La politica italiana verso i dissidenti: ignorarli
Dal Corriere della Sera (prima pagina e pag.13)
Venerdì 8 Maggio 1998
Di Gianni Riotta
Ai tempi della Guerra Fredda la vita dei dissidenti era difficile, crudele ma chiara. In patria, come lo scrittore ceco Havel, soffrivano in galera. In esilio, come lo scrittore cileno Dorfman, rischiavano l'identità. Oggi il mondo vede un numero record di democrazie. Dove, una generazione fa, sorgevano brutali dittature, in Asia, Europa e America Latina, operano governi, se non perfetti, almeno non feroci. Eppure, tra mercato globale e libertà diffusa, i diritti civili e i dissidenti languono. Il giovane cinese Wang Dan, protagonista della rivolta di piazza Tienanmen, è stato espulso dopo anni di galera e vive, povero e solo, negli USA. Nell'intervista al Corriere Wang ha ricordato, con trepidazione, le difficoltà
che attendono chi sfida un regime illiberale. La solitudine, il sarcasmo.
Come deve comportarsi un governo occidentale con i dissidenti? E' giusto alzare la voce per lo scrittore Salman Rushdie, cittadino europeo condannato a morte dagli ayatollah, in Iran? O, così facendo, si mette a rischio il delicato disgelo avviato dal neopresidente iraniano Khatami? Dobbiamo essere fedeli al principio della libertà di espressione, o pensare agli affari che il nostro Paese può fare con Teheran e che comportano profitti per le aziende e posti di lavoro per i disoccupati? Abbiamo il dovere, "morale" dice Wang Dan, di dare sostegno a chi non ha libertà nel suo Paese, come tanti Paesi fecero in due secoli con i nostri esiliati, o invece dobbiamo preoccuparci dello sterminato mercato cinese?
Fin qui l'atteggiamento del governo dell'Ulivo sembra abbastanza chiaro: prima dei dissidenti vengono le relazioni, diplomatiche ed economiche. Sul New York Times Salman Rushdie si lagna che il nostro ministro degli Esteri, Lamberto Dini, non voglia neppure rispondere alle sue lettere, pur firmate da un cittadino dell'Unione Europea. Il dissidente cinese Wei Jingsheng, in visita in Italia su invito dei radicali, ripete la denuncia: nessun ministro l'ha ricevuto, solo colloqui con esponenti di partito, Martino di Forza Italia e D'Alema, DS.
Nel dibattito, delicato, difficile e importante, come difendere i diritti civili senza danneggiare il proprio Paese, la risposta italiana è, finora, netta. Lasciamo soli i dissidenti. Ignoriamoli diplomaticamente, snobbiamoli personalmente. Com'è facile abbandonare questi signori, solitari. Come appariva debole, solo, fragile e perduto Wang Dan, nel colloquio di New York. Il suo Paese, la Cina, viaggia alla velocità della luce verso il futuro e lui cerca di indirizzarla, lontano e povero. La sproporzione di forze in campo è scoraggiante. E' vero: i dissidenti sono patetici, inermi. Spesso divisi tra di loro da gelosie, miserie, invidiuzze. Le difficoltà e la disperazione dividono, incattiviscono. E' allora giusto abbandonarli al loro destino, occupandoci degli affari nostri? No. E' sbagliato. Sbagliato e controproducente, perché un Paese opportunista e debole non fa neppure buoni affari. A Pechino, a Teheran, ovunque, chi si comporta con coraggio e dignità è stimato e rispettato più di chi agisce da tappetar
o. Gli americani hanno in Cina interessi che fanno impallidire i nostri. Ma sanno, per esperienza di mezzo secolo, che far pesare sui cinesi la denuncia delle ingiustizie non li indebolisce: li rafforza. Essere giusti non è solo "morale": conviene anche.
Quando i cinesi hanno chiesto alla Walt Disney di modificare certe scene di un film a loro sgradite, la Disney ha rifiutato. Quando i giapponesi imposero a Bertolucci la censura politica sull'Ultimo Imperatore, il regista li mandò al diavolo. La Apple dei computer, invece, ha lanciato una campagna pubblicitaria decorata da una foto del Dalai Lama. Poi censurata in fretta, temendo mugugni cinesi per il Tibet. A Mosca un editore ha cancellato la traduzione dei Versi satanici di Rushdie su minacce iraniane. Credetemi: Disney e Bertolucci hanno oggi più forza, sul mercato globale, delle acerbe Russia e Apple. Chi decide la politica italiana sui diritti civili del mondo? Il premier prodi? Il suo vice Veltroni (che, opportunamente, ha incontrato Rushdie)? Il ministro Dini? Il timido Wang Dan l'ha capito: essere schietti nella difesa dei diritti umani rende più forti, non meno forti, al tavolo della trattativa economica e politica.
Il governo Prodi ha raggiunto il successo dell'Europa e gliene abbiamo dato atto con franchezza. Ma, una volta giunti in Europa, faremo i cravattari avidi, o vogliamo provare a diventare un Paese forte, abile nei commerci eppure amico sincero dei deboli? Se non ora, quando?