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Partito Radicale Roma - 23 aprile 1998
I SILENZI E GLI AFFARI

Il tour europeo di Wei Jingsheng: l'Italia lo snobba, l'Unione tace

Lo stato italiano ignora il dissidente cinese

Il Manifesto (pag. 3), Giovedì 23 aprile 1998

Di Angela Pascucci

Wei Jingsheng, figura storica della dissidenza cinese, non nasconde sorpresa e amarezza quando racconta come i vertici governativi e istituzionali italiani non abbiano trovato il tempo di incontrarlo nei cinque giorni in cui è stato a Roma. Qualcuno lo ha ascoltato: Achille Occhetto, presidente della Commissione esteri del Senato, con alcuni membri dell'ufficio di presidenza, ma non in forma ufficiale. I segretari del Ds, Massimo D'Alema (appena rientrato da un lungo tour in Cina), e quello di Forza Italia, Antonio Martino. Il segretario Cisl, D'Antoni. E tanta gente che è andato a incontrarlo alla sede del Partito radicale. Ma le autorità dello stato italiano lo hanno snobbato, forse perché, essendo stato Wei Jingsheng ignorato dalle reti televisive tanto pubbliche quanto private, avranno pensato che era un "non evento", e dunque non esisteva. Diciassette anni di carcere duro in quanto oppositore del regime non hanno costituito motivo sufficiente per dedicargli neppure qualche minuto. "Hanno trovato il temp

o per andare in Cina a parlare d'affari, ma adesso che io sono venuto qui non hanno avuto tempo per parlare con me della situazione della democrazia in Cina" constata ironicamente Wei, il quale è tanto più sorpreso in quanto, essendo Roma l'ultima tappa di un lungo giro in Europa, può fare qualche confronto. In Francia ha potuto parlare con il primo ministro Lionel Jospin, in Gran Bretagna e in Germania è stato ricevuto dai ministri degli esteri Robin Cook e Klaus Kinkel. E così è stato in tutti gli altri paesi europei dove ha fatto tappa. Non che questo abbia significato per lui ottenere qualcosa di più che parole di circostanza e rassicurazioni forse senza seguito. Ma evidentemente gli italiani hanno ritenuto compromettenti anche queste. O forse hanno pensato che non era necessario ripetergliele, in nome magari di un rifiuto dell'ipocrisia, che avrebbe meritato un comunicato stampa a parte. Ma ciò ovviamente non è avvenuto. E la storia di Wei rivela allora un altro annoso problema dello stato italiano: la

debolezza della sua politica estera che, al di là dello specifico Wei Jingsheng, assume nell'ambito europeo una dimensione ancora più grave e imbarazzante in quanto si traduce in una inquietante debolezza nei rapporti istituzionali all'interno dell'Unione europea e in un'immagine incerta e ininfluente all'esterno. Così che appare evidente quanto l'Italia, tacendo spesso, sia ancora lontana mille miglia dalla costruzione di una cultura del rapporto politico con i suoi partner, in un'Europa dove invece non mancano le prime donne invadenti. Anche questo dimostra il rifiuto a Wei Jingsheng, il cui viaggio europeo rivela però anche molto altro di quel che corre nel vecchio continente. Basta sentirlo raccontare dello scaricabarile verbale di cui è stato testimone quando, nel corso del suo pellegrinaggio, ha chiesto conto a ogni singolo paese del perché l'Unione europea nel suo insieme quest'anno non abbia promosso mozioni di condanna contro la Cina in sede di Commissione ONU per i diritti umani. Una volta smontata

da Wei Jingsheng la motivazione ufficiale, e cioè che la Cina ha già fatto concessioni in tema di diritti umani (non possono essere considerate tali i rilasci - espulsioni di alcune figure storiche della dissidenza e la promessa generica di firmare il patto sui diritti politici e civili, mentre ogni giorno viene concretamente incarcerato e condannato ad anni di galera qualche oppositore), si passa all'altra giustificazione: e allora il governo inglese dice di non condannare la Cina perché Francia e Germania hanno deciso di non farlo. La Germania, a sua volta, afferma che la decisione europea si deve tutta all'azione inglese (e segnatamente, come spiega Olivier Dupuis, segretario del Partito radicale presente alla conferenza stampa di Wei Jingsheng, del vice presidente della Commissione europea Leon Brittan, oltre tutto responsabile delle relazioni esterne dell'UE con Nord America, Nuova Zelanda, Giappone, Cina, Corea del sud, Macau, Taiwan e Cina, e che si è assunto un ruolo primario di regista nella politi

ca di compromesso totale con la Repubblica popolare cinese). Come sia, spiega "il prigioniero speciale di Deng Xiaoping", non uno degli stati europei si assume per primo la responsabilità di quel che dice, ma soprattutto di quel che fa. Resta il fatto che l'Unione europea, spesso divisa su cruciali decisioni di politica estera (come ha mostrato l'ultimo scontro Usa- Iraq), quando trova l'unanimità lo fa così al ribasso che ci si chiede davvero cosa sia meglio. D'altra parte l'identità di vedute minima sul rapporto con la Cina è funzionale a qualcosa di molto concreto. Non basta la facciata di un'Asia - Europa Meeting (Asem) per costruire una politica estera comune degna di questa nome, quando la pratica quotidiana parla di delegazioni politiche e d'affari che dalle capitali europee partono per Pechino o verso altre città asiatiche cercando solo di arrivare prime nella firma dei contratti. Eppure nessuno, tanto meno Wei Jingsheng, chiede di far guerra a Pechino o di imporre sanzioni, ma di prendere atto che,

poiché la Cina ha bisogno dell'Occidente quanto l'Occidente ha bisogno di lei, è lecito e doveroso pretendere di più, e non solo a parole.

 
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