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Orofino Veronica - 19 gennaio 1998
AMERICA PRAGMATICA
A.Hamilton /G.Clinton

Lettere sulla Costituzione federale, Guida,pp 128

Il presidente americano Teddy Roosevelt, personaggio sanguigno, energico e risoluto, una volta disse che secondo lui "l'orso grizzly è il più vero simbolo degli americani. Ha forza, intelligenza, aggressività. Forse è un pò cieco e avventato; ma è coraggioso, in tutte le circostanze. E ha un'altra cosa in comune con gli americani: lo star solo. L'orso passa tutta la vita da solo. E' indomabile, invicibile. Sempre da solo. Non ha alleati, solo nemici, ma nessuno della sua mole. E questo lo fa somigliare agli americani: il mondo non ci amerà mai. Ci rispetteranno. Forse avranno paura di noi. Ma non ci ameranno. Perchè noi siamo un popolo troppo audace, e un pò cieco, e avventato. Come l'orso. L'orso grizzly dovrebbe essere lui il simbolo dell'America, e non quella ridicola aquila, che poi è solo un avvoltoio ripulito".

Gli americani. In un suo bel film, TUTTA UNA VITA, Claude Lelouch fa dire a uno dei protagonisti, David Golman: "Cos'è un americano? E' un ebreo cacciato dalla Russia; è un protestante irlaandese cacciato dai cattolici; è un gangster siciliano sfuggito ai poliziotti; un regista tedesco espulso dai nazisti. Non c'è niente di più bello di un paese pieno di esclusi, di perseguitati, di belve braccate. Il capitalismo è l'invenzione di queste belve braccate. Per trasformare questa jungla in patria non potevano inventare altro che un sistema di avventurieri".

HAW THE WEST WAS WON, la saga cinematografica di John Ford, si chiude con quello che si può chiamare un vero e proprio canto epico:

" Il West conquistato dai pionieri, dai coloni e dagli avventurieri non è più lo stesso, oggi. Ma apparterrà sempre a loro. Perchè il solco da loro tracciato non sarà mai cancellato da vento o pioggia, nè ricoperto dall'aratro nè sepolto dall'insieme degli eventi. La rude semplicità della loro vita, la vitalitàe la speranza, la loro tristezza alimentarono le leggende di coraggio e saranno l'orgoglio dei loro figli e dei figli dei loro figli. Dalla terra mobilitata dal loro sangue, dall'ansia di esplorare e costruire sorsero laghi dove deserti infuocati. Germogliarono i frutti della terra, miniere e campi di grano, frutteti e immense segherie e le forze più valide di una giovane nazione. Dai loro razzi agglomerati. dai loro posti di scambio, nacquero città tra le più grandiose del mondo, e l'eredità grande e completa di un popolo libero di sognare, di agire, di plasmare il proprio destino".

Tre definizioni di America e di americani certo gonfie di retorica, ma che comunque contengono delle verità. Tre citazioni che servono in qualche modo per introdurre il discorso su LETTERE SULLA COSTITUZIONE FEDERALE (Guida editore, pagg. 199, L 18.000 traduzione di Marina Lops); un libretto curato da Paolo Varvaro che raccoglie uno scambio epistolare tra Alexander Hamilton, per anni segretario personale di George Washington e uno dei primi presidenti degli Stati Uniti, e George Clinton, che fu vice presidente per due mandati.

Agli Stati Uniti l'Europa ha più di un motivo per essere grata. Per due volte in questo secolo giovani americani hanno lasciato le loro terre, e sono venuti a combattere e a morire per la nostra libertà. Se non avessero lottato e combattuto, da soli gli europei mai sarebbero riusciti a vincere il nazismo e il fascismo; si deve essere grati agli Stati Uniti perchè - certo, con innumerevoli contraddizioni e gravi interferenze - ci hanno protetto dall'espansionismo comunista -sovietico; e non bisognerebbe mai dimenticare che nessuno dei prezzi che lEuropa occidentale ha dovuto pagare per la sua libertà, è comparabile con quello che hanno pagato Romania e Bulgaria, Polonia e Cecoslovacchia, Albania e Jogoslavia. Per non dire delle stesse repubbliche sovietiche. Il male che ci ha fatto Stalin da troppi è dimenticato; volutamente dimenticato. Ma agli Stati Uniti si deve essere grati anche per altro. Per esempio, per il modello politico istituzionale: una repubblica presidenziale e un regime federale; un modello

di costituzione flessibile e pragmatico. Da quel 4 luglio 1776, quando venne proclamata la dichiarazione d'indipendenza, gli Stati Uniti non hanno mquit

patito un solo giorno di dittatura; hanno saputo trovare gli anticorpi necessari per rigettare e annullare le tentazioni autoritarie; sono stati e sono ancora la "terra promessa" per tutti coloro che cercano un'opportunità.

Ha scritto Alexis de Tocquville (LA DEMOCRAZIA IN AMERICA, due volumi; Cappelli editore): "Che un popolo combatta con energia per conquistarsi l'indipendenza, è spettacolo che tutti i secoli ci possono offrire.

Ma ciò che davvero fu nuovo nella storia, fu di vedere un grande popolo, avvertito dai suoi legislatori che gli ingranaggi del governo andavano arrestandosi, rivolgere senza paura gli sguardi su se stesso, misurare la profondità del male, raccogliersi per due anni interi al solo scopo di scoprirne con calma il rimedio e, trovatolo, sottomettervisi volontariamente senza spargere né sangue, né lacrime". E' dunque opportuna, la notazione di Paolo Varvaro: "La specificità dell'esito rivoluzionario americano è individuata principalmente nella capacità di risolvere i conflitti su un piano diverso rispetto alla tradizione violenta delle rivoluzioni europee. Ma Tocqueville è colpito soprattutto dalla percezione di un popolo nuovo; nella partecipazione degli americani alla scelta del governo riconosce i primi segnali di un originale approdo democratico..." (pagg.6-7

Leggendo il carteggio tra Clinton e Hamilton, personaggi tra loro diversi e anche in opposizione, si avrà la conferma di quella che è una grande qualità degli americani: il loro pensiero politico non è mai ancorato o affidato alla retorica dei "Grandi Principi". Piuttosto ruota sulla più "banale" necessità di cercare e fornire soluzioni "qui e ora" a questioni di natura pratica. Un pragmatismo che non ottunde, ma anzi allarga l'orizzonte politico degli americani: "E il primato accordato a obiettivi concreti spostava anche l'attenzione su questioni che non attenevano strettamente a problemi di ordine giuridico. Così sarà il mito della frontiera a favorire il superamento della concorrenza tra gli Stati dell'Unione, per concedere agli organi confederali la possibilità di sostenere l'espansione territoriale della nazione" (pag.9).

La polemica tra Hamilton e Clinton raggiunge vette anche aspre, dure. Si veda, per esempio, il dibattito in occasione dell'approvazione federale nello stato di New York (di questo trattano le LETTERE SULLA COSTITUZIONE FEDERALE); e tuttavia, al di là della disputa, è ravvisabile un nucleo di valori condivisi e in comune; un QUID che risulterà fondante del pensiero politico americano. Peccato davvero che simili tematiche abbiano avuto in Europa e in Italia scarsa fortuna. Dovessi fare dei nomi, potrei solo citare quelli di un Altiero Spinelli, di un Ernesto Rossi, di Aldo Garosci, Luciano Bolis, Vittorio De Capraris; l'infaticabile impegno di Nicola Matteucci e Mario Albertini, curatori di volumi importanti(IL FEDERALISTA, ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI POLITICI DI ALEXANDER HAMILTON, IL PENSIERO POLITICO DEGLI AUTORI DEL FEDERALISTA; tanto per citare alcuni titoli), ormai introvabili se non nei banchi delle librerie antiquarie.

E' una strana maledizione. In giorni come questi, in cui tanti parlano tanto di federalismo , pochissimi ne conoscono i fondamenti; e, in definitiva, sanno di che cosa parlano. La lettura di questo piccolo libro può colmare alcune vistose lacune. Anche se, temo, verrà letto da chi non ne ha bisogno; e ignorato da chi invece potrebbe, come molti dei nostri politici, ricavarne qualche utile insegnamento.

Valter Vecellio

 
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