Intervista al Dalai Lama
Dall'Unità(pag. 6), 29 ottobre '99
Di Gabriel Bertinetto
ROMA Una sonora cordiale risata introduce la conversazione. Buon umore e affabilità sono doti che il Dalai Lama produce ad ogni incontro. Ma stavolta l'allegria ha una valenta superiore, esprime un'autentica soddisfazione per gli incontri politici avuti a Roma e per l'iniziativa dei Democratici di sinistra sul Tibet. "Per quello che ho potuto notare, i miei interlocutori sono davvero sinceri ed hanno preso impegni precisi". Tra un nuovo incontro con Walter Veltroni ed un colloquio con il ministro della Cultura Melandri, il leader spirituale tibetano trova tempo per un'intervista con L'Unità.
Se incontrasse domani Jiang Zemin, come pensa di convincerlo che l'autonomia del Tibet favorisce, come lei sostiene, l'unità e la stabilità della Cina? Pechino sembra temere invece che scateni piuttosto una reazione a catena in altre aree del paese.
"Difficile rispondere. Potrei invitarlo a cercare la verità nei fatti, che è poi un modo scientifico di usare il pensiero. Ma basarsi sui fatti autentici e non su aspetti artificiali della realtà. Io capisco che il governo cinese si trovi in una posizione non facile. Ma la causa di ciò sta nei troppi errori commessi in passato. Allora il modo migliore di affrontare la realtà è ammettere i propri sbagli, e poi cercare di percorrere una nuova via per risolvere i problemi. Sbagliare, e poi nascondere gli errori e insistere nell'imporre scelte ingiuste, davvero non aiuterebbe in alcun modo a risolvere le questioni aperte in Cina e in Tibet. Questo gli direi".
Il degrado morale e culturale del Tibet, di cui lei stesso parla, è frutto solo dell'occupazione cinese, o non è anche l'effetto collaterale di un processo di modernizzazione?
"Consideriamo la comunità tibetana in India. Vivono lì da 40 anni, sono assai più esposti, rispetto a coloro che vivono in Tibet, alle esperienze del mondo esterno, molto più a contatto con le opportunità
offerte dallo sviluppo della vita moderna.
Altrettanto potrei dire dei tibetani in Usa o in Svizzera. Eppure il loro livello culturale e morale è assai più alto in confronto ai tibetani di Lhasa. Allora la colpa non è della modernizzazione in sé. Il problema è l'occupazione cinese".
Come si difende dall'accusa cinese di essere espressione di un sistema sociale sorpassato ed arretrato?
"Ripeto spesso che nessun tibetano desidera o sogna restaurare l'antico sistema.
Sin dal 1969 in piena Rivoluzione culturale, dichiarai a Dharamsala che se la maggior parte dei tibetani decidesse che l'istituzione del Dalai Lama non e' più necessaria, io non farei alcuno sforzo per preservarla. Del resto la bozza di Costituzione del futuro del Tibet da noi approvata in esilio nel 1963 sancisce che il potere politico del Dalai Lama può essere abolito se i due terzi dei deputati
votano in quel senso. Ancora più recentemente, nel 1992 annunciai pubblicamente che, quando
giungerà il giorno del ritorno e avremo un sufficiente grado di libertà, rimetterò tutta la mia legittima autorità nelle mani del governo tibetano, e non sarò più capo del governo".
Lei oggi ha visto il Papa. Anche lui ha problemi con la Cina. Ma mentre la Chiesa cattolica chiede libertà di culto, il vostro approccio è anche politico oltre che religioso. Avete trovato un terreno comune di intesa e di iniziativa nei confronti delle autorità cinesi?
"No, non abbiamo parlato di politica. Il nostro colloquio, come già in passato, ha toccato semplicemente temi legati ai valori ed alla spiritualità. E abbiamo rievocato in particolare il precedente incontro ad Assisi. Ecco tutto".
Pechino ha protestato per il suo viaggio in Italia. La porta al dialogo rimane chiusa. Quando si aprirà?
"L'uscio è chiuso da tanto tempo. Non c'è nulla di nuovo nella posizione cinese. Non so cosa accadrà nei mesi futuri. Non vaglio davvero fare previsioni".
I capi della setta Falungong hanno lanciato una campagna di disobbedienza civile in Cina. Può essere una via valida anche per il popolo tibetano?
"Posso solo dire che la disobbedienza civile ebbe successo in India all'epoca del mahatma Gandhi.
Ma il caso indiano ed il nostro sono assolutamente diversi".
In alcune occasioni lei ha detto, come buddista, di sentirsi politicamente inclinato a sinistra. Può spiegarci perché?
"Mi sono spesso definito per metà buddista e per metà
marxista. L'ho detto davanti al Congresso americano. Ed un giorno a Gorbaciov chiesi se concordava
con me nel giudizio che con l'Urss fosse crollato il totalitarismo, non il marxismo. Io penso che i regimi comunisti installatisi in Urss, Cina, Corea del Nord, più che sul marxismo poggiassero su fondamenti nazionalisti. Appresi la dottrina sociale ed economica marxista quando vivevo in Cina, nel 1954. E trovai interessante l'enfasi posta non sul profitto, ma sul suo uso corretto e su di una equa distribuzione delle ricchezze. Dal punto di vista etico è certo preferibile all'obiettivo puramente capitalista dell'arricchimento personale. Dirò di più. Noi buddhisti crediamo nell'autocreazione, i marxisti affermano che l'uomo può forgiare il destino con le sue mani. Loro lo dicono in una prospettiva radicalmente ateista, noi invece crediamo nel Buddha e nella reincarnazione. In qualche modo però noi stessi condividiamo il punto di vista ateo, poiché non accettiamo il concetto della creazione. La nostra idea base è l'autocreazione.