Alla cortese attenzione di Ferdinando Riccardi
Editore dell'Agence Europe
Roma-Bruxelles, 25 giugno 1999
Caro Editore,
sono rimasto davvero sorpreso leggendo il suo editoriale del 23 giugno scorso sulla questione dell'allargamento nel quale, insieme ad Emma Bonino e a Daniel Gros, vengo bollato come demagogo per avere sostenuto che l'unica politica seria nei confronti dei Balcani in generale, dell'Albania e della Macedonia in particolare, non può che fondarsi e incentrarsi su un progetto mirante ad una loro piena e rapida adesione all'Unione.
Secondo Lei si tratterebbe niente di meno che di un "idea aberrante", "superficiale" "della quale non si dovrebbe nemmeno parlare". Molto più per l'importanza dell'argomento che per la pesantezza delle accuse, mi permetto di ritornare a ribadire la nostra posizione in materia.
Intanto con un po' di storia. Già nel 1983, al Parlamento europeo, Marco Pannella invitava le autorità dell'allora Jugoslavia a presentare una formale domanda di adesione alle autorità dell'allora Comunità europea e invitava quest'ultime a manifestare alle autorità di Belgrado la loro intenzione di accogliere positivamente una eventuale tale domanda. Per noi, già in quei tempi, un processo di integrazione della Jugoslavia alla Comunità europea costituiva l'unico luogo e allo stesso tempo l'unica "metodologia" che avrebbe consentito di affrontare in maniera pacifica e democratica le enormi contradizioni di quel paese.
Allora - come oggi - fummo bollati come "i soliti irrealisti", come "i soliti provocatori". Allora, come rischia di accadere oggi, prevalse la "ragionevolezza" della Commissione e degli Stati membri. Una ragionevolezza che, con la Commissione Delors, trovò la sua massima espressione e espansione con interventi annui miliardari (in ecu, non in lire) della Comunità nella Jugoslavia e con un pieno sostegno politico al governo di Ante Markovic. Ovviamente, né allora (malgrado le nostre continue richieste), né tanto meno oggi, la Commissione e il Consiglio hanno mai pensato di dover rendere conto dell'utilizzo a fondo - letteralmente - perduto, tanto economicamente che politicamente, di un ammontare cosi ingente di soldi dei contribuenti europei.
Questa proposta la sostenemmo al Parlamento europeo, con interventi, interrogazioni, lettere. Con conferenze e manifestazioni in varie città della Comunità come della Jugoslavia. Con decine di assemblee, tenute, in quei tempi "non sospetti", nella stessa Jugoslavia. Con, nel 1986, la distribuzione nelle strade e nelle caselle postali di Zagabria, di Spalato, di Sebenico, di Belgrado, ... di decine di migliaia di volantini del Partito Radicale a favore dell'adesione rapidadella Jugoslavia, e un vivo e bel ricordo di alcuni giorni passati nelle galere dell'antica città di Dubrovnik... Con l'esposizione, nel 1987, di un gigantesco striscione inneggiante all'adesione della Jugoslavia nello stadio di Spalato durante una storica partita di calcio Italia-Jugoslavia. Con interventi nei mass media, quando abbiamo potuto o meglio, quando hanno voluto darci spazio: spesso nell'allora Jugoslavia, raramente dalle nostri parti. Con una infinità di comunicati stampa che, non di rado, hanno trovato spazio nella sola "Agence
Europe".
Allora, non diversamente da oggi, dicevamo che quel che era allora fondamentale per la Jugoslavia, come lo è oggi per l'insieme dei paesi balcanici, era una prospettiva politica europea chiara e tempificata. Dicevamo che solamente in un tale quadro si sarebbero potuto evitare le derive isolazioniste, nazionaliste, "mafiose" di vario tipo o, peggio, come nel caso della Serbia, nazional-comuniste.
Nient'affatto quindi una volontà di dare lezioni a chicchessia. Ma una applicazione alla Jugoslavia della nostra e spinelliana lettura dell'Europa: l'inadeguatezza degli stati nazionali europei ad affrontare le grandi questioni economiche, sociali, ambientali e politiche del nostro tempo. L'inadeguatezza della Francia, della Germania, ..., e quindi anche della Jugoslavia e, a maggiore ragione ancora oggi, dell'Albania, della Croazia, della Macedonia...
La questione non è quindi, come Lei sostiene, quella di ottenere un superamento per cosi dire preliminare dei rancori, degli odi, della violenza. Con quali criteri poi ? Quelli delle professioni di fede ? Di esami da passare ? E con noi, dell'Unione, nel ruolo dei professori e degli esaminatori ?
Sono profondamente convinto invece che l'adesione ad una prospettiva, ad un progetto chiaro e tempificato di piena integrazione all'Unione, a partire ovviamente da scelte democratiche e di stato di diritto già in corso di incardinamento nel paese candidato, costituisca l'unico strumento adeguato per garantire e accelerare il radicamento della democrazia, un sano sviluppo economico e, soprattutto, per creare le condizioni di un vero e durevole superamento degli storici antagonismi balcanici. E' stato del resto lo stesso tipo di processo, contrariamente a quanto Lei sostiene, che ha favorito il superamento degli storici antagonismi dei 6 paesi fondatori della Comunità. Antagonismi tutt'altro che superato nel 1955 come del resto dimostrato dall'atteggiamento, un esempio fra tanti altri, di un Mitterrand nel 1989 di fronte alla riunificazione tedesca, o dello stesso nel 1991 di fronte all'aggressione del regime di Milosevic alla Slovenia e alla Croazia.
L'alternativa, la sua, quella oggi dei Van den Broek, dei Prodi, dei Patti di Stabilità, quella di dieci anni fa dei Delors e dei Markovic, quella ormai da anni perseguita dall'Unione europea nei confronti della Russia, è, mi dispiace, una alternativa fallimentare che ha provocato, come dimostrato nella Jugoslavia e, di già in Russia, un enorme spreco di soldi dei contribuenti europei, un sostanziale rafforzamento e rilancio delle burocrazie locali, un ulteriore impoverimento del rimanente tessutoeconomico locale, un arricchimento gigantesco di mafie locali, europee e internazionali e un conseguente aumento dei rancori e delle frustrazioni delle popolazioni locali. Un approccio che può essere definito, nel migliore dei casi, economicistico, nel peggiore affaristico.
Quanto ai rischi che l'Unione europea si trasformi in una vasta zona di libero scambio, certamente esistono. Ma sono largamente insiti nell'attuale Unione. E, in primo luogo, nelle varie Farnesina, Quai d'Orsay, Foreign Office, le uniche burocrazie nazionali che, in 45 anni di processo di integrazione europea, non abbiano mai ceduto un'oncia delle proprie competenze e prerogative, per non parlare dei loro privilegi. Anzi, man mano che si procedeva al trasferimento a Bruxelles di competenze nazionali sempre più estese in tutti i settori, salvo il loro, queste burocrazie, non ultimo attraverso la loro onnipresenza nel Consiglio Affari Generali e nel Consiglio in generale, sono diventate delle roccaforti quasi inespugnabili, in grado di condizionare l'intera vita dell'Unione. Con buona pace degli europeisti di ogni colore. Ma non di certo dei federalisti europei quali siamo.
RingraziandoLa per l'attenzione e scusandomi per la lunghezza,
Con immutata stima,
Olivier Dupuis