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Partito Radicale Roma - 7 giugno 1997
Una diga che uccide il Danubio

Da "Internazionale" - 6.6.1997 - pag. 43

Il progetto di deviazione delle acque del Danubio mette in pericolo le relazioni

tra Ungheria e Slovacchia. E rischia di uccidere uno dei più grandi fiumi d'Europa

LASZO PERECZ, NEPSZABADSAG, UNGHERIA

Dopo anni di proteste popolari e scontri diplomatici, il contenzioso tra Ungheria e Slovacchia sull'imponente opera di deviazione del Danubio e la costruzione della diga a Gabcikovo è giunto all'esame del Tribunale internazionale dell'Aja. Ma in gioco non c'è solo il futuro di uno dei più grandi progetti idrici del continente. Nepszabadsag, il principale quotidiano ungherese, fa il punto dell'intricata situazione.

BUDAPEST, 15 MARZO 1997

La storia delle dighe idroelettriche di Gabcikovo e di Nagymaros è cominciata esattamente vent'anni fa; il contenzioso dura da quattro. In questo periodo si è visto di tutto: firma di un accordo solenne e feroci proteste; accelerazione, sospensione e blocco dei lavori; annullamento del contratto in Ungheria e deviazione unilaterale del fiume in Slovacchia. Il contenzioso raccoglie una richiesta di cinquemila pagine da parte ungherese e un'analoga controrichiesta da parte slovacca. Nella sola Ungheria, un centinaio di esperti lavora sulla strategia da adottare all'Aja. I problemi sono allo stesso tempo tecnici, economici, politici, ecologici, giuridici e storici. In Slovacchia la questione è diventata una causa nazionale. Non si tratta solo di un grande investimento tecnicoindustriale, ma del simbolo stesso dell'indipendenza e dell'orgoglio nazionale: chi è contro il progetto è contro la nazione slovacca. La spiegazione è storica. La nazione slovacca, in via di formazione, non è ancora solida, perciò l'identi

tà slovacca ha bisogno di elementi di identificazione, non importa che essi siano positivi o negativi. Il passato reale non offre molti punti di riferimento positivi: bisogna quindi creare un passato mitologico e guardare anche al futuro, in direzione delle imprese simboliche che, a partire da una comunità nazionale, creeranno una vera nazione. Quanto agli elementi di identificazione negativi, sono offerti dall'esperienza della coesistenza slovaccoungherese e slovaccoceca. Se la nazione slovacca non è potuta diventare una vera nazione è perché gli ungheresi prima, i cechi poi, glielo hanno impedito. Il dibattito sul progetto delle due dighe riunisce i processi di identificazione positivo e negativo. Costruendo la loro diga gli slovacchi realizzerebbero finalmente la grande impresa nazionale del futuro ma gli ungheresi, ancora una volta, gli mettono i bastoni tra le ruote. Da noi la diga non è una causa nazionale, ma resta comunque una questione importante. per dimostrarlo, basta dare un'occhiata a due liste

di nomi. Una è quella degli autori dell'antologia Duna, Danubio, pubblicata nel 1988 da Duna Kor (Circolo del Danubio), l'organizzazione ecologista promotrice del movimento di protesta contro la diga. Ci sono veramente tutti, da Istvan Csurka (scrittore, oggi presidente di una formazione nazionalista di estrema destra) a Mihaly Kornis (scrittore antinazionalista, liberale e nemico giurato di Csurka), persone che oggi non vorrebbero farsi vedere insieme. Invece di fermare i lavori, il governo di Grosz li aveva accelerati, quindi bisognava protestare. Da un lato c'eravamo noi, gli avversari della Follia; dall'altro c'erano loro, con tutta l'assurda macchina dello Statopartito. L'altra lista è quella delle personalità che hanno fatto sentire loro voce a proposito del Danubio nel gennaio 1997. Quello che per nove anni era sembrato impossibile è accaduto. Tra i firmatari vi sono persone appartenenti ai due schieramenti dell'arco politico e culturale. Il governo di Gyula Horn (socialista, ex comunista), invece di

prepararsi per il processo, vuole cercare un compromesso con gli slovacchi e prevede la costruzione di una nuova diga. Così il fronte anticomunista si è ricostituito e, di nuovo, ci ritroviamo noi da un lato e loro dall'altro.

Monumento allo Stato partito

Qui in Ungheria la questione della diga è diventata perciò quella del "cambiamento di regime". Un'espressione certo non felice ma comoda. Descrive il processo che ci porta da una società monolitica a una società strutturata. La diga diventa un monumento che lo Statopartito ha eretto alla propria gloria e la protesta contro la diga diventa il simbolo della resistenza di una società che si organizza attorno a logiche differenti, in particolare politica, economica ed ecologica. Queste tre logiche sono ben lontane dall'essere compatibili ma in questo caso hanno trovato un nemico comune. La diga è il monumento antieconomico e antiecologico dello Statopartito antidemocratico. Quello che laggiù è il simbolo della nazione, qui è il simbolo del cambiamento di regime. E i simboli hanno un valore che travalicano il loro significato specifico, non si può perciò scendere a compromessi. Questo è uno degli aspetti del conflitto.

L'altro aspetto riguarda la differenza fra il livello di modernizzazione dei due paesi. Dal punto di vista della valutazione delle opportuntà che la modernizzazione rappresenta e solo da questo punto di vista , la Slovacchia è un paese premoderno, l'Ungheria un paese postmoderno. Da loro l'idea del mega investimento che domina la natura è necessariamente una buona idea. Da noi è necessariamente una cattiva idea. Noi abbiamo ormai superato questo genere di cose. Il concetto di modernità esalta il dominio della società sulla natura. Società e natura sono incompatibili, è la società a dominare la natura. Le forze della natura, così come le materie prime e le fonti di energia, sono illimitate: sta a noi saperle utilizzare. C'è un solo e unico obiettivo sociale: la crescita economica. Per arrivarci bisogna impegnare le armi della scienza, della tecnologia e dell'industria contro la natura che oppone resistenza. Il modo migliore per vincere è concepire progetti giganteschi e impiegare sofisticate tecnologie

aggressive. La nostra vittoria, con una società in pieno sviluppo e una natura dominata e vinta, sarà la prova del regno dell'uomo.

Il concetto postmoderno invece esalta l'armonia della natura e della società. Società e nazione non sono incompatibili. La società non può fare a meno della natura: non deve né vincerla né dominarla, bensì vivere in armonia con essa. La natura non è inesauribile, le materie prime e le fonti di energia sono limitate, non possiamo fare come ci pare. La crescita economica non è uno scopo a sé stante, deve essere limitata da alcuni punti di vista ecologici. Scienza, tecnologia e industria non devono essere altrettante armi puntate contro la natura, devono adattarsi all'ecologia. Il fine non è la sola cosa che conta, i mezzi sono altrettanto importanti. Al posto di progetti giganteschi abbiamo bisogno di piccoli progetti; al posto di sofisticate tecnologie aggressive sono necessarie tecnologie cosiddette "alternative". Non c'è né vittoria né sconfitta: c'è solo la coesistenza equilibrata della società e della natura. Ovviamente in Slovacchia non ci sono solo sostenitori della modernità antiecologica, né fanatici

sostenitori di investimenti megalomani. Così come in Ungheria non ci sono solo sostenitori della sensibilità postmoderna o profeti dell'ecofondamentalismo. Si tratta più semplicemente di concetti di fondo. Gli slovacchi pensano soprattutto in termini di economia; noi pensiamo sempre di più in termini di ecologia. Loro contano soprattutto in investimenti ammortizzati e in kilowattora risparmiati; noi in riserve d'acqua da preservare e in specie animali e vegetali da salvare. Per loro le dighe e i ponti in cemento sono altrettanti segni vittoriosi del dominio sulla natura; per noi altrettanti attacchi pericolosi contro la natura. La vicenda quindi, per quanto semplice possa apparire, non è di facile soluzione.

Niente vittoria per ko

Osservando i nostri vicini del nord sembra di vedere il nostro passato: l'era delle riforme di 150 anni fa e gli anni Cinquanta, il periodo la nascita della nazione e quello del dominio sulla natura. Assistiamo a manifestazioni di nazionalismo nel corso del processo di integrazione europea e all'accettazione senza. scrupoli della civiltà tecnica della modernità in un periodo in cui si lanciano moniti su questi stessi progetti. Se i nostri vicini a nord ci vedessero, probabilmente non crederebbero ai loro occhi. L'identificazione del rifiuto della diga con il cambiamento di regime gli sembrerebbe un irrazionalismo cocciuto, un gesto inesplicabile.

Quanto alle interrogazioni ecologiche, le considerano ridicoli piagnistei. La discussione ha preso una strada internazionale, sarà di

competenza del Tribunale dell'Aja. Ma non bisogna farsi troppe illusioni. Il diritto internazionale non è un vero diritto: è la semplice regolamentazione della cooperazione reciproca fra gli Stati. La corte darà il suo parere solo per le questioni su cui si è

chiesto il suo arbitrato. Abbiamo avuto il diritto di annullare unilateralmente l'accordo intergovernativo? I nostri partner avevano il diritto di deviare unilateralmente il fiume? Non ci si deve aspettare nessuna vittoria per ko, caso mai ai punti. E la sentenza ci spingerà di nuovo alla cooperazione: mettetevi d'accordo

sull'ammontare del risarcimento, sulla divisione del flusso dell'acqua e così via. Bisognerà quindi cedere sui nostri simboli e sui nostri sistemi di valori. Non sarà facile. (A.D.R.)

 
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