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Partito Radicale Centro Radicale - 20 settembre 1999
Liberal/Intervista a Milton Friedman

IO, L'ANTIKEYNES

di Paolo Mastrolilli

Liberal, 16 settembre 1999

LA GLOBALIZZAZIONE NON ESISTE. Oppure, se preferite, è sempre esistita. Quindi sarebbe ora di mettere da parte tutti questi discorsi su come governarla, e sulla nuova architettura mondiale dell'economia. Lasciamo lavorare il mercato, e le cose si metteranno per il verso giusto . Milton Friedman ha deciso di chiudere il secolo con una provocazione, sorridendo dell'affanno con cui alcuni suoi colleghi, e alcuni politici, cercano di mettere le briglie a un animale che per definizione non può essere domato. La storia di Friedman è un po' la storia del secolo che va a finire. Milton infatti nacque il 31 luglio del 1912 a Brooklyn, da genitori ebrei fuggiti negli Stati Uniti. Oggi il loro Paese di origine si chiama Berehovo e sta in Ucraina, ma durante la sua esistenza ha cambiato padrone secondo i capricci della storia, finendo dalle mani dei nazisti a quelle dei sovietici. É un caso, secondo Friedman, che quella terra straziata e contesa abbia potuto consentire a un suo figlio di diventare l'economista più influ

ente della nostra epoca, come fu un caso il suo incontro con la moglie Rose, ebrea scappata dalla Russia dopo un avventuroso passaggio in Polonia. Milton è anche uno dei molti esempi attraverso cui si racconta il sogno americano. Infatti a Brooklyn, poi in New Jersey, il padre si arrangiava con un negozietto. E quando Milton riu-sci ad arrivare alla Rutgers University, dovette accettare un posto da cameriere in un ristorante per riuscire a far quadrare i conti alla fine del mese. Quello studente cameriere sarebbe riuscito a prendere il dottorato alla Columbia University di New York e poi all'Università di Chicago, vincere il premio Nobel per l'economia nel 1976, e diventare il consigliere di due presidenti degli Stati Uniti, Nixon e Reagan, e di parecchi altri capi di governo in giro per il mondo.

Qualche mese fa il Washington Post ha pubblicato un editoriale in cui diceva che questo secolo, cominciato sotto l'influenza economica di John Maynard Keynes, si chiude sotto quella di Milton Friedman. Si sente davvero il trionfatore del secolo, sul piano economico?

Nella retorica forse, ma nella pratica no. Durante gli ultimi anni c'è stato un grande spostamento nei toni del dibattito, e tutti sembrano essere favorevoli a ridurre le dimensioni dello Stato, lasciare il mercato libero di agire, e usare la quantità di moneta circolante come strumento per accelerare o frenare l'economia. Ma sono chiacchiere. La sostanza degli atti dei governi è ben diversa, e lo dimostrano Paesi come il Giappone, dove i politici lanciano una politica keynesiana dopo l'altra. Anche in America, del resto, la vittoria è solo retorica. Le dimensioni dello Stato, infatti, sono aumentate durante gli ultimi anni.

Il successo del friedmanismo allora è un falso storico?

Per influenzare davvero il comportamento dei governi serve tempo, e il processo di trasformazione viene messo in moto prima di tutto dai cambiamenti nella retorica. Il socialismo, per esempio, dominava il dibattito economico europeo già all'inizio di questo secolo, quando venne fondata la Fabian Society. Ma le prime forme di socialismo pratico, Urss a parte, le abbiamo viste comparire in Gran Bretagna soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sono serviti quasi 50 anni, prima che la retorica si trasformasse in azione. Lo spostamento della discussione verso i temi che io ho sempre sostenuto è cominciato con la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Urss: da allora sono passati solo dieci anni.

Durante la Grande Depressione lei era un ragazzo che cominciava la carriera universitaria. Poi però ha avuto la possibilità di studiare l'evento economico più traumatico del secolo, e ha dato la colpa soprattutto alla Federal Reserve, incapace di usare bene gli strumenti della politica monetaria. Altri analisti, però, accusano non la Fed ma i limiti generali del capitalismo.

Questo dibattito conferma il fatto che certe idee non sono ancora state digerite completamente. Negli anni Tren-ta, gli economisti erano convinti che la politica monetaria fosse come un laccio: potevi usarlo per stringere e frenare, ma non per spingere e accelerare. La Federal Reserve strozzò la circolazione della moneta, e in questo modo contribuì a rendere drammatica la crisi. Oggi molti hanno capito che la politica monetaria si può usare non solo per frenare l'inflazione, ma anche per alimentare i consumi e la crescita. Nella pratica, però, c'è ancora chi non accetta questo consiglio. La dimostrazione più lampante è quella del Giappone, che dopo aver dato l'impressione di essere pronto a dominare il mondo, è precipitato in una crisi lunga anni, capace di danneggiare un'intera regione del mondo. Le banche giapponesi sanno benissimo cosa dovrebbero fare per stimolare la circolazione della moneta, accettando un momentaneo aumento dei prezzi in cambio della ripresa economica. Però non si fidano e stanno ferme

, affidandosi piuttosto alle politiche keynesiane del governo. Il risultato è che Tokyo da anni non riesce a rialzare la testa.

Lei stesso, però, ha avuto bisogno di tempo per convincersi. Nel 1942 rese davanti al Congresso una testimonianza sulle condizioni dell'economia degli Stati Uniti che era piena di riferimenti keynesiani, e non c'era neppure una riga dedicata all'ìmportanza della moneta. Quando e come è avvenuta la conversione?

La conversione in realtà non c'è mai stata. La trasformazione delle mie idee non è accaduta di colpo. Alla fine degli anni Cinquanta, però, la mia posizione era già chiara, e il libro Capitalism and freedom che pubblicai nel 1962 racchiude già l'essenza delle mie teorie. Quanto a quella testimonianza del 1942, probabilmente riflettevo il clima culturale di quell'epoca. Allora non avevo fatto abbastanza lavoro per muovermi verso i miei nuovi indirizzi.

Durante gli anni Sessanta cominciò il suo coinvolgimento nella politica, con la collaborazione alla campagna elettorale di Barry Goldwater. Il suo ingresso nello Studio Ovale della Casa Bianca, però, lo fece con Richard Nixon.

Il primo incontro con Nixon lo ebbi quando era ancora presidente Eisenhower. Allen Wallis, un mio amico, era l'assistente speciale del capo della Casa Bianca, incaricato di lavorare con la Commissione per la stabilità dei prezzi e la crescita economica, guidata proprio dall'allora vicepresidente Nixon. Nixon sembrava una persona intelligente e personalmente gradevole. In quegli stessi anni lui sviluppò un rapporto di grande stima con Arthur Burns, mio ex professore, capo del Consiglio economico di Eisenhower. Quando nel 1968 Nixon lanciò la sua campagna presidenziale, chiese a Burns di guidare un gruppo che avrebbe dovuto consigliarlo sul piano economico. Burns mi reclutò. In questo modo cominciò la mia collaborazione diretta con Nixon.

All'inizio sembrava una prospettiva interessante.

Senza dubbio. Ma purtroppo mi dovetti ricredere abbastanza presto. Dopo la vittoria nelle presidenziali, presentai a Nixon una »Proposta per risolvere il problema della bilancia dei pagamenti americana , in cui suggerivo di approfittare dei primi giorni della nuova amministrazione per lasciar fluttuare il dollaro e liberarlo dal Gold Standard, ossia l'impegno a convertire la moneta americana in oro al prezzo fisso di 35 dollari per oncia. Nixon non mi diede ascolto. Ma poco tempo dopo, la richiesta britannica di rispettare il Gold Standard lo mise con le spalle al muro. Quindi il 15 agosto del 1971, in condizioni ben più avverse di quando io gli avevo suggerito di agire, il presidente dovette cedere.

C'è qualcosa che salva di quegli anni passati alla Casa Bianca?

Il progetto di cui sono più orgoglioso è quello che portò alla fine della leva militare e alla costituzione di un esercito di professionisti. lo ero assolutamente contrario alla leva, perché la consideravo una privazione del diritto di scelta del cittadino. Suggerii a Nixon di eliminarla, e lui costituì una commissione per studiare il problema. In genere queste commissioni finiscono nel nulla. La guerra del Vietnam, però, aveva reso troppo importante la questione della leva, e quindi noi riuscimmo a portare a termine il nostro lavoro. Lo scambio più acceso lo ebbi proprio con il generale Westmoreland, comandante supremo delle truppe americane in Indocina. Durante una testimonianza disse che era contrario al nostro progetto, perché non voleva comandare un'armata di mercenari. Io lo interruppi, e gli chiesi se preferiva comandare un'armata di schiavi. Lui rispose che non voleva sentir apostrofare i nostri patriottici soldati precettati come schiavi, e io ribattei che non volevo sentir apostrofare i nostri patr

iottici volontari come mercenari. Il 27 gennaio del 1973 la leva venne abolita, e gli Stati Uniti scelsero un esercito professionista.

Nel 1973 il Washington Post cominciava a fare le prime rivelazioni sullo scandalo Watergate. Come ha vissuto lei quel dramma nazionale?

Dal mio punto di vista, Nixon ha fatto molto più male al Paese imponendo il controllo dei prezzi e dei salari nel 1971 che non con il Watergate. Quella decisione, infatti, fu presa in contemporanea con l'abolizione del Gold Standard, perché era molto popolare. In sostanza serviva a mascherare la fine della conversione del dollaro, unendola a un provvedimento sbagliato di carattere interno. Sul piano economico era una scelta che danneggiava il Paese. Sul piano politico, invece, mi fece capire che Nixon era pronto a sacrificare il bene pubblico per garantire il suo vantaggio personale. Un altro episodio simile era avvenuto nel 1971, durante un incontro nello Studio Ovale. Da tempo il presidente stava facendo pressioni su Burns, affinché la Federal Reserve abbassasse più rapidamente il costo del denaro. Le elezioni del 1972 infatti si stavano avvicinando, e Nixon voleva che l'economia cominciasse a espandersi più velocemente, per favorire la sua vittoria. Io gli feci notare che un drastico aumento della moneta

in circolazione avrebbe provocato un forte rialzo dell'inflazione. Lui mi rispose: ci preoccuperemo di questo problema quando arriverà.

Ha avuto un chiarimento con Nixon, dopo il Watergate?

Io ero un netto sostenitore di Nixon nel 1968, e un po' meno nel 1972, anche se lo votai lo stesso. A questo punto devo confessare di non essere sicuro che quel sostegno fosse giustificato. Pochi presidenti avevano dimostrato tanta intelligenza, e pochi erano arrivati così vicini alla mia idea di gestione del governo: i risultati però sono stati molto inferiori alla retorica. In teoria Nixon era favorevole a uno Stato più leggero e meno intrusivo, ma alla fine del suo mandato la spesa pubblica era rimasta invariata. L'esplosione della nuova attività regolativa del governo ha avuto la sua origine proprio durante la sua amministrazione, e fra il 1968 e il 1974 il numero delle pagine dei regolamenti federali crebbe da 20 mila a 46 mila. La sua eredità è complessa come la sua personalità. Era un uomo quasi timido, eppure visse tutta la sua esistenza in pubblico. Era ambizioso e pronto a sacrificare i suoi principi per ottenere vantaggi politici, ma sulla scena internazionale fu capace di decisioni molto coraggio

se. Io non sono mai riuscito a unirmi al gruppo di chi odia Nixon.

Nel 1975 avvenne un altro episodio controverso della sua carriera: il viaggio nel Cile di Pinochet.

lo non sono mai stato un consigliere di Pinochet e della sua giunta, e non condivido i sistemi autoritari che utilizzò. Il mio coinvolgimento con il Cile si limita ad una visita di sei giorni, che feci nel marzo del 1975, su invito di un'organizzazione privata che si chiamava il Banco Hipotecario. Andai lì, feci alcune conferenze, e poi ebbi un solo incontro con Pinochet e alcuni membri del suo governo. Lui mi chiese di dargli dei suggerimenti per risolvere i problemi economici del Cile, e io gli spedii una nota. Tutto qui.

E la vicenda dei famosi »Chicago Boys ?

Da molti anni l'università di Chicago aveva un programma di scambi culturali con l'università Cattolica del Cile. Alcuni studenti cileni che avevano seguito le mie lezioni ricevettero importanti incarichi nel governo, e di fatto scrissero il programma per il risanamento del Paese. Sul piano economico io condivido i provvedimenti che proposero, ma non ero io a gestirli.

Se potesse tornare indietro, non eviterebbe di dare consigli a Pinochet?

Assolutamente no. lo faccio l'economista, e considero la mia professione un'attività tecnica, come quella del medico. Se Pinochet avesse chiamato un dottore perché stava male, il medico non si sarebbe potuto rifiutare di curarlo. lo non condividevo i metodi autoritari della giunta. Questo però non significa che avrei dovuto negare dei suggerimenti tecnici a un Paese in difficoltà. In due occasioni, io sono stato ospite anche del governo cinese, e mi sono incontrato di persona con il segretario del Partito comunista, Zhao Ziyang. Credo che nessuno possa accusarmi di essere comunista, e sono contrario alle privazioni della libertà imposte dal governo di Pechino. Però come tecnico diedi i miei consigli anche ai cinesi, e per ironia della sorte erano esattamente gli stessi che avevo suggerito a Pinochet: fermare l'inflazione controllando il flusso della moneta, liberare i prezzi, privatizzare le attività economiche dello Stato, ed eliminare i controlli sul cambio.

Ma aiutare un regime che priva i cittadini della loro libertà non significa essere complice?

Direi di no, ma comunque guardiamo al problema nel lungo termine. Secondo me il governo di Allende stava trasformando il Cile in un Paese comunista, e questo avrebbe provocato il collasso economico, con gravi conseguenze per la popolazione. Pinochet ha usato dei metodi che non condivido, ma ora non è più al potere. Il Cile invece ha un'economia solida, e questo è un vantaggio per tutti. Non è un vantaggio che bilancia le sofferenze di chi ha perso la vita, ma è un fattore da considerare.

Pinochet dovrebbe essere processato da un tribunale internazionale, oppure no?

L'arresto di Pinochet in Gran Bretagna è sbagliato, a meno che non siamo pronti a processare anche personaggi come Castro.

Nel 1976, il Nobel per l'economia. E quando le comunicarono che aveva ottenuto il più prestigioso riconoscimento intellettuale del mondo, lei rispose che non considerava il Nobel come il picco della sua carriera.

Non volevo diminuire il premio. Volevo dire che se avessi dovuto nominare un gruppo di persone a cui far valutare il lavoro della mia esistenza, probabilmente non avrei scelto quelle che formavano la commissione del Nobel. Non è una mancanza di rispetto, ma le persone che assegnano il premio non possono essere le migliori al mondo nel giudizio della medicina, della fisica, e della chimica.

Quindi il Nobel è sopravvalutato?

É visto in maniera distorta. Chiunque lo vince diventa un esperto autorizzato ad aprire bocca praticamente su tutto. Onestamente, un'esagerazione.

Come ha ricordato, in passato il governo cinese l'ha invitata a suggerire soluzioni per lo sviluppo economico della Repubblica Popolare. Pechino seguirà la stessa strada di Mosca, abbandonando il comunismo?

La situazione è differente, perché le autorità cinesi hanno avviato da tempo una cauta trasformazione, che punta a potenziare l'economia, senza mettere in discussione il sistema politico. Temo che il controllo autoritario da parte del governo continuerà.

La Cina, con i suoi tassi di cambio controllati dal governo, è riuscita a tenersi fuori dalla crisi che ha colpito l'Asia due anni fa. In pochi mesi, però, la malattia ha contagiato anche la Russia e il Brasile. Chi ha la responsabilità di queste crisi, e come si possono prevenire rischi del genere in futuro?

Le colpe delle crisi ricadono sui singoli Paesi colpiti, che hanno adottato politiche economiche irresponsabili. Quindi anche la soluzione sta nelle mani dei singoli Stati: nessun aiuto esterno li può salvare, se i loro governi non prenderanno i provvedimenti giusti che ormai tutti conoscono.

E Washíngton cosa dovrebbe fare?

Gli Stati Uniti naturalmente sono interessati a una ripresa dell'Asia. Però una crisi come quella esplosa due anni fa non si trasmette automaticamente all'America, anche se fa rallentare qualche settore della nostra economia. Una grossa parte della colpa, invece, ricade soprattutto sul Fondo monetario internazionale.

Lei ha detto molte volte che, dopo l'annullamento del Gold Standard deciso da Nixon, il sistema creato a Bretton Woods non aveva più ragione di esistere, e quindi l'Fmi avrebbe dovuto chiudere.

L'Fmi ha fatto solo danni. Dopo la fine del Gold Standard, infatti, il Fondo si è inventato una nuova missione come dispensatore di prestiti di emergenza. In questo modo, però, è diventato il principale incentivo per la speculazione e l'azzardo. In Asia, per esempio, le banche e gli investitori più spregiudicati hanno fatto una serie di operazioni ad alto rischio, perché tanto sapevano che, se le cose fossero andate male, l'Fmi le avrebbe salvate restituendo loro i soldi. In pratica, il Fondo è diventato l'assicuratore gratuito della speculazione. I suoi prestiti ai Paesi in difficoltà, infatti, servono principalmente a ripagare i debiti contratti con gli investitori stranieri, che quindi sono incoraggiati a rischiare perché sanno di poter contare su questa rete di protezione. Se non ci fosse l'Fmi a garantire i loro azzardi, gli investitori userebbero più prudenza.

Lei dunque non crede che la globalizzazione abbia bisogno di una nuova architettura finanziaria internazionale, per governarla e per evitare i rischi che comporta?

La globalizzazione è un falso problema. Non esiste, oppure è sempre esistita: scegliete voi la formula che preferite. Certo, oggi ci sono dei sistemi di comunicazione e di trasporto molto più veloci del passato, e questo incide sull'andamento dell'economia. Però l'Italia, per fare un esempio, commercia con tutto il mondo dai tempi dell'Impero romano. Gli scambi a livello mondiale sono sempre esistiti, e la loro accelerazione non muta la sostanza della questione. Bisogna lasciare che il mercato trovi le soluzioni per i suoi problemi, e se lo lasceremo libero di funzionare le troverà.

Un importante soggetto delle nuova economia globale è sicuramente l'Uníone Europea. Cosa pensa della moneta unica?

Io non sono mai stato un sostenitore dell'euro, che considero come un grande gioco d'azzardo. Ma se l'Europa sarà fortunata, potrebbero trarne dei vantaggi utili anche agli Stati Uniti.

Perché la moneta unica sarebbe un gioco d'azzardo?

In pratica, entrando nell'euro, i Paesi membri hanno deciso di rinunciare ai meccanismi di aggiustamento disponibili fino a ieri, che servivano molto quando i fenomeni economici e politici interessavano i vari Stati in modo diverso. Facciamo l'esempio dell'unificazione della Germania. Quel processo è costato molto caro a Bonn, e tutti i Paesi che avevano le loro monete ancorate al marco hanno sofferto. Italia e Gran Bretagna, invece, hanno lasciato fluttuare le loro divise, superando molto meglio degli altri la situazione di crisi. Con la moneta unica questa autonomia non esiste più. Quindi se avverranno nuovi shock, tutti verranno colpiti allo stesso modo, senza possibilità di scampo.

Non esistono altri strumenti per ripararsi dalle possibili crisi?

Se congeli il meccanismo di aggiustamento dei cambi, l'alternativa per rispondere a una situazione di crisi diventa avere una grande flessibilità dei prezzi, dei salari, e delle regole per le assunzioni e i licenziamenti. Nessun Paese europeo mi sembra in possesso di questi strumenti.

Ma Paesi come l'Italia non avevano comunque bisogno di uno stimolo esterno per diventare un po' più virtuosi?

L'Italia ha fatto un grande lavoro per entrare nell'euro, e forse la moneta unica spingerà tutti a una maggiore responsabilità e flessibilità. Ora però l'interrogativo è quanti di questi progressi sono veri, e quanti invece stanno solo sulla carta. Comunque Roma, se vuole riuscire a restare nella moneta unica, deve fare obbligatoriamente due cose: rendere più flessibile la sua politica dei prezzi e dei salari, e alleggerire il peso dello Stato.

Lei però ha detto che l'euro potrebbe portare anche dei vantaggi. Quali sono?

Un'Unione politica europea è un progetto nobile. Però non credo che la strada giusta per ottenere l'unione politica sia realizzare prima quella monetaria. Semmai bisognerebbe fare il contrario. Supponiamo che domani avvenga una recessione in qualche Paese membro dell'euro. A quel punto, per difendersi, l'Italia potrebbe avere bisogno di una politica economica diversa da quella della Germania. Roma però non avrà più una banca centrale autonoma, in grado di mettere in pratica questa politica. Dunque l'Italia si troverà davanti a due scelte: o accetterà di soffrire in silenzio,o farà saltare l'Unione, avviandol'impossibile meccanismo

per uscire dalla moneta unica. Situazioni del genere potrebbero provocare gravi contrasti, facendo correre proprio i rischi generali che l'euro vorrebbe prevenire.

E l'economia americana invece continuerà a tirare ai ritmi attuali?

La Borsa è sicuramente sopravvalutata. In generale, io credo che in questo momento il flusso di moneta negli Stati Uniti sia eccessivo, e ci espone al rischio di un ritorno dell'inflazione. Una situazione del genere dovrebbe avere comunque delle conseguenze per i mercati, tanto se la Federal Reserve tornerà ad alzare i tassi, quanto se resterà ferma.

Il presidente Clinton si vanta spesso di aver creato milioni di posti di lavoro: il merito è davvero del capo della Casa Bianca?

Il merito è della situazione politica, perché abbiamo un presidente democratico e un Congresso a maggioranza repubblicana. Questo ha impedito a Clinton di far passare le sue leggi, e quindi ha consentito all'economia di svilupparsi in libertà.

In questi anni, peró, è stato raggiunto il pareggio del bilancio. Di chi il merito?

Dello scontro avvenuto fra il Congresso repubblicano e il pre- sidente democratico, che nel 1995 portò al blocco delle attività dello Stato. Questa paralisi legislativa ha impedito ai politici di spendere i soldi del surplus, che poi in realtà non esistono, perché se togliamo i fondi necessari a salvare il sistema pensionistico dalla bancarottà non resta nulla. L'altro elemento che ha consentito di raggiungere il pareggio del bilancio, poi, è un sistema fiscale ingiusto, dove se il reddito di un americano sale del 10%, la quantità di tasse da pagare aumenta molto di più.

Lei sarebbe favorevole alla flat tax del 15%, ossia una tassa unica uguale per tutti, come propone il miliardario e candidato presidenziale repubblicano Steve Forbes?

Sarebbe una buona cosa, ma non riusciremo mai ad averla, perché il sistema fiscale attuale serve ai politici per finanziarsi.

Una battaglia che lei conduce da oltre quarant'anni è quella per la scelta nel campo dell'istruzione. Perché, secondo lei, lo Stato dovrebbe finanziare la scuola privata?

Lo Stato non dovrebbe finanziare la scuola privata, ma il diritto dei genitori di decidere dove mandare i loro figli. E lo dovrebbe fare perché l'attuale sistema educativo americano è il più ingiusto al mondo: non c'è altro settore in cui i poveri e le minoranze siano più penalizzati. Chi ha i soldi, infatti, può scegliere quale istruzione ricevere, facilitando il proprio successo nella vita. Chi non li ha invece si deve accontentare dell'offerta pubblica esistente, e in questo modo viene condannato a restare indietro, anche se paga regolarmente la sua quota di tasse allo Stato.

Come dovrebbe avvenire questo finanziamento della scelta dei genitori?

Sono stati discussi vari metodi, dalle detrazioni fiscali ai vouchers. Io preferisco i vouchers, perché sono contrario all'uso del fisco come strumento per indirizzare le politiche sociali. I vouchers provocherebbero un rilancio della competizione fra le scuole pubbliche e quelle private. La competizione non ha mai fatto male a nessuno, e il suo risultato più probabile sarebbe produrre uno sfor-zo di miglioramento da parte degli istituti pubblici, per riuscire a reggere la concorrenza di quelli privati.

Quali sono gli ostacoli principali per raggiungere questo obiettivo?

lo e mia moglie Rose abbiamo creato una fondazione per promuovere questa causa, e le resistenze principali vengono dal sindacato degli insegnanti delle elementari e delle medie, che non vogliono perdere il loro monopolio sull'istruzione.

Quando lei si iscrisse all'università, l'intellettuale che dominava il campo era John Maynard Keynes: oggi, secondo molti osservatori, lei ha preso il suo posto. Lei, però, ci ha detto che non si considera ancora il vincitore del dibattito economico di questo secolo...

Sul piano delle idee forse sono un vincitore, ma su quello della pratica no. Io non mi considero un conservatore, come molti mi etichettano, perché il conservatore vuole lasciare le cose come stanno. Credo piuttosto di essere un radicale, nel significato originario della parola, che vuol dire andare alla radice dei problemi. Sul piano delle idee, penso di essere andato alla radice dei temi che mi interessavano. Ma sul piano dell'azione dei governi, ci vuole tempo, e bisogna avere pazienza.

 
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