Il Manifesto, 11 Luglio 1998
Viaggio in Macedonia, ai confini della guerra.
La minoranza albanese cerca una via di fuga dalla Macedonia. Xhaferri, ex "radicale transnazionale" e leader del partito nazionalista, sfrutta la guerra in Kosovo. "Anche per noi è il momento di pensare alla via militare"
LUCA RASTELLO - TETOVO (MACEDONIA)
Come te la immagini una università clandestina? Una specie di appartamento da qualche parte nei casermoni del centro, dove studenti e docenti si riuniscono di nascosto a ore diverse per non dare nell'occhio, ad esempio.
Invece no. Tredici palazzine per tredici facoltà diverse, più segreteria, rettorato, servizi, senato accademico, alloggi per i docenti, foresteria. 4030 studenti di cui 1530 al primo anno e 267 docenti: l'università "clandestina" di Tetovo - Macedonia orientale, al confine con il Kosovo - occupa un intero quartiere alla periferia della città, tanti edifici nuovi, molti altri in costruzione. "Tutto con i contributi volontari della comunità albanese in Macedonia", spiega il professor Sulejmani: "Ma non è una università albanese, come dice il governo. Si tratta di un'istituzione bilingue". In effetti ci sono anche alcuni, pochi, studenti macedoni a Tetovo e la lingua nazionale ufficiale è obbligatoria per i corsi del primo anno. Fadil Sulejmani, docente di morfologia e fonetica della lingua albanese, è il rettore. Originario del Kosovo, dove ha insegnato per 26 anni, Sulejmani ci tiene a enunciare lealtà verso il governo macedone, ma non nega l'identità albanese della sua università: "Abbiamo bisogno di formare
quadri qualificati. Nella Jugoslavia era permesso l'insegnamento nella nostra lingua ed erano previsti corsi specifici sulla nostra cultura e storia. Con la nuova Macedonia non è più così. Per i nostri ragazzi studiare nelle altre repubbliche ex jugoslave è impossibile, figurarsi emigrare. Anche in Albania non ci sono molte possibilità: le università albanesi accettano ogni anno un'ottantina di studenti macedoni, ma solo nelle facoltà che noi non abbiamo".
E in Macedonia la situazione è tanto grave? "Sì. Non solo per il mancato riconoscimento della minoranza albanese come nazionalità costitutiva dello stato, ma anche sul piano didattico. Le università del nostro paese prevedono il numero chiuso e agli albanesi è riservato solo il 2% dei posti". Secondo il censimento del 1991 gli albanesi sono il 23% della popolazione, ma le cifre ufficiali sono contestate dai partiti nazionalisti, per i quali la percentuale reale oscilla tra il 40 e il 45%. "La nostra è un'istituzione laica - continua Sulejmani - eppure lo stato rifiuta di riconoscerci, a differenza della facoltà islamica di Skopje. La procedura per la fondazione è la stessa seguita dall'università di Bitola, attraverso il finanziamento di tre comuni; in quel caso Bitola, Prilep, Ocrida, nel nostro Tetovo, Gostivar, Debar. Solo che loro hanno il riconoscimento statale e noi no". A Tetovo non sono mancate aggressioni e intimidazioni. All'apertura dell'anno accademico 1994-95, il primo, la polizia caricò facendo
un morto e un centinaio di feriti, devastando aule e materiali didattici. Sulejmani fu arrestato e scontò dieci mesi di carcere. "Eppure - dice - la Costituzione prevede l'insegnamento nella lingua madre per tutti i cittadini. E' il governo nell'illegalità, non noi". Ma voi vi dichiarate leali a questo governo... "E' una lealtà forzata. Nel comunismo avevamo diritti che questo governo calpesta. Oggi ci riconosce tutto il mondo, tranne Skopje".
E' difficile rendersi conto della tensione che governa l'esistenza di questa università e dell'intera città di Tetovo, passeggiando fra le palazzine dell'università: caldo, zanzare, gruppi di studenti stradiati sui gradini delle casette, qualcuno con i libri. Complessivamente una sensazione di benessere, quasi di ricchezza. Proprio quella che manda in bestia i macedoni non albanesi, che dicono che i soldi per l'università arrivano dal narcotraffico. "Bugie propagandistiche", replica Sulejmani: "Viviamo con l'autotassazione del nostro popolo. Ogni albanese in Macedonia dona un marco al mese...". Bastano? "No. Avremmo bisogno di almeno tre milioni di marchi ogni anno accademico, e oltre tutto molti di noi non sono disposti a pagare. Abbiamo difficoltà nella riscossione". Ricevete soldi dalla diaspora? "No, per ora gli albanesi nel mondo sono impegnati a sostenere la lotta nel Kosovo. Per fortuna ci sono anche qui molti businessmen di buona volontà".
Il richiamo del Kosovo
La lotta del Kosovo. Non è tanto lontana: Tetovo riposa nell'ombra della Popova Sapka, il cappello del prete: la montagna che separa la Macedonia dai luoghi della guerra fra serbi e albanesi. Sui fianchi di quella montagna si arrampicano i sentieri che oggi le forze speciali macedoni pattugliano per evitare rifornimenti militari all'esercito di liberazione del Kosovo, l'Uck. Da qui partono molti aiuti umanitari per gli albanesi di Jugoslavia travolti dalla violenza istituzionale di Milosevic. Ma tutti negano che la rotta sia quella della montagna. Ci sono organizzazioni umanitarie che raggiungono l'Albania attraverso il valico di Cafa San, sul lago di Ocrida. La più importante porta il nome di Madre Teresa di Calcutta, albanese di Macedonia, gloria nazionale. Armi niente? "Niente", dice Arben Xhaferri, l'uomo che dovrebbe sapere tutto. "Per il momento solo aiuto umanitario e sostegno politico, ma ogni cittadino di Tetovo è pronto, se la repressione serba dovesse continuare". Pronto a cosa? "In primo luogo ad
accogliere eventuali profughi, ciò a cui il governo macedone non sta proprio pensando". E poi? "E poi, se necessario, al sostegno militare". Xhaferri è il segretario del Partito democratico degli albanesi (Pdsh), formazione nazionalista nata dalla fusione dei due partiti più radicali della minoranza albanese di Macedonia, in contrapposizione al Partito popolare albanese che siede nei banchi del governo a Skopje. Xhaferri ripete la stessa teoria delle tre fasi - appoggio politico, umanitario e militare - enunciata dagli arruolatori dell'Uck in Svizzera, ma è più prudente. Nel programma del suo partito si parla soltanto di autonomia per la popolazione di lingua albanese: "Gli albanesi devono definire i loro interessi entro la Macedonia, non andarsene", dice. Altra cosa il Kosovo: "Lì è necessaria l'indipendenza. Altrimenti sarà destabilizzata tutta l'area dei Balcani: l'Albania è costretta a militarizzarsi e la politica moderata di Fatos Nano diventa impossibile; la Jugoslavia si ritrova al suo interno un fat
tore di disintegrazione che può deflagrare e lo stesso vale per la Macedonia. La repressione in Kosovo chiama in causa tutti gli albanesi". Xhaferri è stato membro del Partito radicale transnazionale di Marco Pannella, ma non sembra più tanto incline alla nonviolenza: "Se non hai forza militare - dice - non dai efficacia alle tue idee. E' in corso una trasformazione degli albanesi da civili a soldati. Ora pensiamo in maniera militare". Agite anche? "Come partito no. Ci sono già alcuni, però, che prendono la via del Kosovo. Del resto non solo dalla nostra parte: sono grandi anche i rapporti sotterranei fra Macedonia e Serbia. Vuole una prova? A Drenica è stato ucciso un mercenario che lavorava per i serbi, Dragi Djordjevic: era un poliziotto macedone, del villaggio di Leunovo, vicino a Gostivar".
E' una figura imponente, Xhaferri. Il suo carisma sugli albanesi radicali della Macedonia è messo in discussione solo da quello di Rufi Osmani, il giovane sindaco di Gostivar: compare su tutti i manifesti dei partiti albanesi, simbolo dell'oppressione. Fu arrestato il 9 luglio del '97 per essersi rifiutato di rimuovere dal comune di Gostivar le bandiere albanese e turca in rappresentanza delle minoranze. Quella mattina stessa la folla diede l'assalto al palazzo del Municipio dove lo tenevano agli arresti e la polizia macedone sparò: tre morti e centinaia di feriti. Osmani fu ritenuto responsabile anche di quelle morti e condannato a 15 anni, diventati sette in secondo, definitivo, grado. Le porte del carcere si sono riaperte per lui dopo la libertà provvisoria all'inizio di aprile. A causa del sostegno a Osmani è finito in galera anche Alajdin Delmiri, sindaco di Tetovo. Una vera provocazione di stato, per alcuni. Per altri una raffinata mossa propagandistica da parte del presidente della Repubblica Kilo Gli
gorov, deciso a concedere la grazia ad entrambi, ma solo poco prima delle elezioni politiche previste a settembre.
Il Piemonte degli albanesi
Xhaferri, a Tetovo, fa considerazioni prudenti sulle ipotesi di grande Albania: "L'unificazione degli albanesi in un solo stato - sostiene - ha senso solo come occidentalizzazione, modernizzazione. In effetti l'unificazione albanese sarebbe un grande vantaggio per l'Italia, visti i nostri rapporti storici. Non finirò mai di stupirmi della vostra inerzia. La cultura greca è molto meno importante per noi di quella italiana, eppure i greci sono onnipresenti con la loro diplomazia, voi latitate". Allora, prima o poi l'unificazione verrà? "Alla fine vivremo insieme, il Kosovo può essere il Piemonte degli albanesi, là c'è una coscienza nazionale più alta che nella stessa Albania". Grande Albania? "Guardi, per evitare termini ad alta temperatura emotiva le dirò che il problema è un'altro". Cioè? "Vogliamo confini permeabili o rigidi? Storicamente gli slavi preferiscono frontiere di ferro, impermeabili. Noi crediamo che siano più utili confini deboli, attraverso cui la gente e i commerci circolano liberamente. Quali
siano questi confini è questione secondaria. In questo credo che la nostra mentalità sia più occidentale di quella serba, caratterizzata da un esclusivismo che si traduce nella pulizia etnica in Bosnia e nell'apartheid in Kosovo".
Alta tensione a Gostivar
I confini della grande Albania si fanno visibili nella cartina appesa dietro le spalle di Fejsullah Shabani, segretario del Pdsh a Gostivar: Albania, un tratto di Grecia settentrionale, Macedonia, compresa Skopje, la capitale. "E' una cartina storica", ci dicono nell'ufficio municipale dove siamo ricevuti. Gostivar è un comune fantasma: dopo l'arresto di Rufi Osmani, il Pdsh ha ritirato tutti i suoi rappresentanti delle istituzioni. Nulla funzione più dall'8 aprile. "Per legge dopo 60 giorni - spiega Shabani - il governo ha il diritto di sostituire d'ufficio il sindaco. Non lo hanno fatto per ragioni politiche: nessuno vuole sostituire Rufi Osmani, il solo sindaco è lui". E la città rimane senza autorità? "La responsabilità è del governo macedone. Quando abbiamo vinto le elezioni, il governo ci ha impedito l'esercizio della funzione pubblica: ai comuni è stato lasciato solo il diritto di decidere sulla pavimentazione delle strade. Il resto è centralizzato a Skopje". Ma non c'è malcontento? "C'è. Il personale
degli uffici pubblici lavora da tre mesi senza stipendio. Ma capiscono che il problema è politico, che è ora di tutelare i nostri interessi". Quali interessi? "Quelli di autonomia e autodeterminazione. Siamo il 78% della popolazione a Gostivar, il 100% nei villaggi intorno, ma nelle istituzioni siamo rappresentati solo al 3, 4%". In concreto che cosa chiedete? "La nostra università, la nostra polizia, la nostra amministrazione. I macedoni ci chiamano radicali, ma la verità è che per loro ogni diritto per gli albanesi è una richiesta radicale". Quindi una situazione analoga a quella del Kosovo... "Meno violenta, ma per certi versi anche più grave". Che cosa vuole dire? "Che i serbi darebbero agli albanesi del Kosovo tutti i diritti se questi riconoscessero lo stato jugoslavo. Noi riconosciamo lo stato, rispettiamo la legge, e i nostri diritti sono negati ugualmente".
Lei crede davvero che la questione del Kosovo sia semplice? "Ma no. Era un paradosso. La repressione violenta in Kosovo ci chiama in causa". Vi riconoscete nell'Uck? "Guardi che non sono terroristi: l'Uck è un esercito popolare, esprime la volontà degli albanesi di tutti gli albanesi, di riprendere la situazione nelle loro mani. Del resto anche Holbrooke li considera interlocutori legittimi". Che cosa fare a Gostivar per gli albanesi del Kosovo? "Qui sono arrivati i primi profughi. Sono accolti nelle famiglie, come ospiti, perché non c'è una politica ufficiale. Il nostro partito ha costituito un comitato per l'emergenza. E' tutto pronto, materiali e soldi. Solo non si deve parlare di profughi". Perché? "Sono albanesi fra albanesi, fratelli in casa propria, non profughi".
Tempo di uccidere
Tetovo e Gostivar formano con Debar il triangolo delle province macedoni a maggioranza albanese. Qui i partiti nazionalisti hanno la maggioranza assoluta, anche se non - come vorrebbe il motto "una nazione, una opinione" enunciato da Shabani - la totalità del consenso. Un'insofferenza che cresce e mette in difficoltà il governo Macedone, alla guida di uno stato che molti vedrebbero volentieri smembrato fra Grecia, Bulgaria e Albania, espressione di un'identità collettiva che ha grandi tradizioni lontane nel tempo e nessun precedente politico recente. A Tetovo e Gostivar, se lasci loro il tempo di parlare, molti finiscono per dire dire che la Macedonia è un artificio, che prima o poi la cartina di questa parte dei Balcani dovrà cambiare. Perfino i più miti, come il professor Sulejmani, il rettore: "E' venuto un tempo nuovo. Il problema non riguarda soltanto il Kosovo. In tutto il mondo i popoli vivono uniti. Noi siamo fratelli, abbiamo lo stesso diritto. Non abbiamo paura di dirlo. Se serbi e macedoni vorrann
o restare con noi godranno dei loro diritti. Noi siamo tolleranti!". E' proprio sull'argomento della tolleranza, però, che a questa gente esasperata ogni tanto sfuggono espressioni un po' inquietanti: "Anche la nostra tradizionale tolleranza - dice il professore - è causa della nostra schiavitù. Siamo stati sempre pecore, ma vengono momenti, in cui bisogna imparare a comandare e a uccidere per difendere la propria libertà. Gli albanesi sanno essere tolleranti, ma se prendono le armi in mano è difficile che si fermino. Quelli a cui hanno ucciso le famiglie non permetteranno a Rugova di fare pace a tutti i costi. Saranno tempi difficili".