POLTRONA DIVERSA, DUCE PER SEMPRE
di Bruno Crimi
(PANORAMA, del 26 giugno 1997)
Milosevic sogna di resuscitare le Jugoslavia. Per patriottismo? No, per conservare il suo potere
Slobodan Milosevic, presidente serbo da dieci anni, ha dato il via alle grandi manovre che dovrebbero permettergli di perpetuare il suo potere. Anzi, di renderlo sempre più assoluto. La partita è difficile, ma l'uomo forte di Belgrado pensa di poterla vincere. Mercoledì 25 giugno scade il mandato di Zoran Lilic, presidente di ciò che resta della Federazione jugoslava, cioè Serbia più Montenegro. Fino ad oggi i poteri del presidente federale sono stati puramente rappresentativi e non politici. Ma ormai da vari mesi Milosevic trasferisce prerogative e attribuzioni dalla Serbia alla presidenza federale: Lilic è il suo uomo di fiducia e "Slobo" non ha nulla da temere da lui. Il suo mandato, fra l'altro, dal 25 giugno sarà affidato per la normale amministrazione al presidente del parlamento, in attesa delle elezioni federali previste per la fine dell'anno.
Qual è il disegno Milosevic? Siccome la costituzione gli impedisce di presentarsi per la terza volta alle elezioni presidenziali serbe, egli intende continuare a dominare la scena politica dell'ex Jugoslavia diventando presidente della Federazione. Alcuni fattori giocano in suo favore. L'opposizione che per tre mesi, tra novembre e gennaio, aveva mobilitato giornalmente decine di migliaia di persone nelle manifestazioni di Belgrado si è dissolta come neve al sole.
Certo Zoran Djindjic, uno dei membri della coalizione Zajedno (Insieme), è diventato sindaco della capitale, ma per ragioni personali ha rotto con l'altro leader del movimento anti Milosevic, il nazionalista Vuk Draskovic. I due non si rivolgono più la parola. La Zajedno, anche dopo la vittoria su Milosevic, era stata comunque incapace di formulare un progetto politico alternativo a quello di "Slobo". I sondaggi di opinione confortano il presidente serbo, la cui base elettorale è soprattutto nelle campagne, indicandolo come l'unico uomo in grado di continuare a condurre i destini della Federazione.
Per il momento i suoi concorrenti sembrano avere poca presa sull'elettorato. Sono l'ultranazionalista Vojislav Seselj, sostenitore della pulizia etnica, e il miliardario serboamericano Milan Panic, titolare della Icn Pharmaceuticals (quotata alla borsa di New York), che alle elezioni presidenziali serbe del '92, presentandosi contro Milosevic, aveva ottenuto il 36 per cento dei voti, anche se la stampa e la televisione di Belgrado lo avevano dipinto come una spia degli Usa.
Per realizzare il suo progetto, Milosevic deve però neutralizzare le opposizioni che vengono soprattutto dal Montenegro. La piccola repubblica, 600 mila abitanti, meno di un decimo della Serbia, manifesta da tempo una forte volontà indipendentista. In via di principio, la costituzione permetterebbe al Montenegro di distaccarsi dalla Federazione e il primo ministro di Podgorica, Milo Djukanovic, è un forte sostenitore di questa ipotesi: se si avverasse, libererebbe il piccolo paese dai lacci imposti dal trattato di Dayton, che vale per la Federazione jugoslava nel suo insieme e quindi anche per il Montenegro. Il più pesante di questi lacci è l'impossibilità di ottenere una linea di credito dal Fondo monetario, o dalla Banca mondiale, fino a quando non verranno consegnati al Tribunale internazionale dell'Aja i criminali di guerra che ancora godono della tacita o esplicita protezione di Milosevic. Nel parlamento federale, il Montenegro ha tanti seggi quanti la Serbia. E Djukanovic intende sbarrare la strada del
la presidenza a Milosevic, che per essere eletto dovrebbe ottenere il voto dei due terzi dell'assemblea. Per questa ragione il presidente serbo cerca di aggirare l'ostacolo manovrando perché l'elezione del nuovo presidente avvenga a suffragio diretto da parte dell'elettorato, e non dei rappresentanti della camera federale. Il presidente montenegrino Momir Bulatovic, amico e alleato di Milosevic, appoggia il progetto del leader di Belgrado in aperto contrasto con il suo premier Djukanovic.
Sulla strada di Milosevic ci sono poi altre insidie. In Serbia si moltiplicano le manifestazioni di lavoratori dell'industria. Ogni giorno qualche corteo attraversa le strade della capitale. Gli scioperanti non chiedono aumenti salariali, ma i loro stipendi arretrati, in ritardo ormai da tre mesi.
La situazione economica è disastrosa. La disoccupazione ha raggiunto il 50 per cento della popolazione attiva e il reddito pro capite continua a diminuire: è attualmente di 1.600 dollari all'anno, meno della metà rispetto all'89. Un'insperata boccata di ossigeno alle casse di Belgrado è venuta nei giorni scorsi dalla privatizzazione della Telecom serba: l'italiana Stet ha acquistato il 29 per cento delle azioni e la greca Ote il 20 per cento.
Molte nubi si addensano però sul regime. Dopo avere incontrato il leader di Belgrado agli inizi di giugno, il segretario di Stato americano Madeleine Albright ha detto di non avere avuto "alcun incoraggiamento da parte di Milosevic, su nessun argomento"; e ha aggiunto che il presidente serbo "è probabilmente il leader più duro" da lei incontrato nel suo lavoro. In una conferenza stampa, poi, il segretario di Stato ha affermato: "Il popolo serbo soffre perché il suo leader non rispetta gli obblighi che ha assunto". Cioè l'arresto e la consegna alla Corte dell'Aja dei criminali di guerra serbobosniaci.