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Conferenza Partito radicale
Partito Radicale Paolo - 7 ottobre 1999
RADICALI-LIBERAlI-NONVIOLENTI

Propongo qui alcuni appunti che prendono spunto - ma soltanto spunto - dal lavoro di preparazione della mia partecipazione ad una conferenza internazionale svoltasi a Mosca a fine settembre. Ma come risultera' evidente dalla lettura, il testo prende anche o soprattutto altre direzioni, in particolare relativamente alla politica dei radicali in Italia, come altrove.

La conferenza e' convocata su di una affermazione, per cui "La nonviolenza e' il futuro dell'umanita'".

E' un auspicio meritevole di attenzione; ma nulla piu' che un auspicio. E in verita', se - violentando Pascal - guardiamo alla realta' seduti sulle spalle del gigante che e' il passato, la storia dell'umanita', tutto potremmo dire, meno che la nonviolenza sia il futuro. Che sia la violenza a prevalere e' semplicemente un fatto. Che prevalga tutt'ora, oggi, sul pianeta, e' constatazione facile, ancorche' troppo semplice.

Tra le persone che hanno nel secolo che sta per concludersi provocato, sono stati artefici di grandi mutamenti sociali, politici, tra coloro che hanno determinato in maniera consistente la direzione della vicenda di intere e vastissime popolazioni, non vi e' dubbio che uno e uno solo e' stato colui di cui la umanita' stessa non deve vergognarsi. Non parlo delle grandi personalita' in generale, ma di coloro che hanno operato, agito politicamente e che in questo hanno mutato il corso delle cose in misura e maniera diretta e assai consistente. Tra questi, soltanto di una persona, in questo secolo, almeno, soltanto di una persona il pianeta puo' non vergognarsi, e questa persona e' Mohandas Gandhi.

E' semplicemente vero, anche se questa constatazione non aiuta affatto le molte decine di milioni di persone che sono state ammazzate da regimi sanguinari, o in nome di ideologie o ideali. Cosi' come non aiuta noi.

Non e' dunque affatto detto che la nonviolenza sia il futuro dell'umanita'. Anche perche' nemmeno il piu' mite e forte, tollerante e dolce sistema teorico fondato sull'amore rimarrebbe se stesso se si facesse potere, se si ergesse a soluzione sistematica e schematica.

Ma nemmeno in India di Gandhi e' rimasta memoria non legata ad agiografia funzionale volta per volta a legittimare il potere di turno. Nella stessa India gandhi e' assai presente come icona, e non come altro. Per il resto, la violenza necessariamente prevale, costantemente prevale, tanto che nello stesso sistema della informazione, nei singoli paesi cosi' come sulle questioni internazionali, ad essere privilegiate sono puntualmente, costantemente le posizioni le idee le proposte che provocano versamenti di sangue.

Questo non significa che in alcune fasi della storia europea non si siano concretizzate esperienze di straordinaria forza ed efficacia, che hanno utilizzato e dato insieme vigore alla metodologia nonviolenta di origine gandhiana.

Per porre un quadro laico di riferimento e' utile premettere una citazione breve dal testo piu' significativo di Martin Luther King, il leader del movimento antisegregazionista americano, che riusci' a prevalere nella sua lotta proprio perche' non si limito' a concepire strategicamente una battaglia antisegregazionista, ma si pose il problema della concretezza e della compiutezza della democrazia americana - come Gandhi in India, peraltro.

King fu ucciso 20 anni dopo Gandhi; eppure la memoria di King e' cancellata quanto quella di Gandhi, e di lui rimane poco piu', in sostanza, che una giornata dedicata a celebrarne ritualmente la memoria, negli Stati Uniti, il terzo lunedi' di gennaio.

Nella sua lettera dal carcere di Birmingham King, li' detenuto per avere condotto una campagna tesa a riformare alcune leggi fondamentali dello stato dell'Alabama, si rivolgeva ai suoi colleghi ministri di culto, pastori o preti o rabbini o... come lui. E affermava un concetto, un concetto che ispirava la sua opera e il suo pensiero, la sua azione: una legge e' ingiusta se viene imposta da una maggioranza ad una minoranza senza che i membri della maggioranza siano tenuti al suo rispetto; una legge e' giusta se viene approvata da una maggioranza e tutti, membri della maggioranza o della minoranza sono tenuti ad attenervisi.

Per King la giustezza di una norma, la sua moralita', il suo dovere essere rispettata non discendono dalla aderenza a valori che trascendono il merito intrinseco della legge, ma dal metodo della legislazione. Una norma e' giusta se e' "legale" il procedimento normativo, se quindi e' certo, e riformabile...

Ancorche' "uomo di Dio", King afferma la legalita' essere la fonte di legittimazione della norma, e non il suo merito, e ancor meno, quindi, il suo aderire a principi superiori, a valori.

A questo potremmo senza arbitrio alcuno aggiungere l'evocazione della qualita' che Gandhi attribuiva al concetto stesso di verita', per cui diceva di se' di non avere mai fatto altro che condurre esperimenti con la verita', senza mai annettere ai risultati di quegli esperimenti nulla piu' di quel che uno scienziato annette a quelli dei suoi esperimenti, privi di definitivita', sempre suscettibili di essere verificati sperimentalmente.

Se e' chiaro questo, e' gia' chiaro molto.

E' quindi del tutto improponibile costruire un sistema ideologico della nonviolenza. Il suo "sistematore" massimo si e' sempre esplicitamente rifiutato di dare sistematicita' ideologica alla forza che pure egli aveva prima di altri scorto e soprattutto messo in pratica.

Se il portato culturalmente piu' forte dell'opera gandhiana e' nella negazione recisa che i mezzi che si pongono in essere per conseguire il fine che ci si pone siano giustificati dal "superiore" fine che ci si propone di conseguire, non vi e' dubbio che ad una metodologia nonviolenta non corrisponde la identificabilita' della nonviolenza come fine. Il portato della nonviolenza in qualche modo si autodifende sul piano logico dal rischio di una sistemazione teorica e ideologica che rechi a individuare un fine" nonviolento, la nonviolenza come fine.

Cosi' come in King (per lui e per Gandhi si parla di conclusioni che derivano dalle azioni, e le stesse conclusioni teoriche sono da entrambi sempre tratte dalla analisi preventiva o successiva del loro agire politico) il fine strategico o tattico della loro politica e' sempre connesso alla conquista di legalita', di nuovo diritto, e contestualmente a fare vivere il principio di legalita', se assente.

E' il Diritto, la legalita', assai piu' che la giustizia, il fine di Gandhi e quello di King.

Nuove norme giuridiche, ma soprattutto affermazione della primazia dell'ambito ordinamentale giuridico.

Che non manchino, tra coloro che si richiamano alla nonviolenza, i fautori del fine ultimo della nonviolenza, e' pure fuor di dubbio; ma e' noto che le egemonie culturali sedimentate per secoli o decenni sono forti e durissime a morire.

Tra queste, pure, la concezione della legge come Verbo di origine trascendente, sovraordinato; per cui, la funzionalita' della pratica nonviolenta alla riconquista o alla instaurazione della legalita' decade al significato di riconquista o instaurazione della giustizia, incarnata in norme assolute, imperativi assoluti - mentre per Gandhi, ed esplicitamente, nemmeno quello del non uccidere era e poteva essere altro che fortissimo imperativo relativo (in Gandhi uccidere e' talvolta non solo moralmente lecito, ma letteralmente nonviolento...).

La continuita' nonviolenta della storia radicale e' quindi relativamente inutile cercare nella altezza e nella qualita' degli obiettivi che i Radicali volta per volta si sono posti.

Che questi abbiano rappresentato la politica piu' "alta", "elevata" moralmente commendevole puo' essere, e probabilmente e', fuori di dubbio. Sciogliere questo dubbio puo' avere il suo interesse, ma aiuta molto relativamente ad individuare il principale elemento distintivo dell'unico soggetto politico che in Europa abbia fatto del metodo nonviolento la sua "strumentazione fondamentale, e il suo connotato primario, in parte importante della seconda meta' del secolo.

Il vero connotato, il vero significante nonviolento della storia radicale non e' soltanto o tanto nelle forme della azione, che sono mutuate dalla tradizione delle lotte nonviolente e insieme, in misura consistente e determinante quella storia, quella tradizione, quella teoria hanno nutrito; e' invece nel rapporto tra mezzi e fini della azione, in due momenti fondamentali:

- la organizzazione non preesiste e non sopravvive alla azione cui e' funzionale, agli scopi per cui e' stata costituita;

- il rapporto tra mezzo e fine e' costante e progressivo, per cui il fine di una azione specifica e' funzionale alla conquista di uno statu quo legale nuovo, ma il dualismo mezzi-fini vive nell'essere il fine di una azione specifica mezzo della piu' ampia azione per l'affermazione del principio - e dell'iter - di legalita' nella societa'.

Questa qualita' della politica radicale e' chiarissima fin dall'inizio. E' fin dall'inizio evidente che l'obiettivo dei radicali e' la affermazione della "legge giusta" nel senso kinghiano. Del metodo e del principio di legalita', prima che della giustezza intrinseca, della intrinseca rispondenza di una legge a valori o principi "superiori" o trascendenti.

La conquista del diritto al divorzio in Italia e' da questo punto di vista assolutamente paradigmatica: non si trattava soltanto di conquistare per gli Italiani un diritto che molti altri ordinamenti assicuravano a cittadini di altri paesi. Si trattava di sconfiggere la normazione legislativa in questioni attinenti alla sfera privata, alla coscienza, alle convinzioni religiose; e si trattava di verificare, di porre in discussione la rispondenza dei voleri della classe politica a quelli dei rappresentati, quindi la legittimita' dei rappresentanti, la fondatezza e la legalita' metodologica stessa delle decisioni della classe politica.

Il divorzio fu introdotto in Italia nel 1970, grazie ad anni di battaglie radicali. Lo schieramento cattolico contrario al divorzio sottopose a referendum abrogativo la legge istitutiva del divorzio stesso, e la maggioranza degli Italiani confermo' invece la legge.

Lo stesso puo' dirsi a proposito della rimozione del divieto di abortire. I radicali raccolsero nel 1975 tra i cittadini italiani il numero di firme necessario perche' fosse indetto un referendum popolare teso alla abrogazione del divieto di abortire. Per evitare il voto popolare furono convocate le elezioni politiche anticipate, e tuttavia nel 1978 si giunse da parte del Parlamento italiano alla approvazione della legge che - pur assai imperfetta - legalizzava l'interruzione volontaria di gravidanza.

Si tratta di iniziative antiche, cui molte altre sono seguite. Eppure il connotato forse primario di quelle battaglie fu nella verifica dell'essere o meno fondata nella maggioranza della societa' l'una o l'altra maggioranza formatasi in seno alle istituzioni parlamentari. Meglio, la verifica piu' dirompente era quella relativa alla divaricazione tra decisioni di una classe politica e di potere sostanzialmente unita e i voleri ampiamente maggioritari nella societa'.

Per quanto forse piu' complesso e articolato - ancorche' niente affatto piu' difficile - da argomentare, lo stesso connotato, e della medesima natura, sorge dalla analisi degli altri momenti della storia radicale. Tanto piu' delle fasi piu' recenti quali quelle del decennio di tentativo di organizzazione transnazionale, con i successi conseguiti o prossimi sul fronte pena di morte e giurisdizione internazionale.

Per cui la continuita' concreta di questa storia sorge e deriva proprio da questo e da questi rapporti tra mezzi e fini della politica.

E questo e' d'altra parte confermato anche da una caratteristica affatto peculiare della politica radicale, che e' nella posizione dominante del leader Pannella.

La durata pluridecennale di una politica radicale, da cui pure e' possibile trarre continuita' ideali, oltre che metodologiche e di metodologia nonviolenta, discende dalla persona del suo leader Pannella, piu' che da costanti ideologiche, di merito. Il merito si identifica fattualmente con il metodo del rapporto tra mezzi e fini, come sopra descritto, come ricerca sperimentale della "verita'" della legalita', del diritto, del metodo della legalita' e del diritto. La continuita' ideale e ideologica si risolve nella durata dei connotati politici. E nella durata del leader Pannella. La dialettica metodo-merito della politica E' dunque "purissimamente" gandhiana, e nessuna continuita' si riscontra se non proprio in questo dualismo e identita' metodo-merito. Cui si coniuga la continuita' di una leadership individuale cui e' connessa la durata della organizzazione politica.

Niente affatto paradossalmente, la storia del partito radicale non puo' prescindere da quella e dalla volonta' del suo leader, pena la negazione del suo vero connotato fondante, quello della nonviolenza politica, e del suo non essere "merito", ma "metodo".

Non e' casuale che nelle stesse formulazioni statutarie del partito radicale sia nettissima fin dall'inizio la soluzione di continuita' rappresentata dal congresso del partito, per cui chi adotta la mozione politica congressuale forma il partito anno per anno, allo scopo di conseguire gli obiettivi fissati dalla mozione stessa. E formando il partito dotandosi di uno strumento politico organizzato, anno per anno.

La continuita' del merito politico viene certo affermata e confermata dalla costantemente rilevabile possibilita' di riconduzione delle varie battaglie radicali a principi liberali, al principio dello stato di diritto; ma con una differenza, la differenza di fondo rispetto alle esperienze politiche che hanno prodotto azione politica come conseguenza della adesione magari collettiva dei partecipi della organizzazione a principi politici. Il processo e' inverso, in questo senso "poetico", cioe' creativo, secondo la derivazione etimologica greca della parola poesia.

E' l'azione che produce nella sua durata e nella continuita' degli elementi nonviolenti e liberali la teoria politica. Non e' un sistema teorico da cui chi vi aderisce fa discendere azione politica, ma e' dalla durata e dalla continuita' della azione politica sperimentale, dalla continuita' e dalla durata degli "esperimenti con la verita'" - cosi' come dall'etica dell'azione, dall'etica di chi l'azione conduce, dall'"etica", pure, dei soggetti organizzati - che puo' essere letta la teoria.

In questo senso non puo' esservi politica liberale senza politica nonviolenta, e non puo' esservi - non vi e' stata - politica nonviolenta che non sia liberale, quanto meno nel senso di essere fondata sulla libera e continuamente verificata adesione individualissima di ciascuno alla azione politica finalizzata al conseguimento di un obiettivo.

Ma su questo punto il discorso si fa diverso, ancorche' forse per certi aspetti piu' interessante e stimolante...

E' il punto del soggetto politico della rivoluzione liberale, il punto del soggetto politico della nonviolenza. Del mezzo, di questo mezzo e del fine. Della loro forza, della loro "etica", della loro legalita'.

Paolo Pietrosanti

 
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