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Partito Radicale Centro Radicale - 4 luglio 1997
NONVIOLENZA O NONAZIONE

Alcune verità gandhiane sul Movimento di pace tibetano

di Jamyang Norbu

in WTN

L'impegno instancabile del Dalai Lama e dei suoi seguaci per sostenere la lotta tibetana come azione totalmente nonviolenta, promossa da un gruppo composto di soli individui la cui natura spirituale (che preferirebbero rinunciare al proprio paese piuttosto che commettere un qualsiasi atto di violenza), ha sfortunatamente causato delle perdite, la prima delle quali è stata la verità. La pia missione, la cui necessità discutibile, di mettere a fuoco la storia e gli avvenimenti contemporanei del Tibet mediante la rosea lente dell'ideologia pacifista ufficiale ignora il sacrificio e il coraggio di molte migliaia di combattenti tibetani per la libertà, compresi i monaci e i lama, che imbracciarono le armi per la libertà del proprio paese.

In altri articoli ho già esposto in modo dettagliato le mie opinioni in proposito e forse non è necessario affrontare questo tema di nuovo. Desidero toccare l'argomento in questa sede, principalmente per portare l'attenzione dei lettori su alcune osservazioni relative a "verità" e a "nonviolenza" attribuite ad un uomo altamente qualificato ad esprimere la propria opinione in materia.

Il Mahatma Gandhi riteneva che l'amore per la verità fosse una qualità umana più importante della nonviolenza. Definiva i propri metodi Satyagraha, ovvero "fermezza nella verità", e comprendeva come termini quali "pacifismo" o "nonviolenza" non riuscissero a trasmettere completamente lo spirito essenziale della propria filosofia dell'azione. Le idee di Gandhi relative all'ahimsa o nonviolenza non erano semplicistiche. Riconosceva che il fatto stesso di vivere rendesse necessario l'himsa, ovvero la distruzione della vita, per quanto in misura molto ridotta. Partecipo' come barelliere alla Guerra Boera, alla Ribellione degli Zulù e alla Grande Guerra e in seguito spiego' il proprio operato: "Mi era estremamente chiaro che partecipare ad una guerra non era coerente con l'ahimsa. Ma all'individuo non è sempre concesso di vedere con chiarezza cio' che è necessario fare. Spesso i sostenitori della verità sono costretti a vagare nell'oscurità". Non cerco' di giustificare il ruolo che personalmente aveva svolto in q

ueste guerre, ma solo perché era un ruolo limitato.

"Dal punto di vista dell'ahimsa, non vi è alcuna distinzione fra combattenti e non combattenti", sosteneva Gandhi. "Chi si limita a curare i feriti in combattimento non puo' essere assolto dalla colpa della guerra. La questione è sottile. Ammette le differenze di opinione e per questo motivo ho proposto la mia teoria nel modo più chiaro possibile a chi crede nell'ahimsa e che s'impegna al massimo per praticarla nel cammino della vita".

All'inizio della Seconda guerra mondiale Gandhi sostenne una risoluzione per il reclutamento degli Indiani in guerra. S'impegno' anche personalmente nel reclutamento di soldati, provocando il disappunto di molti. "Sei un sostenitore dell'ahimsa", dissero alcuni dei suoi seguaci, "come puoi chiederci di imbracciare le armi?" La risposta di Gandhi indica che egli a volte considerava prioritaria la responsabilità sociale di un individuo e il suo dovere nei riguardi del proprio paese rispetto persino ad una forte convinzione morale come la nonviolenza. Diceva: "Riconosco che dobbiamo e abbiamo deciso di sostenere l'Impero nell'ora del pericolo in modo incondizionato ed evidente, e ci auguriamo di diventare il suo partner nell'immediato futuro come gli altri Domini esteri... Farei in modo che l'India offrisse tutti i suoi figli più forti in sacrificio all'Impero in questo momento di difficoltà, e so che in questo modo l'India diverrebbe il partner favorito dell'Impero e che le discriminazioni razziali sarebbero u

na cosa del passato".

Uno degli argomenti sostenuti da Gandhi durante il reclutamento degli Indiani nell'esercito non fu particolarmente ben accolto dagli Inglesi. "Fra i molti misfatti del dominio britannico sull'India", dichiaro' Gandhi, "privare un'intera nazione delle armi passerà alla storia come il più terribile. Se vogliamo l'abrogazione dell'Arms Act, se vogliamo imparare ad usare le armi, questa è un'incredibile opportunità". Quando gli incursori pakistani invasero il Kashmir iniziando l'avvicinamento a Srinagar, in seguito all'annessione del Kashmir all'India avvenuta il 26 ottobre del 1947, gli esponenti di punta del Kashmir, compreso il maragià e lo sceicco Abdullah, lanciarono degli appelli al Primo Ministro Nehru, che mostro' una certa esitazione. Infine, in seguito all'insistenza di Patel, Nehru ordino' ai militari di procedere. Patel requisi' via radio gli aerei disponibili in India ed inizio' le operazioni aeree. Un Gandhi finalmente sollevato disse a Patel: "Quando ho sentito parlare dell'invasione del Pakistan,

ero molto abbattuto e angosciato. Ma quando è iniziata l'operazione Kashmir, mi sono sentito molto orgoglioso di loro e per ogni aereo carico di materiali e armi, di munizioni e di equipaggiamento per l'esercito, mi sento orgoglioso".

Gandhi chiari' la propria posizione dicendo, "Ogni ingiustizia e violazione commesse ai danni della nostra terra dovrebbero essere difese con la violenza, laddove la nonviolenza non sia possibile... Se la difesa è possibile mediante la nonviolenza, ben venga, poiché questo è cio' che più mi piacerebbe. Se dipendesse da me, non toccherei nessun'arma, pistola o altro. Ma non vorrei mai vedere l'India cadere in uno stato di impotenza". (Sardar Vallabhbhai Patel; India's Iron Man, B. Krishna, Harper Collins India, 1996.)

Ma nonostante qualsiasi eccezione che Gandhi possa aver considerato accettabile da parte di nazioni ed individui in materia di autodifesa, egli era certamente un fermo sostenitore dell'ahisma. Mori' a causa di un proiettile sparato dal suo assassino, perché considerava l'avere una guardia del corpo come un atto di condiscendenza alla violenza per difesa personale.

Sono dell'opinione che sebbene Gandhi fosse un convinto sostenitore dell'ideologia non violenta, egli non si lascio' accecare da questa al punto di non comprendere la realtà o di propagare tale ideologia in modo disonesto. Non esito' a sostenere che il ricorso alla violenza non poteva essere del tutto evitato nel corso della storia dell'uomo. Che si ammiri Gandhi per la sua nonviolenza, per la sua spiritualità o per il suo amore per la verità e il coraggio (le due ultime qualità sono quelle che trovo più affascinanti in quest'uomo), credo non ci sia dubbio che i tibetani e i loro alleati abbiano molto da imparare dalla sua vita e missione per la nostra lotta. Nella società esiliata tibetana i leader e i politici lodano Gandhi in modo a volte quasi rituale e monotono, ma non si investono che poche energie nello studio delle sue opere, e questo è un vero peccato. Sebbene sia possibile dissentire su alcune idee di Gandhi (personalmente ho qualche difficoltà con le sue opinioni in fatto di celibato e dell'essere

vegetariani), la chiarezza e l'onestà del suo pensiero risplendono in tutti i suoi libri ed articoli.

Le opinioni dei tibetani sulla nonviolenza appaiono confuse ed ingenue al confronto, e in alcuni casi sembrano trarre origine dalle dottrine magiche proprie del pensiero tibetano tradizionale. Il portavoce della Tibetan People's Assembly (Assemblea del popolo tibetano) Samdhong Rimpoche, ad esempio, che ha elaborato una personale versione della dottrina Satyagraha di Gandhi, da lui maldestramente tradotta come "Truth Insistence" ("Insistenza della verità"), ha dichiarato una volta, in modo alquanto fantasioso, che se il 50% dei tibetani fosse in grado di comprendere la dottrina della "Truth Insistence", i cinesi sarebbero obbligati a lasciare il Tibet in meno di tre mesi. Il Dalai Lama non fa affermazioni altrettanto stravaganti per confermare l'efficacia della propria dottrina "Middle Way" ("Via intermedia"). Le due concezioni, tuttavia, sono radicate nel pensiero metafisico tradizionale e rivelano chiaramente una non perfetta comprensione della politica degli stati nazionali e delle realtà darwiniste del m

ondo contemporaneo. Gandhi, grazie alla formazione giuridica a Londra, alla successiva pratica e all'attivismo in Sud Africa, alla lettura dei pensatori Occidentali contemporanei, sembra comprendere più a fondo le realtà del proprio tempo. Fu percio' in grado di sviluppare una strategia della nonviolenza che, nonostante i limiti individuati da alcuni intellettuali indiani contemporanei, raggiunse lo scopo principale, ovvero liberare l'India dal dominio britannico. Per quanto Gandhi considerasse se stesso come un prodotto della propria antica cultura, le cui tracce esteriori erano il perizoma, il bastone di bambù e le calzature di legno, il suo pensiero politico e sociale era ispirato in gran parte al liberalismo europeo del 19. secolo piuttosto che a dottrine indigene o tradizionali. La sua fede nella nonviolenza non è tipicamente induista in alcun modo. Per sua stessa ammissione il pacifismo di Gandhi si ispiro' principalmente al Discorso della montagna e a Tolstoy. La sua difesa dei diritti delle donne e l

a sua avversione alla divisione in caste derivava certamente dal pensiero Occidentale contemporaneo. Anche il suo primo approfondimento del Buddismo sembra ispirato dalla lettura di Light of Asia di Edwin Arnold.

In Sud Africa Gandhi si servi' di metodi di agitazione politica tipicamente britannici: scrisse lettere ai quotidiani, promosse la presentazione di petizioni, fondo' un'organizzazione politica a carattere associativo, tenne i conti in modo accurato, creo' una piccola biblioteca e organizzo' incontri regolari per conferenze, dibattiti e per incoraggiare decisioni di gruppo. Scrisse inoltre due pamphlet. Gandhi fu profondamente colpito da tre pensatori del suo tempo. Le idee sulla disobbedienza civile e sulla noncooperazione si ispirano a Thoreau. Le sue convinzioni pacifiste fanno riferimento, come già accennato in precedenza, a Tolstoy, in particolare al libro Il Regno di Dio è dentro di voi (The Kingdom of God is Within You). La dottrina sociale di Gandhi si ispira a Fino all'ultimo (Unto This Last) di Ruskin, la cui influenza su di lui fu notevolissima. Lo lesse in treno tutto di un fiato e senza dormire la notte durante un viaggio da Johannesburg a Durban, quindi decise che avrebbe modificato la propria v

ita di conseguenza.

"Di questi libri, quello che provoco' una trasformazione immediata e concreta nella mia vita è stato Fino all'ultimo. In seguito lo tradussi in Gujurati intitolandolo Sarvodaya (Il benessere di tutti)".

Nel corso della storia dell'uomo, altri "sostenitori della verità" sono stati costretti, come Gandhi, a "brancolare nel buio" in una fase della propria vita, quando hanno tentato di conciliare gli obblighi nei confronti della nazione e del popolo con l'amore e la pace. Non tutti i grandi leader hanno fatto le stesse scelte di Gandhi, eppure non li consideriamo di statura morale meno elevata di quella del Mahatma. Abramo Lincoln è cio' che la democrazia americana ha di più simile ad un santo. Il fatto che abbia combattuto la battaglia per la conquista della democrazia, per l'integrità della nazione e per la fine della schiavitù non cancella tanto facilmente il pesante prezzo pagato dal popolo americano per il rifiuto da parte di Lincoln di accettare una nazione confederata separata. Occorre tenere presente che Lincoln non fu spinto al combattimento da generali e uomini politici aggressivi. Durante i primi anni di guerra, infatti, Lincoln ebbe notevoli difficoltà nel tentativo di far scendere in campo i troppo

prudenti generali dell'esercito unionista contro l'esercito confederato.

In un'ottica pacifista Giovanna d'Arco sarebbe senza dubbio considerata una donna violenta. Prima della sua entrata in scena, il conflitto fra francesi e inglesi procedeva "ad intensità ridotta", a causa della mancanza di unità e della perdita di senso morale dell'esercito francese. Sotto la guida e grazie all'ispirazione di Giovanna d'Arco la violenza si fece particolarmente intensa, ma si riusci' ad ottenere la libertà della Francia dal dominio inglese.

La pace è certamente preferibile alla guerra e la nonviolenza è preferibile alla violenza. Solo individui limitati da un punto di vista intellettuale o morale potrebbero mettere in discussione la giustezza, o perfino l'onestà, di questa proposizione. Ma popoli e nazioni si confrontano a volte con problemi in cui l'azione violenta sembra essere non soltanto l'unica soluzione possibile, ma anche la più eroica e saggia. La pace illusoria che Chamberlain e Daladier barattarono con Hitler a Monaco valeva il prezzo pagato, ovvero il tradimento della Cecoslovacchia?

D'altra parte l'impegno di Roosevelt per spingere una riluttante America nella Seconda guerra mondiale rappresento' le macchinazioni di un guerrafondaio, come avrebbe potuto insinuare il ministero per la propaganda nazista, o fu un atto che forse salvo' l'umanità dalla dominazione nazista? Se osserviamo non lontano da noi, si potrebbe definire uno sbaglio la ribellione armata della gente di Lhasa per proteggere la vita del Dalai Lama, o la scelta di farsi scortare dalle armi degli uomini della resistenza per fuggire da Lhasa. Ci si chiede cosa sarebbe accaduto se fosse rimasto: probabilmente sarebbe stato ucciso in combattimento, imprigionato, torturato ed umiliato pubblicamente come il Panchen Lama. Secondo suo fratello Tendzin Choegyal, se il Dalai Lama fosse rimasto in Tibet "... (i cinesi) avrebbero abusato della Sua Santità come fecero i giapponesi con il povero Pu Yi (l'ultimo imperatore Manciù). Ecco cosa sarebbe diventato, un altro Pu Yi" (Kundun, Mary Craig, Harper Collins, 1997).

Quindi il Dalai Lama deve in qualche modo la propria libertà, l'attuale fama a livello internazionale e forse anche il Premio Nobel per la pace, a uomini violenti che l'hanno protetto non solo dal pericolo di morte, ma anche da una situazione compromettente dal punto di vista politico e morale. Lo hanno inoltre liberato da un rapporto senza prospettive e malsano con il Partito comunista cinese. Il mio articolo non cerca di giustificare il fatto che periodicamente i tibetani facciano ricorso alle armi, quanto piuttosto di far comprendere ai nostri leader ed amici che la complessità della storia dell'uomo richiede un approccio più eclettico ed energico alla questione tibetana rispetto all'attuale inerzia pacifista.

Qualora si stabilisca di adottare una strategia della nonviolenza, questa decisione deve essere maturata attraverso lo studio, la discussione e l'analisi delle realtà, non solo come una questione di fede religiosa o un fatto accettato con entusiasmo dalle celebrità e dai leader mondiali per i quali la pace, il commercio con la Cina e il mantenimento dello status quo sono prioritari rispetto alla libertà del Tibet.

Ma torniamo a Gandhi. In ultima analisi il tipo di nonviolenza del Mahatma è di una efficacia molto superiore alla nostra, perché la sua dottrina predicava il sacrificio, il coraggio e soprattutto l'azione: caratteristiche decisamente assenti nel movimento nonviolento tibetano, se non si considera il coraggio eroico di alcuni isolati attivisti all'interno del Tibet.

L'attivismo nonviolento, invece, è divenuto per i membri e i leader del movimento in esilio soltanto sinonimo di conferenze, carriere e convenienza: il più rilevante esempio in questo senso è rappresentato dalla rinuncia alla meta principale dell'indipendenza per salvare "la cultura buddista in Tibet", un eufemismo per definire il potere della teocrazia. Occorre ricordare che Gandhi è stato soprattutto un esempio per tutti.

La genuina semplicità dello stile di vita del Mahatma, la sua prontezza nell'affrontare i manganelli della polizia e perfino la morte per sostenere le proprie convinzioni rappresentarono per i suoi seguaci un'ispirazione senza dubbio più forte delle parole e delle dottrine. Ad essere franchi, nei gruppi dei nostri leader non esistono un tale coraggio e una simile integrità. Ma il movimento tibetano Satyagraha sembra aver scoperto un'alternativa. In un documento in mio possesso, che sembra essere un manifesto del movimento, Samdhong Rimpoche dichiara di essere in grado di istillare nei suoi seguaci qualità necessarie come il coraggio, la tolleranza, la pazienza e la compassione mediante il metodo, incredibilmente vago seppur solenne, della "comprensione filosofica".

La mia conoscenza dei fatti di Dharamsala, fa supporre che ci attendono una serie di conferenze, seminari e corsi dal contenuto confuso e "rassicurante" (con cartelle bordate di seta e costose riviste a colori donate in ricordo a tutti i delegati), forse tutti sotto l'egida di qualche fondazione straniera di buone intenzioni, che metterà a disposizione entusiasmo e fondi piuttosto che dimostrare una comprensione dei veri pericoli spaventosi che assalgono la società tibetana.

In Tibet esistono persone coraggiose che sfidano il potere cinese con coraggio degno di Gandhi. Il problema è se qualcuno di questi arditi attivisti sia nonviolento nel vero senso della parola.

Ho conversato a Dharamsala con numerosi nuovi arrivati e ho avuto l'impressione precisa che quasi tutti i dimostranti e gli attivisti del Tibet abbiano adottato metodi non violenti (entro certi limiti, poiché hanno lanciato pietre e bruciato una stazione di polizia) perché la loro posizione non rendeva possibile un'azione di tipo diverso. Qualora un'insurrezione violenta contro i cinesi fosse stata possibile, non avrebbero esitato a compierla.

Orville Schell, che ha intervistato segretamente una serie di attivisti all'interno del Tibet per realizzare il film Red Flag Over Tibet (Bandiera rossa sul Tibet) della Frontline, mi ha confidato che un importante lama tibetano da lui intervistato sosteneva la violenza come unica possibile arma contro i cinesi. E' cio' che sta iniziando a verificarsi, sebbene in misura ridotta. A giudicare dalle diverse bombe fatte saltare in Tibet negli ultimi anni, sembrerebbe che qualche tibetano testardo non apprezzi particolarmente la nostra dottrina ufficiale della nonviolenza. Se Gandhi fosse ancora vivo, è probabile che condannerebbe chi piazza le bombe ed applaudirebbe il movimento di pace degli esiliati. Ma di questo non sono sicuro.

Nel numero di Young India dell'11 agosto 1920 scrisse: "Credo fermamente che l'unica scelta suggeribile fra codardia e violenza sia la violenza. Preferirei vedere l'India riprendere le armi piuttosto che diventare una testimone impotente del suo stesso disonore".

(Traduzione di Paolo Pietrosanti/Partito Radicale)

 
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