Ruggiero: servono più leader quarantenni
"Il problema nel nostro paese è la mancanza di una classe dirigente. La globalizzazione porta più lavoro"
da "Il Corriere della sera" - 17 giugno 1997 - pag.2
Una vista spettacolare sul lago, un andirivieni che stride con la pacatezza un po' sonnacchiosa dl ogni ufficio ginevrino. Siamo nella sede dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, il tempio della globalizzazione, e questa è la stanza del suo Gran Sacerdote: Renato Ruggiero, ex ambasciatore, ex ministro dal 1995 "l'italiano più importante del mondo" con la sua carica di direttore generale della Wto. "Vede quegli alberi nel parco?", si compiace Ruggiero, "ognuno di loro è stato donato da un Paese membro. Così con un'occhiata dalla finestra posso misurare l'impegno che mi attende."
Ma basta allungare lo sguardo per ricordare che appena un po' più in là, in Francia, gli elettori hanno detto "no" a Chirac anche perché temevano di dover pagare un prezzo troppo elevato sull'altare della globalizzazione economica. Siamo in un tempio, allora, o in una fortezza assediata dai tormenti delle società e delle classi dirigenti europee?
"No, non mi sento proprio sotto assedio.., risponde Ruggiero. E aggiunge un esempio: »Nei giorni scorsi sono stato in Germania. Ebbene l'accordo con i miei interlocutori è stato pieno, ho avuto conferma che anche i sindacati tedeschi accettano pienamente la realtà della globalizzazione. Il motivo è semplice, e non riguarda soltanto la Germania: la globalizzazione produce posti di lavoro con l'aumento delle esportazioni. Lo dovremmo sapere bene noi in Italia visto che negli ultimi anni abbiamo aumentato il nostro export verso le cosiddette Tigri asiatiche di oltre il 40 per cento, verso l'America Latina del 58 per cento, e così via. Dire che la globalizzazione fa calare i posti di lavoro, o che esercita una pressione sui salari, è semplicemente errato. La globalizzazione è invece un processo virtuoso che crea posti di lavoro tendenzialmente ad alto salario, e che compensa pienamente quella perdita di occupazione propria di ogni normale ciclo di riforme."
Siamo forse in presenza di uno scontro tra globalizzazione e democrazia, tra quella realtà che lei descrive e gli umori sociali di chi poi vota?
Guardi che io non esprimo una opinione. Mi baso su dati economici accettati e riconosciuti come veri da tutti. Il problema è un altro, è che oggi esiste una divaricazione preoccupante tra la crescente globalizzazione dell'economia e la persistente localizzazione della politica. Se in una qualunque circoscrizione elettorale chiude una fabbrica di scarpe per una qualsiasi ragione la colpa viene data alla globalizzazione. Ai politici questo alibi fa comodo, e così si innesca nell'opinione pubblica una reazione a catena. Anche se la fabbrica in questione può aver chiuso per mille altri motivi. Quando invece si creano posti di lavoro per effetto della globalizzazione nessuno ne parla, perché i meriti vengono assunti da altri magari proprio dai politici locali.
Ma di nuovi posti di lavoro non se ne creano poi tanti... Non è così. Bisogna capire che l'occupazione cala, dove cala, per quelle rigidità ben note che ci rendono difficile l'adeguamento alle nuove esigenze. Ma quando ci si avvia sulla strada delle riforme strutturali nel segno della flessibilità e delle privatizzazioni, vedi la Gran Bretagna, vedi 1'Olanda, vedi l'Irlanda vedi ora anche la Spagna, allora i risultati vengono. Credo che anche l'Italia abbia imboccato la via giusta. Ma devo aggiungere che, da noi la non conoscenza delle realtà economiche internazionali è spaventosa: c'è una barriera di ignoranza nei confronti di fatti incontestabili e incontestati, nessuno in Italia mostra di sapere che in Africa, per parlare solo di quella, accanto a punte di enorme disperazione e povertà emergono anche esempi di crescita al dieci per cento come in Uganda.
L'Africa, e naturalmente l'Asia e l'America. Ma esiste anche il »modello europeo , con la sua cultura solidaristica. Non è comprensibile allora che la globalizzazione venga vista come il nemico numero uno? Qui intervengono la responsabilità delle classi dirigenti e quella dei media, che devono saper trasmettere il messaggio giusto. In Italia come altrove si tende a rimanere nella dimensione nazionale, si è poi costretti dall'auspicata Moneta unica ad allungare lo sguardo fino alle frontiere europee, ma lì ci fermiamo.
Nel dibattito dopo le elezioni francesi qualcuno ha visto una rivincita della politica, ma lei descrive piuttosto una sconfitta...
Quale sarebbe la rivincita della politica? Forse la divisione del mondo in blocchi commerciali, il ritorno al nazionalismo? Ricordiamoci che il sistema multilaterale fu creato all'indomani dell'ultima guerra proprio per allontanaci dalle esperienze compiute negli anni Trenta e prima ancora. Attenzione, dunque, la posta della globalizzazione è altamente politica. Siamo in presenza dl una rivoluzione, nel dopoguerra le barriere commerciali erano superiori al 40 per cento, oggi sono intorno al 3 per cento e vanno calando. Abbiamo introdotto nel cicli di liberalizzazione settori che prima ne erano esclusi come l'agricoltura come le automobili, stiamo lavorando molto sulla proprietà intellettuale, e potrei continuare a lungo. Peccato che tutto questo in Italia sia sconosciuto. Lei mi chiede se vedo una sconfitta delle classi dirigenti nazionali. In un certo senso si, nel senso che non sono riuscite a spiegare la realtà alle loro basi elettorali.
La globalizzazione è un fattore di sicurezza, lei dice. Ma gli effetti economici immediati della globalizzazione così come vengono percepiti dalla società, non possono dare spazio al populismo elettorale, agli estremismi, e risultare perciò destabilizzanti?
In termini di sicurezza noi abbiamo una grande sfida davanti a noi. Quella di sapere se il tentativo di creare un sistema commerciale universale basato sulla legge riuscirà, oppure se prevarranno forze contrarie e il mondo tornerà a spaccarsi in blocchi regionali le cui relazioni saranno regolate da rapporti di forza. Si badi, io non sono contrario alle organizzazioni regionali come le varie Nafta Fta, Asean, Mercosur o la stessa Unione Europea. Sono contrario all'assenza delle regole, al prevalere dei rapporti di forza. La posta in gioco è epocale, ed è cruciale proprio per l'aumento della sicurezza internazionale che ci riguarda tutti. Capisco che a livello elettorale il grande disegno possa sfuggire, ma credo che le cose miglioreranno quando avremo la moneta unica. Siamo in una fase di transizione tra due culture, ed è per questo che alle classi dirigenti spetta oggi una responsabilità particolare.
Ma qualcuno dice che la rivoluzione vera, l'unica, è quella informatica, non quella commerciale.
Tutto si pub dire, ma dire , ma disconoscere una realtà che è al centro del grande dibattito economico mondiale mi sembra davvero eccessivo. Si può
certo criticare
la liberalizzazione, domandarsi se sia positiva o meno.
Ma ricordiamoci allora che al
Wto il nostro compito è di
stabilire le regole della liberalizzazione
sulla base del consenso internazionale: siamo dei regolatori, dei sorveglianti, quando serve dei mediatori, ma la liberalizzazione
esiste da sola, non l'abbiamo inventata noi. I nostri membri erano 23, oggi sono 131 e abbiamo 28 Paesi
candidati tra cui Russia, Cina, Ucraina e tanti altri
che fanno di tutto per entrare. Questo è un referendum, vuol dire che il sistema funziona, vuol dire che
qui noi scriviamo le regole economiche del Ventunesimo secolo per governare fenomeni che altrimenti
potrebbero sfuggire di mano.
Dove si colloca l'Italia? Siamo vicini alla marginalizzazione?
Per il semplice fatto di essere il sesto Paese esportatore e importatore al mondo l'Italia è già un protagonista della globalizzazione. Detto questo, la nostra presenza sui mercati spesso non è strutturale, vendiamo e poi ce ne andiamo. Le nostre tecnologie si collocano il più delle volte nella fascia media o bassa, e questo è preoccupante anche perché molti Paesi in via di sviluppo stanno facendo il salto dalle produzioni tradizionali alle tecnologie dell'informazione lasciando in un certo senso le tecnologie intermedie sulle spalle di alcuni Paesi oggi industrializzati. Insomma, ci sono nel sistema produttivo italiano delle correzioni di rotta da apportare se non vogliamo rischiare di trovarci ai margini dell'evoluzione in corso.
E la classe dirigente, per tornare alla politica?
L'Italia ha bisogno di un processo di inserimento di quarantenni nella classe politica. Gente che ha viaggiato, che conosce l'economia, che ha fatto gli studi giusti nei posti giusti, che rappresenta una cultura moderna. Il modello del nuovo governante richiede un alto tasso di sofisticazione intellettuale e culturale. E siccome non si può pretendere che tutti gli italiani vadano a studiare ad Harvard, occorre riformare le nostre università in chiave meritocratica. La competizione vera, quella che deciderà il futuro, comincia sui banchi di scuola. E occorre anche che i media, almeno alcuni, siano capaci di aprire squarci sul mondo, di partecipare all'educazione della società.
La battaglia per la ricerca non l'abbiamo forse già persa?
Io vedo Paesi che partono da condizioni certamente peggiori di quelle italiane e ottengono risultati in un numero ragionevole di anni. Perché non provarci anche da noi? Torniamo al problema della classe dirigente, non di tutta, naturalmente, ma la cultura del nuovo da noi mediamente non c'è. Mi torna in mente una frase di Tony Blair dopo un incontro con Clinton: apparteniamo a una nuova generazione che ha come priorità l'istruzione, la qualificazione professionale la conoscenza delle tecnologie non le vecchie dispute tra economia di Stato ed economia di mercato. Dobbiamo capire che i muri ideologici sono caduti tutti non soltanto a Berlino, che ora sta cadendo anche il muro tra Nord e Sud .
Franco Venturini