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Partito Radicale Centro Radicale - 26 aprile 1999
Kosovo/Serbia: articolo di Sonja Biserko

LA MIA SERBIA SOTTO LE BOMBE

di Sonja Biserko

La Stampa, lunedì 26 aprile 1999

MILOSEVIC e gran parte dell'establishment serbo continuano a credere che la Serbia riuscirà a sopportare gli attacchi Nato, e che addirittura vincerà e darà vita a una nuova Grande Serbia. A Belgrado si ritiene che le incertezze e le divergenze d'opinione fra i partner occidentali porteranno alla convocazione di una Conferenza internazionale e a trattative di pace: sarebbe un grande risultato storico che coinvolgerebbe tutti gli attori regionali, si ritiene. E se i negoziatori serbi avessero una linea chiara, sarebbe questo il momento giusto per cambiare la carta geografica dei Balcani. Il risultato più importante sarebbe la divisione del Kosovo, il distacco di una parte meridionale della Jugoslavia in cambio di un pezzo di Bosnia. Per gli strateghi occidentali, è decisivo comprendere questo background. Ben lungi dal pensare a un ritiro e nonostante le forti perdite economiche e militari, il regime jugoslavo crede di poter ottenere una storica vittoria sulla più potente alleanza militare e sull'unica superpo

tenza rimasta. La maggior parte degli osservatori occidentali considerano l'atteggiamento di Belgrado un bluff. Ma una chiara conoscenza delle strutture serbe di potere conferma che questo ragionamento ha un fondamento logico, dal punto di vista jugoslavo. E mostra che la contromossa dell'Occidente deve essere una concezione di ampio respiro per arrivare a una pace durevole. Le devastazioni provocate dagli attacchi Nato costeranno care alla Serbia. Gli sforzi compiuti da generazioni per realizzare una rete di infrastrutture sono stati vanificati. Ma queste devastazioni distruggono anche le premesse delle istituzioni democratiche. Al contrario di quanto sperano la Nato e molti osservatori nella regione, proprio per questo non ci si può immaginare un sollevamento contro Milosevic. I più probabili sviluppi, in Serbia, sono altri: la sopravvivenza e una dittatura di Milosevic; una dittatura militare; oppure un conflitto fra gruppi militari rivali, e dunque il caos. Nessuna di queste soluzioni porterebbe allo spe

rato ricambio politico a Belgrado. Alla base delle trattative di Rambouillet c'era una strategia inadeguata. Gli sforzi insufficienti e ritardati delle potenze occidentali per arrivare ai colloqui hanno fornito a Milosevic il tempo sufficiente a mettere in pratica la sua politica repressiva. Mentre gli europei si opponevano al ruolo guida dell'America nel Kosovo, i preparativi di guerra procedevano spediti, a Belgrado. Le trattative cercavano di considerare uguali tutte le parti: ma in questo modo è stata favorita la parte "più forte", i serbi appunto. La confusione sul modo di comportarsi nei confronti dell'Uck, il movimento di liberazione albanese, e la mancanza di una analisi seria hanno dato via libera ai serbi e ai loro attacchi ai villaggi, avviati col pretesto di "eliminare i terroristi". A una possibile perdita del Kosovo si è fatto riferimento per la prima volta nel famigerato Memorandum dell'Accademia serba, che nel 1986 ha elaborato il progetto di una Grande Serbia. Dobrica Cosic, poeta nazionale

ed ex presidente, ha più volte previsto che "il ventesimo secolo si chiuderà per il popolo serbo con la perdita del Kosovo". Quando il regime ha cominciato una vera guerra contro gli albanesi della regione, ha dimostrato la propria incapacità di comprendere i cambiamenti della politica occidentale nei confronti dei conflitti regionali, soprattutto nei Balcani. Al contrario, si è preoccupato di imporre "nuovi fatti compiuti" nel Kosovo. Con successo, finora. L'inizio dei bombardamenti è statoconsiderato a Belgrado una nuova manovra diversiva della Nato, un bluff. Belgrado non credeva alla realtà degli attacchi. Per questo la prima reazione del regime e dell'opinione pubblica è stata la resistenza, l'ostinazione. La pulizia etnica nel Kosovo ha mostrato una volta di più la terribile crudeltà di quella macchina da guerra. Ma i concerti e altre manifestazioni hanno mostrato anche che la popolazione è incapace di ribellarsi alle violenze commesse, in suo nome, nel Kosovo. Sfortunatamente questi sviluppi hanno chi

arito che non esiste una alternativa democratica. I mass media sono stati le prime vittime delle bombe: tutte le notizie sono immediatamente passate sotto il controllo dello Stato. Lo stato d'emergenza e l'introduzione della pena di morte, il diritto di guerra, la mobilitazione parziale, l'arruolamento dei volontari hanno impedito una possibile ribellione. Incitata da una propaganda selvaggia, la Serbia si trova su una strada senza ritorno. La Serbia è avviata al caos, verso un inevitabile collasso morale e una disfatta storica. Si rifiuta di riconoscere la politica realizzata nel passato, e si rifiuta di riconoscere i crimini che commette, un giorno dopo l'altro. Di fatto Milosevic, responsabile dei disastro in Slovenia, in Croazia, in Bosnia e adesso nel Kosovo, ha soltanto dato espressione alla coscienza collettiva dell'élite serba, soprattutto delle forze di sicurezza. Per questo la Serbia non può sperare di essere integrata nelle strutture europee, senza il massiccio appoggio della comunità internaziona

le. Ma questo significa che l'attesa presenza della Nato nel Kosovo non basterà. Soltanto un protettorato potrebbe garantire ai deportati un ritorno privo di rischi. Dopo un decennio di errori politici nei Balcani, è assolutamente necessario che gli Stati Uniti e le democrazie europee sviluppino una visione d'insieme per l'intera regione: cominciando dalla denazificazione della Serbia. E' necessario anche un piccolo Piano-Marshall per la ricostruzione economica. Presupposto per una pace duratura e per la stabilità della regione è inoltre una struttura durevole incaricata di garantire la sicurezza. All'Occidente piace continuare a discutere sull'impiego delle truppe di terra. Dovrebbe invece rendersi conto che in una prospettiva di lungo periodo anche in Serbia è necessario un potere internazionale.

 
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