> NELLA BATTAGLIA TRA SEPARATISTI ALBANESI ED ESERCITO SERBOcorriere della sera / Renzo Cianfanelli
TIRANA - La storia, come in Nord Irlanda, nei Balcani guarda indietro e si ripete, alla vigilia del duemila << Dormi dormi bel bambino, piccolo vendicatore del Kosovo>> cantano le contadine serbe da PIù DI SEICENTO ANNI, CON STRUGGENTE OSTINAZIONE, tramandata dalle madri, che a loro volta l'hanno ereditata dalle madri dalle madri. La disfatta sanguinosa, che i Turchi Osmani infissero alla Serbia nel lontano 1389 non è dimenticata, come non è dimenticata alla periferia opposta dell'Europa la sconfitta che le truppe protestanti di Guglielmo d'Orange inflissero, alcune centinaia d'anni orsono, al re cattolico Giacomo II.
Tirana non è, né potrà automaticamente diventare un'altra Sarajevo. Le bellicose frasi del ministro degli Esteri albanese Paskal Milo, che per richiamare l'attenzione di Belgrado sulla stampa skipetara grida << a questo punto è guerra !>>, come l'incendiario editoriale uscito ieri sul giornale della sera di Belgrado Vecernje Novosti con il titolo << Tirana accende la mina dei Balcani>>, fanno parte della guerra di parole.
Il pericolo in Albania non è quello della guerra. A Tirana, città che deve il nome alla vittoria riportata in Persia presso Teheran dal generale turco Suleiman Pascià, tutto è calmo. Nella paizza principale la gente cammina avanti e indietro come in qualsiasi altra città balcanica nell'ora del tramonto.
Un Luna Park sorge fra la moschea a Giorgio Castriota detto Skander-bey, costretto a divenire musulmano e poi, tornato cristiano, eroe della lega dei popoli albanesi, che a metà del '400 insorse con l'appoggio di Venezia contro i Turchi.
Anche l'Albania, come la Serbia, e il Kosovo e tutti i Balcani, è condannata a rivivere il passato. Albert Mullai, portavoce del ministero della Difesa di Tirana, dice: << I nostri soldati sono pronti ad affrontare qualsiasi eventualità e a difendere eroicamente il suolo della Patria >>. Ma con cautela aggiunge: << L'esercito ha ricevuto istruzioni ben precise, per evitare di essere coinvolto in una guerra non voluta >>.
E' evidente, al di là della retorica, la volontà degli albanesi di non esasperare la tensione, dopo l'annuncio fatto in precedenza da Tirana (ma smentito da Belgrado) che tre proiettili serbi sarebbero esplosi in Albania, a 500 metri dal confine, durante i violenti bombardamenti in Kosovo del fine settimana, nel corso dei quali si sono contati morti e feriti. Ma il problema, nonostante i fotogrammi trasmessi alla tv per qualche secondo o le parole pronunciate da questo o quel politico, nel Kosovo non è una guerra come quella della Bosnia, con un fronte relativamente definito e massicci schieramenti militari.
Il pericolo invece, come hanno avvertito dopo un sopralluogo nella zona dei combattimenti il vicepresidente del Parlamento di Tirana Namik Dokle e il rappresentante dell'Unione europea occidentale Hans Van der Linden, è quello di trovarsi, anche qui- come in Bosnia, come in Croazia e come in Serbia- davanti a una catastrofe sociale, totalmente prevedibile. Una catastrofe che può essere fermata, per la quale però la comunità internazionale sta facendo <>. E le notizie che arrivano da Orahovac, la città contesa fra serbi e guerriglieri dell'autoproclamato Esercito kosovaro di liberazione (Uck) ne danno la conferma. Una massa di 20.000 profughi, secondo quanto ha reso noto a Pristina il Centro informazioni del Kosovo, si sta allontanando in preda al panico dalla zona dove si verificano gli scontro. Nella stessa area inoltre a 8 chilometri dal villaggio di Bela Crkva, secondo la stessa fonte, sarebbero ricomparse le famigerate << tigri di Arkan>>, bande armate messe insieme dall'ex capo dei tifosi ultrà della squadra di calcio <> di Belgrado, divenute tristemente famose in Croazia, in Bosnia e in Serbia durante la guerra jugoslava. Come è ovvio, date le difficoltà di accesso e le falsificazioni che hanno sempre accompagnato il conflitto dei Balcani, su quanto sta accadendo in Kosovo non vi sono dati certi. Fonti albanesi hanno riferito di 70-80 morti negli scontri fra guerriglieri kosovari e forze serbe, avvenuti alla fine della scorsa settimana, e di case incendiate o rese inabitabili. Altri resoconti parlano invece di 110 vittime, nei due giorni di combattimenti terminati con la riconquista di Orahovac da parte dei serbi.
Al di là del bilancio dei morti e del conteggio dei danni, l'unica certezza è che anche in Kosovo si preannuncia- anzi si sta verificando- quello che nel resto della ex Jugoslavia è già avvenuto. In Bosnia, per esempio, oggi il 30-40 per cento della popolazione è formato da profughi. Ealtre centinaia di migliaia di profughi sono pure in Croazia, in Serbia, nella stessa città di Sarajevo.
Anche il Kosovo, mentre l'Occidente svagatosi torcele mani, o tutt'al più incarica qualche politico di dire che <> (ma dove e come?) si prepara ad allungare questa miserevole lista. Ma con la logica primitiva che governa il mondo della notizia-spettacolo, se il sangue non scorre, se i bambini non muoino, se non esplodono bombe, è difficile suscitare l'interesser della gente per le tragedie quotidiane dei profughi. Meglio aspettare lo scoppio della prossima guerra.