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Partito Radicale Paolo - 2 dicembre 1999
KOSOVO - INFORMAZIONE
inserisco qui e nel testo successivo i due capitoli che completano una inchiesta condotta dalla mailing list notizie est. La prima parte avevo qui inserito giorni fa.

il contenuto di questi testi, per quanto in alcuni passaggi discutibile, e' di sicuro interesse.

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NOTIZIE EST #283 - KOSOVO

26 novembre 1999

=============================

DOSSIER: LE SPECULAZIONI SULLE VITTIME IN KOSOVO

/ 2

a cura di Andrea Ferrario

[Per i link relativi alla documentazione, fare

riferimento alla prima parte, pubblicata ieri]

COME SI COSTRUISCE LA DISINFORMAZIONE

Abbiamo gia' visto nella prima parte di questo

servizio alcuni abili espedienti retorici cui

ricorrono gli unici due articoli ("El Pais" e

"Stratfor") sui quali svariati giornalisti hanno

deciso di lanciare una vera e propria campagna

di disinformazione. Uno degli elementi

fondamentali e' costituito dall'uso strumentale

dei numeri, come quando Pujol afferma: "ci

avevano detto [...] che ci saremmo dovuti

preparare a effettuare piu' di 2.000 autopsie",

senza dire chi l'ha detto. A quanto gia' scritto

va aggiunto che altre cifre citate da Pujol sono

piu' che sospette. Il funzionario spagnolo

afferma: "Ho letto i dati dell'ONU. E

cominciavano con 44.000 morti. Poi si sono

abbassati a 22.000. E ora stanno parlando di

11.000. Aspetto di vedere quale sara' il

conteggio finale", lasciando cosi' intendere che

i morti sarebbero pochissimi. In realta' a una

verifica accurata (mi si perdoni la pedanteria:

il sottoscritto ha effettuato ore di ricerca nel

sito dell'ONU, che contiene tutti i documenti e

i comunicati ufficiali dell'organizzazione,

nonche' su tutti i dispacci pubblicati da fine

marzo in poi da AFP, Reuters, Associated Press e

sugli articoli comparsi nei maggiori quotidiani

internazionali e balcanici) non si trova

assolutamente traccia di dichiarazioni secondo

cui i morti sarebbero stati 44.000 o 22.000 (in

realta', queste due cifre compaiono, ma in

riferimento ai flussi degli espulsi dal Kosovo

in determinate settimane della guerra). Anche in

questo caso, Pujol non da' indicazioni precise

che consentano una verifica dei suoi dati e le

cifre che fornisce sembrano essere frutto della

sua fantasia, come le 2.000 autopsie che ignoti

gli avrebbero detto di prepararsi a fare. In

realta', le uniche cifre riferentisi

esplicitamente alle vittime delle repressioni

serbe formulate da fonti occidentali, prima

della stima delle 10.000 vittime formulata a

giugno, parlavano di circa 4.600 vittime stimate

di uccisioni collettive, cioe' escludendo le

uccisioni singole (secondo dati NATO forniti dal

portavoce del Pentagono Bacon, citato da UPI, 7

maggio 1999) e, alcuni giorni dopo, di

valutazioni, riportate come "minimaliste", di un

numero di 5.000 vittime, sempre solo di

uccisioni collettive (Dipartimento di Stato USA,

citato da UPI, 18 maggio 1999). Anche la

"Stratfor" gioca in maniera molto abile con le

cifre, citandone in quantita', a volte senza che

esse siano in relazione con il tema

dell'articolo, altre volte tacendo fatti

fondamentali. Nel mezzo del suo lungo articolo

l'agenzia pubblica un capitolo intitolato "Le

affermazioni s'ingrandiscono" ("The Claims

Grow") che comincia cosi': "In realta', col

passare dei mesi, le stime di uccisi da una

campagna concertata dai serbi, soprannominata

Operazione Ferro di Cavallo, sono lievitate. In

precedenza, gli esperti hanno sistematicamente

generato delle stime dei morti che sembravano

sobrie e prudenti. Per esempio, prima dello

scoppio della guerra, esperti indipendenti hanno

riportato che circa 2.500 albanesi del Kosovo

sono stati uccisi nella campagnia serba di

pulizia etnica". Ma cosa c'entrano le cifre

precedenti allo scoppio della guerra a fine

marzo, che non hanno nulla a che fare con

l'operazione Ferro di Cavallo? E perche' quelle

relative al periodo precedente dovrebbero essere

stime "sobrie e prudenti", mentre quelle attuali

no? La "Stratfor" non lo dice, ma in compenso

riesce a ingenerare confusione e a fare partire

cosi' un meccanismo di insinuazioni, che

prosegue poco piu' sotto con le dichiarazioni di

Kouchner, come abbiamo visto falsificate

dall'agenzia in maniera mirata, e continua piu'

avanti nel testo con i dati sulle fosse comuni

in cui "non e' stato trovato nulla" e in merito

alle quali la "Stratfor" volontariamente ignora

che erano gia' state accumulate prove di

manomissioni (Ljubenic, Izbica) o esistevano

testimonianze dettagliatissime con nome,

cognome, eta' degli scomparsi e modalita' della

loro uccisione (Pusto Selo). Ma la "Stratfor"

non si limita a questo: in mezzo all'elenco

delle fosse comuni in cui, fino a ora, non sono

stati trovati cadaveri, cita il caso di Klina,

che non e' una fossa comune, ma solo il luogo in

cui secondo numerosi testimoni, 96 albanesi sono

stati separati dalle loro famiglie, costrette ad

abbandonare il villaggio, e diventati

"desaparecidos" ("Los Angeles Times", 8 agosto

1999). Non e' quindi certo strano che non siano

stati trovati.

Ci sono poi i trucchi puramente retorici. Quando

Pujol afferma "i serbi non sono cosi' cattivi

come sono stati dipinti" dice qualcosa che nulla

ha a che fare con quanto accaduto. Non si tratta

qui di "serbi" in generale, ma di uomini ben

precisi, appartenenti alla macchina repressiva

di Belgrado, che hanno perpetrato dei crimini.

Parlando di "serbi", e non di paramilitari,

poliziotti e soldati, Pujol sposta

ingiustificatamente su un'intera nazione il

discorso riguardante crimini precisi commessi da

persone in carne e ossa, per poi assolvere cosi'

indirettamente i diretti perpetratori delle

stragi, o comunque sminuirne le colpe. Se avesse

affermato "i paramilitari e le forze speciali

serbe non sono cosi' cattivi come sono stati

dipinti", avrebbe senz'altro provocato un senso

immediato di repulsione nella maggior parte dei

lettori delle sue dichiarazioni, mandando a

monte l'effetto che evidentemente intendeva

ottenere. Pujol "assolve" ulteriormente (ma

indirettamente, evitando cosi' sempre

accuratamente di assumersi esplicitamente la

responsabilita' di quanto dice) i crimini delle

forze serbe, quando afferma, parlando di Kosovo,

che "nella ex Jugoslavia sono stati commessi

crimini, alcuni senza dubbio orribili, ma

derivavano dalla guerra", cancellando cosi' con

un colpo di spugna la realta' di operazioni

sistematiche e prepianificate di espulsione di

civili dai loro villaggi e dalle loro citta'

(quasi 1 milione "spediti" all'estero in maniera

organizzata, altre centinaia di migliaia

deportati in altre zone del Kosovo, in poco piu'

di un mese), con l'uccisione in ogni luogo di un

numero sufficiente di persone per terrorizzare

la popolazione e rendere piu' rapide le

deportazioni: questa non e' certo guerra e gli

scontri in Kosovo tra forze di Belgrado e la

scarsissima resistenza armata albanese (ma anche

qui il termine "guerra" non e' esatto) si sono

limitati a sacche piu' che sporadiche fin

dall'inizio. Il pezzo della "Stratfor" e'

all'apparenza piu' "neutrale" di Pujol e mira

soprattutto alla manipolazione dei numeri, ma

non si astiene dall'aderire a una tale linea,

come quando chiama le deportazioni "massiccio

movimento di profughi albanesi" o come quando si

lamenta che "i governi hanno fatto pesantemente

affidamento sui resoconti dei profughi che

arrivavano in Albania e in Macedonia". Ci si

domanda qui chi dovrebbe denunciare crimini, se

non le vittime, e ci chiediamo se non saremo

costretti un giorno ad assistere alla richiesta,

da parte di qualcuno, di valutare equamente le

testimonianze di kurdi e timoresi ripuliti dai

loro villaggi insieme a quelle dei generali

turchi e indonesiani loro carnefici.

La macchina di congetture e insinuazioni messa a

punto dai funzionari spagnoli e dalla "Stratfor"

ha sortito l'aspetto sperato. Il 20 ottobre

"L'Unita'", il quotidiano del PDS, pubblicava un

articolo di Paolo Soldini con perentorio titolo

in prima pagina: "Nelle fosse del Kosovo 200

morti", una vera e propria bugia, visto che a

quel momento le decine di rapporti, articoli,

testimonianze e documenti pubblicati, parlavano

comunque di una cifra gia' ampiamente superiore

ai 1.000 cadaveri ricuperati. E si tratta di una

bugia doppia e perfino tripla, perche'

"L'Unita'" lascia direttamente intendere, con

tale titolo, che nelle fosse di TUTTO il Kosovo

CI SONO solo 200 morti, e non che IN QUALCHE

ZONA isolata sono STATI RITROVATI per ora 200

morti, facendo cosi' un ulteriore salto di

qualita' nell'opera di disinformazione rispetto

alle affermazioni di Pujol e "Stratfor". Seguono

altre falsita', come, per esempio, quando il

giornalista scrive "Ora le indagini sono, almeno

provvisoriamente, concluse", mentre esse sono

solo sospese e per nulla "concluse", nemmeno

provvisoriamente. Il resto dell'articolo

riprende pari passo le affermazioni di Pujol e

della "Stratfor" (senza citare quest'ultima), in

particolare quelle sulle "2.000 autopsie"

previste, per quanto riguarda il primo, e quelle

sulle fosse comuni di Trepca, Ljubenic, Izbica,

Pusto Selo e (anche qui senza distinguere,

ricalcando pari passo la "Stratfor") i 96

"desaparecidos" di Klina, dall'"Unita'" definiti

"presunte vittime". Tra l'altro, come in molti

altri casi, i titoli sparano una tesi, mentre

nel pezzo il giornalista si tutela dicendo che

"(finora)" sono state trovate vittime

nell'"ordine delle centinaia" (ma perche' allora

un titolo perentorio su "200 morti nelle fosse

del Kosovo"?). Nell'articolo dell'"Unita'" le

contraddizioni e le inesattezze (dagli obiettivi

di "insinuazione" chiari) si susseguono una dopo

l'altra. Soldini, infatti, apre l'articolo

dicendo che Kouchner e la Nato avevano parlato

rispettivamente di 11.000 e 10.000 vittime

complessive, ma poi nel capoverso successivo

sottolinea "la differenza nell'ordine di

grandezza tra qualche centinaio e DIVERSE DECINE

DI MIGLIAIA", moltiplicando cosi' a piacere le

cifre da egli stesso citate. Il giornalista poi,

parlando in termini generali di tutte le

sepolture trovate, scrive che le "presunte fosse

comuni contenevano in realta' due o tre

cadaveri", ma i dati ufficiali parlano di una

media di 17 cadaveri ritrovati per fossa ("New

York Times", 11 novembre 1999). E cosi' via. Al

PDS, il partito di riferimento dell'"Unita'", va

cosi' ora un record non invidiabile: e' stato

alla guida di un governo che prima della guerra

ha riversato centinaia di miliardi nelle casse

degli organizzatori della macchina delle

repressioni contro i kosovari, che durante la

guerra ha ipocritamente fatto da portaerei per

una guerra di aggressione avanzando

giustificazioni umanitarie come il "difendere"

le vittime di tali repressioni, e ora nega

(raccontando bugie) la portata degli eccidi e

dei crimini commessi in Kosovo! Non e' da meno

"Liberazione", organo di Rifondazione Comunista.

Nel numero del 21 ottobre 1999, in un corsivo di

Nichi Vendola, in sole poche righe si puo'

leggere uno stupefacente concentrato di

distorsioni e falsita': "Finora non sono

arrivati a censire piu' di duecento morti [lo

stesso falso dell'"Unita'", con un ambiguissimo

"piu'", che fa passare la cifra di duecento

morti, tutelandosi pero' da ogni responsabilita'

- a.f.], non si sa neppure quanti di questi

uccisi dalla vendetta etnica o dalla guerra

[vedi insinuazioni di Pujol - a.f.]. E' una

notizia enorme: ufficiale [falso - a.f.], vera,

verificabile. Le fosse comuni sono sparite

[falso - a.f.]. Non si trovano piu' morti [falso

- a.f.]. Ma i mass-media, quelli che parlavano

con l'elmetto in testa durante il conflitto

balcanico, hanno semplicemente cancellato la

notizia (ripeto: ufficiale) [ripetiamo anche

noi: falsa, cosi' come e' falso che i mass-media

hanno cancellato la "notizia", visto che e'

stata riportata da moltissime grandi testate (si

veda l'elenco parziale nella prima parte) -

a.f.].

LE FOSSE "SCOMPARSE" E IL TRIBUNALE

INTERNAZIONALE

Nella prima parte di questo dossier sulle

manipolazioni relative al numero dei cadaveri

ricuperati in Kosovo, abbiamo accennato alla

facilita' con cui le forze serbe hanno potuto

manomettere, o addirittura cancellare, le prove

relative alle loro stragi. Abbiamo anche

ricordato che nella guerra del Kosovo, i

responsabili della pianificazione delle

repressioni di Belgrado hanno sicuramente tenuto

conto fin dall'inizio, mentre in Bosnia cio' era

avvenuto solo in un secondo tempo,

dell'esistenza di un Tribunale Internazionale

per l'Ex Jugoslavia e delle future eventuali

inchieste. Inoltre, abbiamo sottolineato che il

Tribunale Internazionale non e' affatto l'unico

soggetto che lavora alla scoperta dei cadaveri e

che esso non si pone l'obiettivo di farne un

"censimento". Ecco cosa scriveva a proposito di

tutti questi aspetti il quotidiano francese "Le

Monde", in un articolo di Remy Ourdan pubblicato

il 18 settembre scorso (prima dell'articolo di

"El Pais"): "Sembrerebbe che per la prima volta,

in un conflitto armato nell'ex Jugoslavia, gli

assassini abbiano anch'essi tenuto conto

dell'esistenza di un Tribunale. A Halac, a

Rebar, nella regione di Lipljan, sui siti dei

primi massacri scoperti, gli abitanti dei

villaggi che sono sopravvissuti alle uccisioni

sono categorici: le forze serbe sono tornate

dopo i massacri al fine di mascherare i loro

crimini, trasferendo all'occorrenza i corpi da

una fossa comune in tombe individuali scavate in

cimiteri. Operazioni che hanno coinvolto

l'esercito o la polizia sono state lanciate

unicamente per dare a un massacro l'apparenza di

una successione di morti ordinarie. 'Le nostre

attivita' in Bosnia, in particolare quelle

relative a Srebrenica, hanno messo in allerta i

serbi. Sanno ormai che noi possiamo trovare

delle prove dei crimini, che le scene di

massacri spesso custodiscono delle informazioni

compromettenti', riassume Graham Blewitt,

procuratore aggiunto del Tribunale dell'Aja. 'In

Kosovo ci sono stati chiaramente dei tentativi

di bruciare, distruggere e nascondere i corpi

dopo le esecuzioni' ". E ancora, piu' avanti:

"All'interno del team del Tribunale

Internazionale contro i Crimini di Guerra si

ammette che il tribunale non puo' rendere

pienamente giustizia alle famiglie delle

vittime. Non e' il suo mandato e il compito di

identificare e perseguire i colpevoli e' gia'

gigantesco. 'Non possiamo occuparci degli

scomparsi, cosi' come non possiamo lavorare

all'identificazione dei corpi', spiega un

responsabile. Non e' tuttavia possibile lasciare

le famiglie in un buco nero. La giustizia deve

essere accompagnata da un lavoro umanitario'.

Come in Bosnia-Erzegovina, delle organizzazioni

indipendenti, in particolare Physicians for

Human Rights, tentano di trovare dei fondi per

finanziare dei progetti di riesumazione delle

fosse comuni e di identificazione delle vittime,

al fine della restituzione delle spoglie alle

relative famiglie. [...]. Gli 'esperti legali',

procuratori, indagatori o giudici, sono

d'accordo nel dire che 'la pubblicazione di un

bilancio non puo' necessariamente che fare un

servizio agli assassini, e mai alle vittime,

perche' e' impossibile trovare tutti i corpi'.

Un conteggio avra' un risultato quasi sempre

inferiore al numero reale dei morti. [...] Anche

se cio' sciocca i parenti dei defunti, alcune

fosse comuni vengono trascurate a favore di

altre, giudicate piu' atte a fornire una solida

base di accusa. Il Tribunale si pone come

obiettivo, per il momento, quello di aprire

determinate piste: chi, nell'esercito o nella

polizia, aveva l'ultima parola sulle operazioni

militari? Come e' stata effettuata la

coordinazione tra esercito e polizia?".

Anche il "Chicago Tribune", in un suo lungo e

interessante articolo del 7 settembre 1999

relativo al Tribunale Internazionale (e sempre

precedente al pezzo di "El Pais"), che prende

spunto dal massacro di Bela Crkva, in Kosovo (si

vedano i link pubblicati nella prima parte del

dossier), rileva alcune cose essenziali: "Non

c'e' giustizia rapida al Tribunale Penale

Internazionale per la Ex Jugoslavia. La

risoluzione dei casi puo' richiedere anni. [...]

Il Tribunale ha competenze limitate, che gli

consentono di effettuare indagini solo su

quattro tipi di reati compiuti nella ex

Jugoslavia a partire dal 1991: violazioni gravi

della Convenzione di Ginevra del 1949,

violazioni delle leggi o delle consuetudini di

guerra, genocidio e crimini contro l'umanita'.

Date queste competenze, le procedure del

Tribunale funzionano come un imbuto. Le prove di

atrocita' si riversano nella parte superiore. La

giustizia esce a gocce da quella inferiore.

Lentamente. I dettagli crudi di quanto e'

accaduto nel villaggio [di Bela Crkva] nel

Kosovo occidentale il 25 marzo scorso sono gia'

diventati parte delle procedure del Tribunale.

Si trovano nella parte superiore dell'imbuto. Ma

dovranno compiere un lungo viaggio prima di

arrivare a quella inferiore". Inoltre, prosegue

il "Chicago Tribune", "Il Tribunale non puo'

indagare tutti. Non puo' identificare ogni

crimine di guerra o crimine contro l'umanita'.

Non puo' arrestare le singole persone che hanno

premuto il grilletto o compiuto violenze e

chiamarle a rispondere. Il Tribunale ha invece

deciso [...] di concentrare le proprie risorse

sui vertici piu' alti, nel tentativo di

catturare e perseguire i comandanti e i leader

politici responsabili. [...] Il Tribunale,

inoltre, si e' assunto un importante peso in

Kosovo, dove i sopravvissuti erano cosi' ansiosi

di ottenere giustizia, che si sono messi a

disseppellire i propri morti attendendo che

qualcuno potesse venire a raccogliere prove da

aggiungere alla causa. Per quanto cio' possa

sembrare pungente, dicono i funzionari, il

tribunale non ha nessuna intenzione di

raccogliere tutte le prove relative a tutti i

crimini di guerra e i crimini contro l'umanita'.

Male che vada, il Tribunale viene visto come un

cerotto molto piccolo messo su una ferita molto

grave, una piccola fitta di giustizia,

sufficiente a tranquilizzare la coscienza del

mondo, ma non a fare impaurire i veri assassini".

LE TRE OBIEZIONI

Nel dibattito sulle vittime delle operazioni

serbe in Kosovo e, piu' in generale, su tutta la

guerra, vengono di norma avanzate tre obiezioni

fondamentali, che esaminiamo qui sotto.

1) "NON E' GENOCIDIO"

In realta', sulla definizione di "genocidio" si

potrebbero condurre lunghe discussioni. L'uso

primo e piu' diffuso del termine si ha in

riferimento alla politica nazista di sterminio

della popolazione ebrea e, naturalmente, se si

fa un raffronto con tale crimine, le dimensioni

e le modalita' della sua esecuzione rientrano in

una sfera diversa da quella dei crimini commessi

in Kosovo. I responsabili della NATO, e i media

loro vicini, hanno del tutto colpevolmente

abusato di raffronti con l'Olocausto o con altri

crimini di dimensioni a esso comparabili. Per

esempio, il giornalista Ian Williams nel suo

articolo per "IWPR's Balkan Crisis Report" (12

novembre 1999) condanna il fatto che "Jamie Shea

ha descritto Milosevic come 'l'organizzatore

della maggiore catastrofe umana dopo il 1945' ",

altri si sono spinti fino a definire il

presidente jugoslavo "Hitler dei Balcani". E'

assolutamente giusto provare un senso di totale

repulsione nel sentire pronunciare tali frasi da

responsabili politici e militari di paesi che

hanno compiuto, direttamente o indirettamente,

stragi per milioni di vittime, senza mai

mostrare il minimo pentimento. Quando i leader

occidentali, o chi ne amplifica la voce nei

media, fanno tali affermazioni, sanno tuttavia

benissimo, avendo una lunga esperienza politica,

che esse costituiscono un'arma che soddisfa

contemporaneamente due loro obiettivi: da una

parte, serve a coprire o giustificare i loro

crimini in corso o passati, dall'altra, sono

spropositi di entita' tale da consentire

facilmente, in un secondo tempo, il lancio di

campagne di diverso segno quando si vogliono

mettere in atto altre manovre. A parere di chi

scrive, attualmente ci troviamo in una tale

seconda fase, che non a caso vede coinvolti

mezzi di informazioni vicini alla NATO (dal

"Times" all'"Unita'").

A essere rigorosi, pero', non si puo' asserire

univocamente che quanto avvenuto in Kosovo non

abbia nulla a che fare con una politica

genocida. Qualcuno ha fatto notare che il

termine viene spesso usato (e non del tutto a

torto) per altre situazioni simili, da molti

antimperialisti che ne negano l'esistenza in

Kosovo. Per fare solo un esempio, sono state

denunciate come "genocide" le politiche di

devastazione economica dell'Europa Orientale

condotte dai paesi occidentali. In un lucido

articolo scritto da John Green per "Communist

Voice" (15 agosto 1999), si scrive che riguardo

al Kosovo "si suppone che, se non vengono uccisi

tutti, non si tratta di genocidio. In altri

contesti, invece, una politica mirata a

distrutggere un popolo viene comunemente

chiamata genocida, anche se non vengono uccise

tutte le persone. Cosi', appena prima della

guerra Serbia-NATO, la Commission for Historical

Clarification in Guatemala ha reso pubblico un

documento che descriveva la politica

antinsurrezionale del governo come genocida e

razzista e notava che i massacri, le operazioni

di terra bruciata, le persone fatte scomparire e

le esecuzioni di autorita', leader e guide

spirituali maya, non erano solo un tentativo di

distruggere la base sociale dei guerriglieri, ma

soprattutto, di distruggere i

valori culturali che garantivano la coesione e

l'azione collettiva delle

comunita' Maya' (Peter Canby, 'The Truth About

Rigoberta Menchu', The New York

Review of Books, 8 aprile 1999). [...] La

Convenzione ONU del 1948 sul Genocidio

definisce il genocidio come una serie di atti

compiuti con 'l'intento di

distruggere, per intero o in parte, un gruppo

nazionale, etnico, razziale o religioso in

quanto tale'. Secondo questa definizione, il

governo guatemalteco ha in

effetti compiuti atti genocidi contro i maya,

cosi' come i serbi lo

hanno fatto contro i kosovari". A conferma di

quanto scrive Green, il

Vocabolario della lingua italiana della Treccani

definisce il genocidio come un crimine compiuto

da singoli o da organismi statali "consistente

nella metodica

distruzione di un gruppo etnico, razziale o

religioso, compiuta attraverso lo

sterminio degli individui, la dissociazione e

dispersione dei gruppi famigliari, l'imposizione

della sterilizzazione e della prevenzione delle

nascite, lo scardinamento di tutte le

istituzioni sociali, politiche, religiose,

culturali, la distruzione di monumenti storici e

di documenti d'archivio ecc." e il caso del

Kosovo rientra in piu' di una di queste

categorie di atti. In realta', a parere di chi

scrive, la questione "genocidio" o "non

genocidio" non e' discriminante in un giudizio

sulla sostanza di quanto accaduto e, comunque,

chi nega l'esistenza di un genocidio si fonda su

basi poco solide. Per gli strateghi della NATO,

e per chi si pone nella loro prospettiva, essa

potrebbe invece avere una certa rilevanza

politica, ma su questo torneremo al punto 3.

2) "AL MASSIMO, SONO 'SOLO' 10.000 VITTIME"

Si', e' vero, come hanno cinicamente notato in

molti, anche se non e' ancora noto il numero

esatto delle cifre, le stime piu' fondate fanno

pensare a un numero intorno alle 10.000 vittime,

o "poco" di piu'. Un numero basso, se

raffrontato ad altri conflitti: in Bosnia le

vittime stimate sono circa 200.000, e in

Kurdistan le cifre sono largamente superiori a

quelle del Kosovo, per fare solo due esempi a

noi vicini. A parte la limitata estensione

geografica e demografica del Kosovo (che

distingue ques'ultimo dai due casi sopra

citati), la prima osservazione che viene da fare

e' che il numero delle vittime in Kosovo si

riferisce a un'operazione durata poco piu' di

due mesi, e condotta in massima parte dal 20

marzo ai primi di maggio, mentre negli altri

casi si e' trattato di conflitti durati anni. Si

tratta di una differenza fondamentale, come le

altre citate, ma si puo' osservare che, per

l'appunto, da parte dei suoi perpetratori

l'operazione criminale era stata quasi portata a

termine. Le bombe della NATO, infatti, non hanno

affatto "salvato" i kosovari dai massacri e

dalle deportazioni in corso, sono state solo la

micidiale (e criminale) arma usata

dall'Occidente nelle sue manovre "diplomatiche",

conclusesi quando Belgrado aveva gia' da tempo

apertamente dichiarato di avere portato a

termine i suoi piani e sul campo rimanevano solo

alcune isolatissime sacche di resistenza. Che

poi l'inefficiente leadership di Belgrado abbia

perso a tavolino quasi per intero le posizioni

guadagnate, come gia' avvenuto in altre guerre

balcaniche, e' un'altra cosa - rimane il fatto

che l'operazione era quasi conclusa e aveva

messo in conto un livello di vittime sicuramente

non lontano da quello stimato. Ma il numero

delle vittime non descrive quanto di spaventoso

ha comportato l'operazione del regime di

Milosevic: almeno i 2/3 della popolazione

albanese kosovara ridotta alla condizione di

profugo, in condizioni inumane nei campi in

Albania, Macedonia e Montenegro, o all'addiaccio

e senza cibo all'interno del Kosovo, distruzione

o danneggiamento tali da rendere inabitabile una

quota comparabile di abitazioni, distruzione dei

documenti di identita' e asportazione o

distruzione degli archivi e delle anagrafi,

uccisione selezionata dei membri piu' importanti

delle comunita' locali e uccisioni a caso per

terrorizzare la popolazione, e altro ancora. Si

tratta di un'opera di distruzione sistematica di

una comunita' etnica che trova negli ultimi

decenni pochi eguali in termini di contemporanea

concertazione pianificata, rapidita' e vastita'.

A proposito dei crimini commessi in Kosovo,

un'ultima osservazione: dovrebbe fare riflettere

anche il fatto che a parlare di "crimini che

sono conseguenza dalla guerra" e "vendette

etniche" sono solo i disinformatori sopra citati

o chi ha accettato di amplificare le loro

falsita' e/o distorsioni: per i vertici politici

e militari di Belgrado, cioe' coloro

direttamente interessati a un'assoluzione, vale

ancora oggi la spiegazione grottesca di quanto

avvenuto come di una normale operazione di

polizia contro i "terroristi", come fanno tutti

i regimi del loro tipo e in sinistra analogia

con le giustificazioni "poliziesche" della NATO

per le proprie aggressioni. Di fronte a quanto

accaduto, parlare di "sole 10.000 vittime" e' un

modo cinico per dire, in buona o in cattiva

fede, qualcosa che rimanda ad altro, al succo

cioe' di quanto dicono i vari Pujol o

"Stratfor", vale a dire che e' stata "soltanto

una guerra" e che le forze di Belgrado "non

erano poi cosi' cattive".

3) "I DISCORSI SUI MASSACRI IN REALTA'

GIUSTIFICANO LA NATO"

E' la tesi sostenuta dalla "Stratfor", un

soggetto informativo che, va precisato, si pone,

sia istituzionalmente che a livello ideologico,

all'interno del discorso imperialista e che ne

riflette le contraddizioni. Non si puo' tuttavia

negare che in tali tesi, sbagliate nel loro

complesso, vi sia un elemento reale.

Indirettamente, l'esistenza di un genocidio in

atto autorizzerebbe, secondo la Carta dell'ONU,

un intervento esterno per fermarlo. Quindi,

sostengono i propugnatori di tale tesi, il

riconoscere che vi sono stati massacri e

deportazioni sistematiche consentirebbe alla

NATO di "legittimare"a posteriori la propria

guerra come intervento per salvare un popolo. Si

perdono qui di vista alcuni fatti. Il primo, e'

che la NATO non ha

mai avuto, ne' in passato ne' ora, problemi a legittimare quello che ha bisogno

di legittimare quando e come vuole, indipendentemente dall'esistenza o meno di

massacri o genocidi. Il secondo, e' che in realta' e' facile dimostrare che la

NATO nei fatti non ha fatto nulla per fermare i massacri e le deportazioni e

che, prima dei bombardamenti, non ha mai fatto niente per prevenirli e, anzi, a

livello politico, diplomatico ed economico, ha contribuito fortemente a crearne

le condizioni. Il terzo, e piu' importante, e' che con questa tesi ci si pone

direttamente in un discorso tutto interno alla NATO. Se si guarda a come e'

stata lanciata la campagna di disinformazione, la cosa risulta evidente. Il

perito Pujol e il poliziotto Palafox, che hanno dato il via a tale campagna,

non sono due soggetti indipendenti. Sono uomini che hanno lavorato per

l'amministrazione di un paese NATO (la Spagna) e che ora sono stati prescelti

da tale paese NATO (dal quale ricevono lo stipendio) per lavorare all'interno

di una zona occupata dal contingente spagnolo della KFOR. La Stratfor, come

abbiamo gia' ricordato, ha come propri committenti (e quindi finanziatori)

aziende del settore difesa degli USA e grandi multinazionali. E non a caso le

loro affermazioni sono state riprese alla lettera, senza critiche, dai piu'

grandi organi di stampa interventisti e tradizionalmente portavoce delle

politiche nazionali dei paesi NATO: da "El

Pais", al "Times" di Londra, al "New York

Times", al giornale del maggiore partito di

governo italiano, l'"Unita'". Non e' nemmeno un

caso che queste testate abbiano ripreso pari

passo le dichiarazioni degli spagnoli, senza

assolutamente preoccuparsi di sentire a riguardo

le voci dei diretti interessati (i parenti delle

vittime), che probabilmente avevano cose piu'

interessanti e dettagliate da dire. Il fatto e'

che "i diretti interessati" per la NATO, e per

chi la sostiene, non hanno mai avuto alcuna

importanza, mentre gli operatori e le agenzie

"atlantiche" del tipo di Pujol o della

"Stratfor" sono affidabili, perche' rientrano

comunque nel proprio discorso imperialista. Ci

troviamo qui nuovamente di fronte a un quadro

simile a quello dei giorni successivi al

massacro di Racak, quando dopo una

contraddittoria riunione dei vertici NATO erano

state fatte circolare in ambito francese delle

"veline" anonime e prive di ogni sostanza

(scavalcando anche in questo caso

nell'interpretazione cospirativa il governo

serbo, che ancora oggi definisce Racak una

"normale operazione di polizia"), dando vita a

un'analoga "teoria" che circola ancora oggi

dall'estrema destra all'estrema sinistra. Chi si

pone come obiettivo la lotta, o fosse anche solo

la critica, alla NATO e la solidarieta' ai

popoli oppressi non puo' mettersi all'interno di

un tale discorso, riamplificandolo acriticamente.

Nell'ultimo capitolo tenteremo di abbozzare

qualche interpretazione "in tempo reale" del

perche', proprio in questo momento, vi e' stata

una campagna di disinformazione che trova la

propria origine in ambiti NATO o a essa contigui.

[CORREZIONE PRIMA PARTE: nella prima parte di

questo dossier, al terzo capoverso, compare la

frase: "e' perfettamente logico che le forze

regolari e i paramilitari serbi si siano

premurati di cancellarne le tracce (e infatti in

alcuni di essi, come a Izbica e Ljubenic, sono

state rilevate chiare tracce di manomissione)".

Si tratta di un evidente contraddizione, dovuta

a un lapsus. In realta' il testo va letto: "si

siano premurati di **occultarne le prove** ecc.]

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