenti con balzi

del 170 per cento. Studiano da imam, ma si concentrano poi

nelle facoltß di scienze politiche, diritto, affollano l'

accademia di polizia. Nella facoltß di pubblica

amministrazione - da cui escono gli alti funzionari dello Stato

e i governatori delle regioni - giß il 50 per cento degli

studenti viene da scuole islamiche. Entrano dunque nei gangli

delle istituzioni, sfornano elettori: se l' attuale trend dovesse

continuare - scrive il rapporto - il partito di Erbakan

otterrebbe, nel 2005, il 67 per cento dei voti, avrebbe in

mano l'intero paese. "Non possiamo assolutamente cedere -

ha dichiarato il generale Kenan Diniz - una questione di

vita o di morte".

Paradossalmente sono stati proprio i militari - con il golpe

del 1980 - a dare via libera all'Islam, visto come un sicuro

antidoto a comunisti e sinistrorsi. Da allora la Turchia si

riempita di moschee (al ritmo di 1500 all'anno) e sono fiorite

le scuole religiose da cui si pu accedere anche all'universitß.

Ma ora l'Islam sfuggito a quel ruolo di sottofondo

silenzioso della vita civile affidatogli dai militari per invadere

da protagonista la scena politica, suscitando interrogativi e

molta inquietudine. In realtß i militari turchi, di educazione

rigorosamente laica, si sono inseriti nel dibattito politico con

molta riluttanza, per riempire il vuoto lasciato da

un'opposizione laica paralizzata, guidata da "capo- clan"

animosi, divisi soprattutto sul piano personale. Incapaci

dunque di formare un governo di unitß nazionale bench

dispongano - sulla carta - del 75 per cento dei voti.

"Con il loro intervento - sostiene il commentatore Ali Birand

- i militari cercano l'unitß dell'opposizione o il disintegrarsi

del partito della "traditrice" Tansu Ciller. Il golpe? Sarebbe

certamente inviso all'America e all' Europa. Ma sono usciti

allo scoperto: qualcosa devono certamente fare, in gioco

la credibilitß delle istituzioni". Ma la strategia dei militari si fa

pi· complicata per il veloce polarizzarsi della societß. Essi

hanno il sostegno incondizionato della societß civile laica,

che guarda con angoscia al riemergere di un simbolismo che

promette scontri e intolleranza: l'improvviso riapparire della

vecchia lingua ottomana; i sindaci islamici che vietano l'alcol;

opera e balletto classico - considerate arte impura - sempre

pi· rari al Teatro Municipale di Istanbul; e Sultanbelj - 20

chilometri dalla cittß - gestita come una specie di "zona

liberata": sparito il ritratto di Ataturk, tutte le donne in

chador, nella panetteria comunale un grande ritratto di

Abdulamid II, l'ultimo sultano dell'impero ottomano.

In questo paese che vaga tra Oriente e Occidente le identitß

sono fragili, le insicurezze sono forti e la classe media laica

ha la sensazione di una minaccia mortale. una classe che si

sviluppata in modo articolato in un'economia fortemente

legata all'Occidente: non si nutrita solo di petrolio e di

parassitismo - come in Iran - ma ha invaso il business, il

mondo produttivo, le professioni. Sono donne la

maggioranza dei medici e degli avvocati, la metß degli agenti

di Borsa e dei direttori di banca. Ma si trova di fronte un

Islam aggressivo, cresciuto nelle bidonville che gonfiano le

cittß, in un processo di inurbamento che ha pochi

precedenti. Istanbul e Ankara crescono di mezzo milione all'

anno e a migliaia ogni giorno scendono dagli altopiani

dell'Anatolia, fuggendo guerra e povertß. Li si incontra per le

strade, febbrili e inquieti, a trascinare mercanzie in piccoli

carretti, pulire i vetri delle macchine. Li si rivede stipati nei

gecekondu le piccole case che sorgono veloci, nello spazio

di una notte, mura di calce e tetto di lamiera.

In pochi anni il 75 per cento della popolazione turca si

trasferita nelle zone urbane, in una profonda rivoluzione

socio-economica. "Sono saltate tradizioni secolari e vecchie

clientele - spiega la sociologa Niluferi Narli - e questa massa

di contadini inurbati, che ha smarrito i suoi riferimenti politici

e culturali, trova ora l'unico momento di identificazione nella

religione". Sono loro dunque il grande serbatoio di voti del

partito islamico, il Refah. Dß loro una risposta al caos delle

cittß, allo shock delle donne in minigonna, al trauma delle

ricchezze ostentate, ai 16 canali televisivi che diffondo un

consumismo sfrenato e alienante. Ma offre anche assistenza

sanitaria, scuole, quei servizi sociali resi precari dall'ondata

migratoria. E cosø sembra vacillare l'equazione di Ataturk

che volle una societß a cultura musulmana retta da leggi

svizzere, inglesi, francesi e italiane.

Che fare dunque? Come uscire dalla crisi? Le voci che si

raccolgono tra gli intellettuali turchi sono confuse in un

alternarsi di cupore e di ottimismo. Il sociologo Emre

Kongar vede "una Turchia come l'Iran", ma sogna anche "un

compromesso storico" da cui esca il tanto atteso "Islam

all'europea". L'economista Murat Sertel guarda alla

geopolitica, alla Turchia vecchio bastione dell'Occidente:

"La nostra sconfitta sarebbe anche la vostra". Molti pensano

che il rigido laicismo filo-occidentale di Ataturk non sia pi·

possibile senza scendere nella guerra civile. "L'identitß

islamica ora una componente fondamentale dell'identitß

nazionale - dice un intellettuale - bisogna dunque

recuperarla: ma se fosse il suo paese lei si fiderebbe?".

 
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