IL CARO AVANTI AI BUOI
di Mauro Mellini
L'Opinione, venerdi 19 giugno 1998
Sarà un motivo di scandalo, o peggio, sembrerà un modo di fare sfoggio del gusto di andare contro corrente. La prendano come loro pare i miei amici radicali, progressisti, umanitari, i compagni di lotte per i diritti civili, ma la storia dell'istituzione di un tribunale internazionale "contro" i crimini contro l'umanità non mi convince, anzi, francamente mi preoccupa. L'idea di una giustizia internazionale alla quale si debba dar conto di crimini atroci che, commessi con la forza di uno stato, delle sue armi, dei suoi apparati, delle sue macchine propagandistiche, poliziesche e la copertura della forza di intimidazione e di mistificazione del suo peso internazionale e del suo "diritto", sembrano destinati altrimenti a rimanere impuniti, e certamente un miraggio che il senso di umanità e di civiltà vorrebbe trasformarlo in realtà.
Che vadano impuniti i colpevoli di stragi inaudite e cosa rivoltante quasi quanto i crimini. Del resto io appartengo ad una generazione e ad una fazione che dal processo di Norimberga trasse qualche appagamento del senso di ribellione e di sdegno per la violenza subita dall'Europa. Ma oggi tutti affermano che bisogna superare Norimberga, la giustizia dei vincitori, i Tribunali da essi istituiti per impiccare i vinti. La ricostituzione del giudice attraverso la creazione della Corte internazionale dovrebbe ovviare a tutto cio'. E l'esistenza di un tale organismo di giustizia dovrebbe rappresentare un ammonimento per capi e gregari e quindi un mezzo di tutela contro i stermini e genocidi, crimini di massa, di polizia etnica, eccetera. Già, eccetera. L'istituzione di questo tribunale, su cui tutti sembrano d'accordo, precede ogni seria determinazione relativa al diritto penale internazionale che dovrebbe elaborare la definizione dei crimini sottratti alle giurisdizioni dei singoli stati, i limiti entro (ed oltr
e) i quali il diritto dei singoli stati sovrani legittima ed esclude la punibilità di chi a tali crimini abbia concorso, le condizioni di procedibilità avanti a tale istanza internazionale e, soprattutto i modi in cui sia possibile costringere gli stati a consegnare i responsabili, a lasciarli assoggettare alla giurisdizione internazionale quando, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratterà di crimini commissionati più o meno apertamente proprio degli stati, dai regimi, da chi ha il potere e la forza.
D'altro canto quando uno stato consegna alla giustizia internazionale i "propri" criminali, spesso lo fa con l'intento di cancellare la propria responsabilità, quella dei propri governanti e dei propri apparati, sol perché particolari circostanze impediscono o sconsigliano di cancellarla negando i fatti e la responsabilità di tutti. Le divergenze che sono già emerse tra i vari Stati sulle condizioni e procedure sono poca cosa rispetto a quelle destinate a prodursi di fronte a casi concreti. Si fa presto a dire che si vuole evitare proprio la giustizia dei vincitori. Al più si può oggi sostituire ad essa la giustizia dei potenti sui crimini dei deboli "indisciplinati". Provate ad immaginare la richiesta di processare degli americani per fatti commessi in Vietnam, o dei cinesi per crimini in Tibet o da russi in Cecenia. Il presupposto perché l'ipotesi di un giudizio appaia ridicola è che esistano condizioni che, se non quelle della sconfitta in guerra del paese dei giudicabili, sono ad esse molto simili. Per n
on parlare di tutti gli altri problemi cui ho appena accennato. Pensare di istituire un tribunale senza averli risolti e senza essere in condizione di assicurare l'uniformità dell'applicazione delle leggi (se esistenti) e della giurisdizione internazionale o, almeno, la non mera casualità ad eccezionalità del funzionamento di tale organismo, significa mettere il carro avanti ai buoi, ma significa pure inserire una sorta di meccanismo di legittimazione nei confronti dei casi in cui il deferimento alla Corte internazionale non avviene e non può avvenire. Si dirà che il meglio e nemico del bene e che la precostituzione di un tale tribunale e già qualcosa. Non e così. L'idea di un tribunale e di giudici senza un diritto certo da applicare, limiti certi di giurisdizione, certezza che l'assoggettamento a giudizio non sia frutto di arbitrio, di sopraffazione o di casualità, significa stravolgere il significato della giustizia ed asservirla alle ragioni della diplomazia, dei rapporti di forza, delle necessità di pro
paganda. La "ragion di stato" del terzo millennio, forse, non meno cinica di altre forme del passato. No. Questo non ci sembra davvero un passo avanti. Forse una occasione di riflessione sì. Ma a patto che veramente si voglia riflettere senza ripararsi dietro uno schermo di un facile e un po' cinico compiacimento.