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Partito Radicale Roma - 20 gennaio 1998
CORRIERE DELLA SERA
Lunedì 19 Gennaio 1998

L'Asia in crisi/I guai finanziari del Far East ora minacciano anche Pechino. Che potrebbe reagire decidendo di svalutare

SE DALLA CINA ARRIVA LA GRANDE ONDA

Una riduzione del renminbi potrebbe innescare in Oriente la recessione. Punto di partenza di una deflazione su scala mondiale

L'"espresso dei maiali" arriva due volte al giorno alla stazione di Hong Kong e, lungo la ferrovia che scende da Canton, spande una scia che dà l'idea intensa della relazione tra la ex colonia e la madre patria. Hong Kong si mangia 7 mila suini al giorno e il 90 per cento li va a prendere in Cina: senza quelli non si sfamerebbe. La dipendenza è totale. E quello che vale per i maiali vale per il resto dell'economia: è la Cina la chiave del presente, e soprattutto del futuro. Per Hong Kong, ma anche per il resto dall'Asia orientale. La crisi finanziaria che ha messo in ginocchio la Corea, la Thailandia l'Indonesia, la Malaysia sta disegnando un nuovo ordine economico nella regione. Se colpirà il colosso cinese ed il suo sobborgo Hong Kong, come è probabile, metterà sotto sopra l'ordine economico del mondo. Sul banchetto dell'Occidente avrebbe lo stesso effetto di togliere il maiale dalle tavole di Hong Kong ora che sono stati uccisi tutti i polli per via dell'influenza. I politici e gli economisti finora hanno

mentito e sbagliato molto sull'interpretazione del disastro finanziario in corso in Asia. E stanno facendo lo stesso di fronte a un fatto certo: che la crisi arriverà in Cina e non sarà gradevole. Vista da Hong Kong, cioè dal cuore finanziario della regione, la domanda chiave per prevedere il prossimo capitolo del domino asiatico è chiara a tutti: le autorità di Pechino decideranno di svalutare il renminbi? La risposta alla domanda è essenziale, oltre che per la Repubblica Popolare, anche per Hong Kong, l'Asia e l'intero Occidente. Shen Guofang, il portavoce del ministero degli Esteri a Pechino, dice che "il governo prenderà misure per assicurare la stabilità del mercato, ma la moneta non sarà svalutata". Vista la situazione che si è creata in Asia, però, si tratta di parole che nessuno prende per oro colato. Le svalutazioni che si susseguono nella regione sono un problema serio per Pechino: il 60 per cento delle esportazioni cinesi è verso l'Asia e ora si prospetta un loro crollo; in più, molti investiment

i esteri non avranno più ragione di andare verso la Cina dal momento che i costi sono crollati in Paesi meno faticosi da coltivare. Lo scenario che si prospetta è insomma quello di una contrazione dell'export cinese, in un momento in cui la domanda interna va male e probabilmente andrà ancora peggio via via che il governo riformerà le 360 mila imprese di stato e le disastrate banche. Il fatto è che le esportazioni sono la linfa vitale dell'economia cinese: i primi calcoli indicano che l'anno scorso sono state il 21 per cento del Prodotto interno lordo e che il surplus commerciale ha toccato i 40 miliardi di dollari. Il presidente Jiang Zemin e lo zar dell'economia Zhu Rongji non permetteranno mai che il meccanismo si fermi in questo momento, mentre la Cina si sta affacciando alla scena del mondo come potenza economica e mentre all'interno si vedono segni preoccupanti di deflazione e di rallentamento dell'economia. In gioco è la stessa stabilità politica del Paese. Le previsioni ufficiali di crescita della Ci

na per il 1998 sono dell' 8,8 per cento, in calo, ma poco, rispetto agli anni scorsi. Gran parte degli economisti, però, ritiene che in realtà anche l'8 per cento sia una previsione ottimistica.

"Lo scenario più favorevole è una crescita del 7 per cento, dice Qu Hongbin, della banca Dresdner Kleinwort Benson. E in questo caso non ci saranno gravi ripercussioni e rivolte sociali. Ma se il 7 per cento si rivela troppo ottimistico, allora i licenziamenti diventeranno un fenomeno di massa, con consegue sociali notevoli". Nicholas Kwan, economista di Merrill Lynch, la pensa allo stesso modo: "Se in questi due primi trimestri la crescita scende dal 6 per cento, ci sono buone probabilità che la Cina si ricongiunga alle tendenze in atto nel resto dell'Asia: sarebbe un disastro". Pechino non può davvero permettersi di rallentare troppo. Il tasso di disoccupazione ufficiale è del 3 per cento, ma in realtà i senza lavoro sono probabilmente 150 milioni su 850: la riforma delle imprese statali potrebbe aggiungerne altri 50 milioni. Inoltre, tre delle quattro grandi banche commerciali pubbliche sono tecnicamente insolventi e, in genere i crediti incagliati del sistema bancario sono superiori al 20 per cento del P

il. Zhu Rongji vuole trasformare tutto in "banche vere" in tre anni. Significa che non potranno più finanziare a pioggia i progetti decisi da leader grandi e piccoli del Partito comunista: cosa buona che a breve, però, rallenterà ulteriormente l'economia. Infine, gli investimenti diretti dall'estero, impressionanti negli ultimi quattro anni, stanno rallentando: nei primi dieci mesi del '97, gli impegni di investimento sono crollati del 35 per cento. Per di più, il 70 per cento degli investimenti in Cina è arrivato finora da Paesi asiatici che adesso a tutto possono pensare meno che a espandersi in quello che dovrebbe essere il più grande mercato del mondo. E anche molte imprese occidentali stanno rallentando i loro impegni in Cina: la Siemes, che i sette anni ha investito 650 milioni di dollari, pare ad esempio che stia rivedendo pesantemente tempi e portata dell'avventura cinese. I dirigenti di Pechino sono dunque di fronte all'alternativa di lasciare il campo alla deflazione e quindi a una riduzione drast

ica della crescita oppure

di affidare tutto alle esportazioni, che in questo momento significherebbe svalutare il renminbi.

Nei magazzini Crc di Hong Kong, per esempio, un bollitore di riso malaysiano costava il doppio di uno cinese, fino a pochi mesi fa: ora costano quasi uguale. E questo vale per i tessili, le scarpe, i giocattoli, gli articoli sportivi. Guardato con occhi occidentali dunque, il prossimo sviluppo della crisi asiatica sarà probabilmente in Cina: forse già nella seconda metà del '98. O il gigante congelerà la sua crescita straordinaria, quindi metterà sulla strada altri milioni di lavoratori, diventerà una bomba a orologeria e un peso per il resto dell'Asia e del mondo invece che la grande occasione promessa. Oppure sceglierà la via più faciie, la tentazione più grossa, la svalutazione. Che è probabilmente la strada più disastrosa per l'economia globale. Svalutare il renminbi vorrebbe dire aprire la guerra commerciale in Asia per chi produce più

a buon mercato. Costringerebbe gli altri Paesi a tenere sottovalutate le loro monete e Hong Kong a svalutare la sua. Metterebbe probabilmente in crisi anche l'economia di Taiwan che, a sua volta, su molte merci è un concorrente del Giappone: anche lo yen, dunque, potrebbe svalutarsi ulteriormente. Si può immaginare con quale felicità degli americani che oltre al deficit commerciale storico con i giapponesi devono già fare i conti con quello nuovo, ma ormai più alto, che hanno con la Cina (5 miliardi di dollari al mese). A questo punto, lo scenario della deflazione globale, cioè di una forte recessione in tutto il mondo guidata dalle svalutazioni, sarebbe realistico. In fondo, gli effetti dell'ultima svalutazione del renminbi, nel '94, si stanno vedendo nei crolli finanziari di questi mesi in tutta l'Asia. A Hong Kong, vedono questo scenario come la cosa peggiore che potrebbe capitare: un futuro di maiali sempre più magri.

Danilo Taino

 
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