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Partito Radicale Angiolo - 7 ottobre 1999
CHI RICOSTRUIRA' IL KOSSOVO? (4)
Testo di articolo inviato il 15 settembre scorso a "L'Opinione" e non pubblicato. Forse, comunque, interessante.

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Stretto dalla necessità di dover convincere (se non lusingare) un Parlamento non tutto a lui favorevole in soli venticinque minuti, il neo Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, non ha inserito nel suo discorso programmatico (ci pare di aver capito dai resoconti del giornali) né il Kossovo né i Balcani. Nessuna analisi ad hoc e nessuna proposta specifica. Prodi ha invece affrontato (sempre stando ai resoconti della stampa) il più generale tema dell'allargamento dell'Unione, questione da tempo nell'agenda della Commissione e del Parlamento. Al prossimo vertice di Helsinki, in dicembre, gli Stati membri della UE potrebbero o dovrebbero, ha chiesto Prodi, fissare "una data precisa" per l'ingresso dei Paesi candidati che già abbiano compiuto passi significativi nel processo di avvicinamento ed integrazione, "anche se questo, ha chiarito, implicasse la necessità di fissare lunghi periodi transitori per consentire loro di risolvere i problemi economici e sociali ancora aperti". Per quanto riguarda i P

aesi che non potessero staccare il biglietto di ingresso, il neoPresidente ha suggerito di offrir loro, intanto, una "adesione virtuale". Insomma un gesto di buona volontà politica, per ammorbidire le difficoltà tecniche. Una soluzione a mezza strada tra bisogni e rigide norme, che ha fatto sì che un giornale potesse parlare di una "Europa a più gironi", certamente poco credibile e funzionale. MA è possibile far rientrare nella casistica generale, già così parcellizzata, cauta e contorta, anche la questione jugoslava, quella kossovara o, peggio ancora, quella balcanica? A noi pare di no.

Su questa strada neppure si sfiorano le necessità del Kossovo, della Jugoslavia o dei Balcani, che sono assai più urgenti, anzi indilazionabili, per il rischio sempre minaccioso dell'esplosione di nuove crisi violente. Come mai questa nuova "distrazione"? Ci pare sempre più evidente che nei confronti della regione vige ancora, magari inconsciamente, una antica discriminazione, per cui l'Europa guarda alle sue vicende con un distacco e da una lontananza siderali. La discriminazione risale, per alcuni, addirittura all'età carolingia. Nello sforzo di restaurare l'unità europea sulla base dell'alleanza con la Chiesa romana, Carlo Magno sterminò gli Avari, stanziati sul medio corso del Danubio, con una serie decennale di campagne militari. Da quel momento, la regione danubiana e l'Adriatico orientale divennero terra di conquista. Venne di fatto sancita la divisione politica, ma soprattutto culturale ed "etica" tra l'Europa occidentale e l'orientale. Nella divisione giocò anche la questione religiosa, tra Roma e

Bisanzio si aprì una frattura colma solo di odi incolmabili. Alle distanze dell'ortodossia si aggiunsero poi quelle imposte dalla penetrazione mussulmana. Quando nell'ottocento l'Europa tornò ad occuparsene attivamente, lo fece solo in termini di lotta di spartizione e di zone di influenza. I Balcani furono oggetto, e non soggetto, delle attenzioni delle Grandi Potenze. Questa drammatica separatezza fa sì che i linguaggi di Strasburgo e di Bruxelles arrivino in quella regione inficiati da una estraneità irrimediabile.

Sul "Corriere della Sera", analizzando le tematiche relative agli interventi umanitari nel Kossovo o a Timor Est, Angelo Panebianco insiste sull'obbligo che compete strettamente ad ogni governo, nel valutare la loro necessità e opportunità, di tener ferma la distinzione tra "interessi" e "valori". Ammesso che l'intervento umanitario in situazioni così degradate corrisponda alla difesa o alla promozione di "valori", un governo responsabile dovrà decidere solo tenendo conto dei propri "interessi". Lo schematismo tutto di scuola (come ha ammesso poi anche Panebianco) è stato criticato da Adriano Sofri, il quale ha perorato una politica dei "valori" come parte integrante e necessaria di una moderna cultura democratica. Un dibattito alto, molto interessante e da riprendere nei suoi termini generali; ma intanto, a nostro modesto avviso, nessuno dei due, nel considerare ai i casi della Jugoslavia, del Kossovo (o, infine, dei Balcani) ha avvertito che la problematica non è e non può essere italiana (o tedesca, o fra

ncese, ecc.) se non marginalmente, ma deve ormai coinvolgere direttamente anche l'Europa in quanto soggetto autonomo e attivo. Un embrione, uno straccio d'Europa ormai c'è, e non mettere sul piatto della bilancia il suo peso è una dimenticanza madornale, anche in termini di quel realismo politico cui Panebianco fa riferimento. Ahimè, se un intellettuale di quel calibro guarda anche lui all'altra sponda dell'Adriatico come ad una regione di oltrefrontiera sulla quale si devono esercitare, con freddezza chirurgica, i canoni della geopolitica "nazionale", allora vuol dire che da Carlomagno ad oggi non si è fatto un passo avanti. Questa geopolitica può diventare una camicia di Nesso per l'intelligenza creatrice che è matrice di una grande politica, che non sempre si deve fermare al "piede di casa".

E dunque, ancora, ritorna l'inquietante domanda: "Chi ricostruirà il Kossovo?"

 
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