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Partito Radicale Centro Radicale - 31 maggio 1999
Kosovo/Demaci/La Repubblica: articolo-intervista

L'EROE DEGLI ALBANESI DI PRISTINA "GLI ATTACCHI AEREI NON BASTANO"

A colloquio con Adem Demaci "ostaggio" della polizia serba

La Repubblica (pag. 9), domenica 30 maggio '99

Di Bernard Guetta

Pristina. Avevo sentito dire che era in città, e che poteva muoversi liberamente. Non ci avevo creduto. Adem Demaci, più di 28 anni passati in carcere, in effetti è un mito: la coscienza, l'eroe della causa albanese. Impossibile che un uomo come lui, condannato per la prima volta nel 1959 per aver chiesto il congiungimento del Kosovo all'Albania, potesse andare e venire a suo piacimento a Pristina. Non poteva essere vero, ma ho chiesto di incontrarlo. Tanto per vedere.

Sono impazziti. Prima risposta: "Nessun problema". Ma non si riusciva a trovarlo. Era appena uscito da casa della sorella. Non era neppure a casa sua, ma "la polizia del suo quartiere lo sta cercando", e nell'attesa il commissario era pronto a ricevermi. Evidentemente erano volati insulti in alto loco. Il commissario, genere primo attor giovane e forte bevitore, mi ha fatto visitare il suo regno senz'anime. "Il numero 59, a sinistra, è una casa serba". Era una bicocca malandata. "Quella è una casa albanese, quella pure, e anche l'altra - tutte su questa via".

Le case albanesi erano alte, solide, ricche. Messaggio della polizia: "I dannati siamo noi, i serbi; i ricchi sono gli albanesi". Il commissario stava esagerando, e di Demaci non si vedeva neppure l'ombra.

Il discorso era osceno, perché quei "ricchi" nelle case non ci sono più; e lui non poteva essere estraneo alla loro fuga. Odioso e cinico. Ma è questo che provano i serbi; perché gli albanesi, espulsi dall'insegnamento e dagli impieghi statali dopo il 1988, si erano riconvertiti nel mondo degli affari, favoriti dalla liberalizzazione economica. E a molti è andata bene. Gli albanesi erano in ascesa sociale, mentre i serbi, che avevano riconquistato il settore pubblico, dovevano accontentarsi di modesti stipendi erosi dall'inflazione. Avevano creduto di guadagnare, ma ci avevano rimesso.

Un vecchio albanese si avvicina e si rivolge con espressioni di cortesia al commissario, il quale non chiedeva di meglio, tanto che cerca di prolungare la scena. Non ascolto più. E' troppo. Ho voglia di scappare, come tutti. In Kosovo, a un certo punto un giornalista stacca la spina, non ne può più di questo intreccio di verità e bugie, di mezze verità e mezze bugie. A Pristina mentono tutti.

I serbi mentono sull'orrore di quest'esodo forzato, che nel migliore dei casi mettono sul conto dei bombardamenti. E gli albanesi, mentono anche loro, per omissione. Perché dimenticano di dire che prima dei bombardamenti, prima dell'esodo forzato, l'Uck aveva lanciato un'offensiva in grande stile e conquistato interi pezzi del Kosovo in una vera guerra, iniziata di fatto la scorsa primavera. La responsabilità di questa guerra ricade sui serbi, perché non hanno voluto, non hanno saputo - anzi, certamente le due cose insieme - proporre un vero compromesso agli albanesi finché erano ancora in tempo, prima che ripudiassero la non violenza. Al contrario, li hanno stritolati, tanto da non lasciar loro altra scelta. E' però anche vero che prima della soppressione dell'autonomia del Kosovo da parte di Milosevic, gli albanesi non avevano fatto nulla per non far credere ai serbi che il loro regno stava ormai per finire. Volevano l'indipendenza, come gli sloveni, come i croati. La vogliono da sempre. E' un loro diritto

. E' stata la loro scelta. Ma non è stato Slobodan Milosevic a inventare quest'angoscia da minoranza bianca dei serbi kosovari: l'ha strumentalizzata e adulata. Ed ecco i risultati.

Il commissario mi riaccompagna fino all'albergo. Ciò che sta accadendo oggi è il quarto atto di un dramma che non finisce qui. L'America e l'Europa si scontrano, esterrefatte, con nazioni che stanno ancora cercando i propri confini. I paesi della mondializzazione sono intervenuti in un processo di formazione di stati - nazione tuttora incompiuto. Il prossimo secolo e quello precedente si ritrovano sullo stesso campo di battaglia. E l'etica? Il crimine c'è, plateale. Ma l'etica?

Niente è semplice in questa guerra.

Alcune ore dopo, in un albergo requisito dai serbi e affondato nel buio dalla Nato, ho davanti a me Adem Demaci. Seduto, rigido, con addosso un piccolo impermeabile completamente abbottonato, dal quale esce soltanto un volto di marmo dagli occhi incandescenti. Questa "catastrofe" (è il termine che ha usato) l'aveva prevista, dice in inglese, perché "non era serio voler negoziare una soluzione durevole in poche settimane, senza aver preparato nulla".

Si sarebbe dovuto fare, prosegue, il contrario di ciò che si è fatto a Rambouillet: "Prendere tempo, sei mesi, se necessario anche un anno, per trovare tra noi - tra albanesi e serbi - le vie di un accordo, e soltanto in seguito negoziare, duramente, in otto giorni, in presenza degli americani e degli europei". Quando poi si è passati ai bombardamenti, è stato tutt'altro che "saggio", anzi "non molto intelligente", ha aggiunto, dichiarare che la Nato non sarebbe intervenuta con truppe di terra; perché "Milosevic con le bombe ci convive".

Cosa si dovrebbe fare adesso? "Non lo so, risponde. Quando un'azione è stata pensata male, tutto diventa difficile; ma presto o tardi si dovrà pur arrivare a un accordo su una confederazione.

Non c'è altra soluzione". La "confederazione" proposta da Adem Demaci dovrebbe inglobare la Serbia, il Montenegro e il Kosovo, tre paesi che avrebbero le loro forze armate e il loro governo, ma anche "una mini-presidenza e un mini-governo comuni". "I cittadini di questi tre paesi, spiega, avrebbero gli stessi diritti, in particolare quello di circolare, vivere e insediarsi dove meglio credono - in tutta la Confederazione".

"Nessun accordo, insiste, può essere durevole se tiene conto solo degli interessi albanesi. Bisogna pensare che anche gli altri hanno i loro interessi da difendere. I serbi, dice, vedono nel kosovo la loro culla, la loro Gerusalemme. Noi facciamo notare che rappresentiamo il 90% della popolazione - e anche questo è un argomento. I nostri vicini - soprattutto la Macedonia- non vogliono una Grande Albania, ne hanno paura. Quanto agli europei, temono che l'indipendenza del Kosovo preluda a una destabilizzazione dei Balcani. Di tutto questo bisogna tener conto. Altrimenti non si arriverà mai a nulla".

Strano. L'uomo che aveva rifiutato di andare a Rambouillet perché l'Uck accettava di avallare in quella sede la permanenza del Kosovo entro i confini serbi, l'"estremista", l'uomo che aveva tenuto testa ai diplomatici occidentali: quest'uomo sta usando il linguaggio di uno statista. Formula un obiettivo, fa un'analisi chiara, realista. Non crede allora che alcuni tra i serbi gli stiano gettando una fune? Che siano alla ricerca di un interlocutore? Forse è per questo che gli hanno consentito di incontrare un giornalista?

"No, nient'affatto - risponde - Sanno benissimo ciò che penso, e non sono affatto disposti a discuterne". Forse in seguito? "Si vedrà", dice, e di punto in bianco mi chiede: "Avrebbe un po' di tempo per visitare Pristina con me?".

I miei angeli custodi ci hanno seguiti. Hanno fatto con noi quella visita. Siamo penetrati insieme nelle case albanesi sventrate.

Adem Demaci sgranava i nomi dei proprietari. Si scivolava sulla paglia, sparsa per attizzare il fuoco. In un oggetto informe, carbonizzato, Demaci ha riconosciuto l'ombrello di un suo amico. Abbiamo dovuto rinunciare a entrare in una villa di proprietà di uno scrittore: materassi sventrati, poltrone rovesciate, armadi depredati, schegge di vetro, lampadari in frantumi sbarravano la strada. Chi ha fatto questo? La polizia? Adem Demaci mi guarda senza dir nulla.

Erano in uniforme? Dopo un silenzio, aggiunge solo: "e armati".

Avevano ricevuto ordini? "Non lo posso credere" risponde. Non lo crede, o non lo può credere? Risposta: "Non posso crederlo perché sarebbe troppo grave". Non dirà altro. Adem Demaci vive in una città in mano ai serbi. Se fosse uscito dall'ambiguità, sarebbe stato a suo esclusivo danno.

Davanti a casa sua ci siamo scambiati gli indirizzi. Nel suo, la via aveva due nomi: uno albanese, quello vecchio, e il nome nuovo, serbo. Niente commenti. Bastava questo a riassumere tutto. Ma quando ho mostrato questi due nomi della stessa via a un responsabile serbo, è sbiancato.

Parlavamo una specie di sabir slavo, e lui, staccando le parole perché riuscissi a comprenderlo, ha ribattuto: "E se le dicessi che anche loro hanno cambiato i nomi delle strade, nell'altro senso, quando con l'autonomia hanno avuto tutti i poteri?". Si era scaldato. "Venga con me! Anch'io ho qualcosa da farle vedere". Era quasi sera quando ci siamo ritrovati a pochi passi dalla casa dello scrittore. Si è fermato di botto tra due facciate basse. "Guardi da quella parte, a sinistra: è là che si sono appostati, quelli dell'Uck. E' successo quattro giorni prima che iniziassero i bombardamenti.

Quattro dei nostri ci sono rimasti. Tutti amici miei". In lontananza si sentivano cadere le bombe, come sempre. Quella era forse la sua parte di verità. Forse, ma ora che importa? La Nato non può più perdere.

 
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