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Partito Radicale Paolo - 2 dicembre 1999
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NOTIZIE EST #284 - KOSOVO

27 novembre 1999

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DOSSIER: LE SPECULAZIONI SULLE VITTIME IN KOSOVO

/ 3

a cura di Andrea Ferrario

IL CONTESTO DELLA CAMPAGNA DI DISINFORMAZIONE

SULLE VITTIME IN KOSOVO

E' sempre difficile interpretare in tempo reale

le "grandi manovre" politiche che si svolgono

intorno alla situazione assolutamente caotica

del dopoguerra in Kosovo. Cercheremo qui di

riassumere gli eventi salienti che si sono

prodotti in coincidenza con i principali momenti

della campagna di disinformazione e di

abbozzarne qualche interpretazione.

L'articolo di "El Pais" riportante le

dichiarazioni di Pujol e Palafox e' stato

pubblicato il 23 settembre, negli stessi giorni

in cui si chiudeva il processo di disarmo e

scioglimento dell'UCK e del suo parziale

confluire in una forza di protezione civile

controllata dalla NATO e pressoche' disarmata,

ma allo stesso tempo inglobante la catenda di

comando della forza albanese. Si e' trattato

della conclusione, senza particolari intralci

per l'alleanza occidentale, di uno dei momenti

politici piu' delicati del dopoguerra. La

chiusura di tale capitolo ha consentito di

concentrarsi maggiormente su un altro aspetto

cruciale, rimasto pericolosamente aperto e

indefinito gia' da tempo. In quei medesimi

giorni sono infatti emerse con chiarezza, in

seno ai paesi NATO, divergenze riguardo ai

futuri destini del Kosovo, evidenziatesi in

particolare con le dichiarazioni di anonimi

funzionari USA, riportate dal "Washington Post"

il 24 settembre (il giorno dopo l'uscita

dell'articolo di "El Pais"), secondo i quali

l'indipendenza del Kosovo sarebbe indesiderata,

ma inevitabile a medio termine (si veda "Notizie

Est" #264, 25 settembre 1999). A tali

dichiarazioni ha fatto seguito immediatamente

una grande quantita' di altre dichiarazioni da

parte di esponenti USA ed europei che si sono

pronunciati chiaramente contro una tale ipotesi

(si veda "Notizie Est" #269, 18 ottobre 1999).

E' chiaro che i circoli che vedono un Kosovo

indipendente come inevitabile rimangono ancora

minoritari, anche in seno alla sola

amministrazione USA, ma in realta' le loro

argomentazioni sono particolarmente "pericolose"

perche' le voci contrarie a tale ipotesi,

seppure in maggioranza, non sembrano sapere

offrire alternative concrete e infatti tutti

coloro, americani o europei, che hanno reagito

opponendosi ogni ipotesi di indipendenza del

Kosovo, si sono ben guardati dallo specificare

in concreto come arrivare ad altre soluzioni.

Tra fine settembre e i primi di ottobre ci sono

stati due altri sviluppi di grande importanza.

Il primo e' stato il drastico calo di

partecipazione media alle manifestazioni

organizzate dall'opposizione serba a Belgrado e

in altre citta' (piu' nutrite la' dove invece

non erano egemonizzate dai principali partiti di

opposizione), rendendo cosi' sempre piu'

evidente l'impossibilita', a breve termine, di

un cambio di regime in Serbia su pressioni di

una piazza "controllata" da forze politiche

fidate. L'altro e' stato il passaggio da un

impegno generico a tenere in Kosovo elezioni in

primavera, a quello di tenere elezioni

unicamente locali al fine esplicito di evitare

ogni dibattito riguardo al futuro status del

Kosovo. Successivamente, nel corso di ottobre si

e' passati dal termine previsto della primavera

a un vago "non prima dell'estate", diventato poi

a meta' novembre un "nell'autunno 2000"

("Danas", 2 novembre 1999). Contro la fissazione

immediata di qualsiasi termine per le elezioni

si sono pronunciati in ottobre i vertici

dell'OSCE, che e' poi l'organizzazione alla

quale l'ONU ha conferito in Kosovo le competenze

per la "democrazia" e per l'organizzazione delle

elezioni. Secondo l'OSCE, l'amministrazione ONU

deve prima procedere a un censimento della

popolazione (compito necessariamente molto lungo

da eseguire, nella situazione attuale) e solo

dopo di cio' fissare un termine per le elezioni.

Abbiamo visto, nelle parti precedenti, che a

fine settembre le dichiarazioni rese da Pujol e

Palafox a "El Pais" sono state riprese cosi'

come erano da numerose fonti, senza tuttavia

dare luogo a ulteriori sviluppi. Una vera e

propria campagna e' cominciata invece solo a

partire dal 17 ottobre, con l'articolo della

"Stratfor", molto piu' lungo di quello di "El

Pais", ma che non aggiungeva nulla, a livello di

fatti, rispetto al primo. Alla luce di cio' e'

difficile spiegarsi perche' proprio nella

seconda meta' di ottobre, e non subito dopo il

pezzo di "El Pais", questa campagna abbia

trovato tra le grandi testate di tutto il mondo

una tale eco (che tra l'altro dura ancora oggi).

Se si ripercorrono gli eventi di quei giorni,

tuttavia, se ne possono intuire in qualche modo

i motivi. Lo stesso giorno in cui veniva

pubblicato il pezzo della "Stratfor" (17

ottobre), il "Washington Post" pubblicava un

lungo articolo di Peter Finn sulla perdita di

consensi da parte di Thaci in Kosovo, sostenendo

un ritorno "alla grande" di Rugova. L'articolo

si basa in massima parte su fonti anonime e su

dichiarazioni di esponenti del partito di Rugova

e contiene affermazioni che francamente e'

difficile non definire grottesche ("Un'indagine

di opinione scientifica commissionata da

un'organizzazione occidentale e non pubblicata

ha trovato un sostegno di 4-1 per Rugova

rispetto a Thaci. Una recente indagine non

scientifica condotta su 2.500 elettori da

un'organizzazione informativa indipendente [a

giudicare dai dati, si dovrebbe trattare

dell'"indagine" condotta dal KIC, controllato

dal partito di Rugova, appena prima

dell'operazione di fuga di Rugova in Italia -

a.f.] in una competizione a due tra Thaci e

Rugova il secondo vincerebbe con il 92% dei

voti" [sic!]. E' il solito modello: dati

anonimi, privi di riscontro e quindi non

smentibili da nessuno. Attraverso il "Washington

Post" passano tuttavia spesso le posizioni o gli

esorcismi dei vertici USA. In questo caso e'

chiaro che il timore non e' certo un

difficilmente ipotizzabile massiccio ritorno di

popolarita' per Rugova (come invece sostiene

Joseph Halevi nel "Manifesto" del 18 novembre

scorso), che provocherebbe gli entusiasmi di

tutti gli occidentali, vista la sua provata

affidabilita', quanto piuttosto il fatto che

ANCHE Thaci e i suoi stiano perdendo

credibilita', una cosa piu' che probabile viste

le sciagurate politiche che stanno conducendo.

L'articolo e' cioe' un sintomo dei timori delle

cancellerie occidentali per la perdita di

controllo sugli sviluppi in Kosovo, timori

strettamente legati ai futuri destini del Kosovo

e alle richieste univoche di indipendenza degli

albanesi del Kosovo, "radicali" o "moderati" che

siano.

A meta' ottobre si sapeva gia' che era imminente

la comunicazione da parte del Tribunale dell'Aja

di dati riguardanti le vittime ritrovate, visto

che gia' dall'estate era stato affermato che con

la fine di ottobre sarebbe finita la prima fase

delle ricerche, prima della loro prevista

interruzione invernale. Quando e' uscito il

pezzo della "Stratfor", ci si trovava inoltre

alla vigilia di molti appuntamenti cruciali per

il futuro assetto dei Balcani, appuntamenti che

erano tutti gia' in programma almeno fin da

settembre e che rientrano anch'essi nel quadro

generale dei timori per i futuri assetti

balcanici, che dovranno necessariamente avere al

loro centro Kosovo e Serbia. Per i giorni

successivi al via della campagna (piu'

esattamente, per il 25 ottobre) era previsto

l'avvio dei cruciali incontri tra partiti

montenegrini e partiti serbi, i cui esiti sono

di importanza cruciale per tali assetti. Gli

incontri si sono svolti in un'atmosfera molto

"diplomatica", senza scontri o scambi di accuse,

terminando con l'impegno a proseguire il

dialogo. Negli stessi giorni, il vice-primo

ministro serbo Nikolic dichiarava che Belgrado

non si opporra' a un eventuale secessione del

Montenegro, con un linguaggio moderato ben

diverso dai toni roventi dei mesi precedenti.

Alcuni giorni dopo il termine dei colloqui serbo-

montenegrini, il capo dell'esercito jugoslavo,

Ojdanic (fedele di Milosevic e tra l'altro

ricercato dal Tribunale dell'Aja, di fronte al

quale il Montenegro si era impegnato a

consegnare ogni accusato di crimini di guerra),

si e' recato in visita in Montenegro e ha avuto

un colloquio "su aspetti politici e della

sicurezza" con il primo ministro Vujanovic, uomo

di Djukanovic. Alcuni giorni prima avevano

cominciato a circolare voci sulle imminenti

dimissioni da primo ministro federale del

montenegrino Bulatovic, uomo di Milosevic e

acerrimo nemico di Djukanovic, e sull'offerta

del suo posto a Djukanovic. Bulatovic ha

dichiarato di essere disponibile a mettere a

disposizione la sua carica "se gli interessi del

paese lo richiedono" (si vedano in merito i

numerosi articoli comparsi su "Monitor", "Vreme"

e "Danas" tra fine ottobre e inizio novembre).

Immediatamente dopo gli incontri tra partiti

serbi e montenegrini, vi e' stata l'introduzione

ufficiale del marco tedesco come valuta

parallela in Montenegro. La mossa e' stata

preceduta da svariati incontri bilaterali, in

cui USA, Gran Bretagna e Germania hanno

categoricamente ammonito Djukanovic che la

"comunita' internazionale" non e' favorevole a

un'indipendenza del Kosovo, ma allo stesso tempo

hanno mostrato un aperto entusiasmo per

l'adozione ufficiale del marco tedesco come

valuta parallela, condannata invece dal governo

federale. Dalle modalita' e dal contesto

dell'introduzione del marco come valuta

parallela in Montenegro si puo' intuire (ma e'

solo una nostra ipotesi), che tale mossa venga

considerata dagli occidentali come un test per

le future politiche economiche previste dal

Patto di Stabilita' per i Balcani (consigli

valutari e "euroizzazione" delle monete locali),

condotto a partire dal cuore del problema, la

Federazione Jugoslava. Non a caso, la mossa del

governo di Podgorica e' stata accolta con

particolare fervore dall'opposizione serba e, in

particolare, Draskovic ha chiesto l'adozione

ufficiale del marco come valuta parallela anche

in Serbia (di fatto, il marco e' gia' da anni in

Serbia una valuta parallela, ma non ufficiale).

I vertici del potere montenegrino, tuttavia, non

sono uniti nelle loro politiche - tra i piu'

moderati l'introduzione del marco non viene

vista come un passo verso l'indipendenza, mentre

i piu' radicali la considerano apertamente un

passo in tale direzione.

In un altro paese vicino al Kosovo, la

Macedonia, si sono svolte elezioni presidenziali

che hanno una grande importanza per la regione e

per i futuri del Kosovo in particolare e sono

state attese con ansia dalle grandi potenze.

Dopo una "preoccupante" vittoria al primo turno

di Tito Petkovski, che aveva basato la sua

campagna sui sentimenti patriottici macedoni e

antialbanesi, al secondo turno ha vinto il

candidato del fidato premier Georgievski, ma,

soprattutto, il partito albanese guidato da

Arben Xhaferri (DPA), che fa parte della

coalizione di governo, ha dimostrato grande

disciplina nel mobilitare gli elettori di

nazionalita' albanese a dare il loro voto al

candidato di un partito macedone fino a ieri

radicalmente antialbanese (e, come sembra ormai

certo, nell'arrotondare in maniera decisiva il

voto a suo favore organizzando ampi brogli). La

situazione in Macedonia rimane instabilissima,

ma la totale obbedienza e disciplina di cui ha

dato prova il maggiore partito della minoranza

albanese ha dato un sospiro di sollievo agli

strateghi della NATO. Per Xhaferri, si tratta di

un'ulteriore conferma della propria

"affidabilita'", dopo che durante i

bombardamenti aveva evitato di criticare nel

governo le politiche inumane verso i profughi

dal Kosovo e, soprattutto, aveva operato di

concerto con il governo macedone e la NATO per

soffocare ogni tentativo di creare cellule

dell'UCK nei campi profughi in Macedonia (si

vedano le dichiarazioni rilasciate a riguardo

dal ministro degli interni macedone Trajanov, in

AIM Skopje, 4 novembre 1999).

Accanto a questi sviluppi, ve ne sono stati

altri successivi di minore rilievo, ma che

completano in maniera eloquente un quadro di

generale rimescolamento delle carte che trova le

sue radici proprio tra settembre e ottobre. Per

esempio, del tutto a sorpresa, la settimana

scorsa sono stati aperti in Serbia processi

contro alcuni riservisti per crimini commessi in

Kosovo (sei accusati in tutto, uno in un

processo isolato e altri cinque in un processo

collettivo in cui comunque il principale capo di

accusa e' quello di avere lavorato come spie

della NATO). Sono stati liberati senza preavviso

anche alcuni prigionieri politici albanesi

deportati nelle prigioni serbe. Si tratta di due

fatti davvero piccoli, ma che vanno nella

direzione di un "rifarsi il trucco". C'e' stato

poi il vertice OSCE dei giorni scorsi, per il

quale era previsto da settimane un tentativo

della Albright di portare all'"unificazione

politica" dei principali leader jugoslavi che si

oppongono a Milosevic, cioe' Djukanovic,

Draskovic, Djindjic e Avramovic, tentativo poi

riuscito solo in parte. Prima del vertice, a

fine ottobre, si erano fatte sempre piu'

insistenti, all'interno dell'UE, le pressioni

per una parziale cancellazione delle sanzioni

contro la Serbia, per ora rimandata. Ma e'

rilevante che tali pressioni abbiano trovato per

la prima volta un'apertura da parte del "falco"

USA Albright che, ricevendo i leader

dell'opposizione serba il 3 novembre, ha

dissociato la cancellazione delle sanzioni dalla

rimozione di Milosevic, legandola a una piu'

vaga "tenuta in Serbia di elezioni libere e

democratiche" (esponendosi al sarcasmo dei

giornalisti quando, alla domanda scontata su

cosa avrebbe fatto se Milosevic avesse vinto le

elezioni, ha risposto: "se mia nonna avesse le

ruote sarebbe una bicicletta" - Associated

Press, 3 novembre 1999). Tutto questo in un

momento in cui politici ed economisti continuano

a osservare che non e' possibile alcuna

stabilita' dei Balcani tenendo fuori la Serbia.

Altri due fatti poco chiari si sono verificati

sempre tra ottobre e novembre: il misterioso

incidente subito il 3 ottobre dall'autovettura

di Draskovic, nel quale sono rimasti uccisi

quattro suoi collaboratori, mentre il leader del

SPO e' rimasto miracolosamente illeso, e

l'attentato dalle dinamiche poco chiare compiuto

il 31 ottobre contro il leader del Movimento di

Resistenza Serba del Kosovo, Momcilo Trajkovic

(si veda AIM Pristina, 11 novembre 1999).

Riguardo a quest'ultimo attentato, va segnalato

che i giornali del regime di Belgrado

("Politika" e "Borba") hanno esplicitamente

attaccato il loro ex alleato Trajkovic,

accusandolo di essersi inflitto la ferita da

solo - un'accusa davvero poco credibile, ma che

e' indice delle tensioni esistenti riguardo alla

funzione politica di quello che rimane della

comunita' serba in Kosovo. La storia degli

ultimi anni insegna che spesso i momenti di

"svolta interna" negli assetti dellapolitica

serba sono stati contrassegnati da aggressioni e

atti di violenza. Ai casi poco chiari di

Draskovic e Trajkovic va aggiunto l'attentato

compiuto il 22 ottobre contro il giornalista

serbo-bosniaco Zeljko Kopanja, vicino a Milorad

Dodik, scampato per miracolo a una bomba (ha

avuto le gambe amputate) dopo essersi "esposto"

di recente con la pubblicazione di una serie di

materiali sui legami tra Belgrado e i criminali

serbi responsabili di stragi in Bosnia. Anche in

campo albanese vi sono stati episodi poco

chiari, come l'uccisione di uno stretto

collaboratore di Rugova e lo strano incidente

all'ex comandante dell'UCK Remi, che ai tempi si

era opposto alla firma di Rambouillet ed era

rimasto su posizioni contrarie a Thaci, in

particolare per quanto riguarda la

smilitarizzazione dell'UCK (AFP, 26 novembre

1999).

L'ultimo evento da segnalare e' quello

dell'incidente all'aereo Atr-42 in volo da Roma

a Pristina, avvenuto il 12 novembre. Non vi e'

alcun elemento concreto che consenta di mettere

in dubbio la versione dell'incidente. Le

lentezze nel comunicarne l'avvenimento, o le

spiegazioni contraddittorie, possono essere

semplicemente il frutto del caos totale della

doppia amministrazione NATO/ONU o degli eccessi

di prudenza di fronte a un caso cosi' delicato

in una situazione di protettorato e di immediato

dopoguerra. Quello che invece e' sorprendente e'

che il 17 novembre, a ben cinque giorni di

distanza dall'incidente, l'inviato jugoslavo

all'ONU, Jovanovic, si sia sentito in dovere di

esprimere, senza esserne sollecitato, le proprie

condoglianze per l'incidente, aggiungendo la

sibillina frase: "putroppo ["regrettably"], i

voli diretti in Kosovo vengono operati in

violazione della sovranita' e dell'integrita'

della Repubblica Federale di Jugoslavia",

aggiungendo che "i voli verso il Kosovo violano

'le norme e le norme e i regolamenti di

traffico, la cui implementazione' e' di

responsabilita' della Jugoslavia" e "chiedendo

che i suoi diritti sovrani vengano rispettati

nel suo intero spazio aereo" (Reuters, 17

novembre 1999). Tre giorni dopo l'aeroporto di

Pristina e' stato chiuso ai voli civili per

motivi tecnici (ai quali viene attribuita per

ora l'origine del disastro), con conseguenze

disastrose per la consegna degli aiuti in questo

cruciale inizio d'inverno. Il governo jugoslavo

non ha esitato a utilizzare la tragedia dell'Atr-

42 per mandare uno dei tipici avvertimenti

trasversali che emergono nei momenti di

riassetto della scena balcanica, pure al prezzo

di esporsi a pesanti sospetti.

Per completare il quadro generale, vanno

segnalate le dichiarazioni fatte di recente da

Clinton a Firenze in occasione del suo incontro

con D'Alema. Il presidente USA, secondo quanto

riferisce "La Stampa" del 21 novembre, ha

concordato con D'Alema che e' necessario

"affrontare la sfida della stabilita' nei

Balcani mettendo alle strette Milosevic, ma

evitando l'indipendenza del Kosovo",

sottolineando la necessita' di "rafforzare il

Patto di Stabilita' ed i progetti di

ricostruzione". Clinton ha poi affermato: "sono

a favore di un'immediata revisione delle

sanzioni se ci saranno libere elezioni in

Serbia. [...] Non bisogna lasciare alcuna carta

in mano a Milosevic", dicendosi poi

"profondamente preoccupato" per il rischio della

proliferazione di Stati indipendenti nei

Balcani, "a cominciare dal Kosovo". Anche a

Sofia, in Bulgaria, il presidente USA ha

precisato il 22 novembre che "il Kosovo non puo'

configurarsi come stato indipendente" ("Corriere

della Sera", 24 novembre 1999).

Non esistono elementi per stabilire nessi

diretti tra la pubblicazione dei pezzi di "El

Pais" e "Stratfor" e tutti questi fatti che

trovano origine nelle spinte interne ai Balcani

e negli obiettivi che si pongono in merito le

grandi potenze. L'enorme fortuna che hanno avuto

i due pezzi (e forse la loro stessa origine) e'

tuttavia attribuibile a questo clima generale di

incertezza, di timori e di conseguenti lotte

interne alle leadership occidentali, un clima

confermato anche dalle numerose

reinterpretazioni divergenti delle strategie

militari applicate durante la guerra e dai

saltuari scambi di accuse in merito. Cosi' come

nel maggio scorso avevamo notato che, al di la'

delle dichiarazioni di facciata,

l'incriminazione di Milosevic alla vigilia degli

accordi era probabilmente frutto delle pressioni

di solo alcune lobby occidentali ed era

risultata sgradita ad altre importanti lobby

(con ogni probabilita', alla Casa Bianca, per

fare solo un esempio - si vedano "Washington

Post", 28 maggio 1999 e "New York Times", 28

maggio 1999, nonche' "Notizie Est" #235, 28

maggio 1999), in questo momento sembrano essere

passate all'attacco altre lobby che si

preoccupano soprattutto di restituire un ruolo

alla Serbia nei Balcani e di evitare mosse come

l'indipendenza del Kosovo che potrebbero avere

ripercussioni disastrose sulla "stabilita'"

(quella che interessa alla NATO) nell'intera

penisola. Le opzioni cui mirano queste lobby

sono, a quanto si puo' intuire, di diverso segno

e coprono una gamma di soluzione che va da una

parziale reintegrazione del Kosovo nella Serbia

(che evidentemente qualcuno ha in testa, ma che

dal punto di vista pratico sembra difficilmente

realizzabile e probabilmente e' poco gradita

perfino a governo e opposizione a Belgrado),

alla creazione di una Repubblica del Kosovo

interna a una Federazione Jugoslava piu'

elastica (progetto propugnato, seppure non

esplicitamente, da Carl Bildt, inviato speciale

dell'ONU per il Kosovo - "Blic", 23 ottobre

1999). Una soluzione che eviti possibilmente

l'indipendenza del Kosovo e' comunque urgente,

per i paesi NATO. Infatti, la situazione

generale dei Balcani ha subito una forte

accelerazione verso la "destabilizzazione",

prodottasi tra ottobre e i primi di novembre, ma

chiaramente nell'aria gia' a fine settembre: al

quadro perennemente irrisolto in Bosnia si sono

aggiunti l'accentuarsi, con la malattia di

Tudjman, dell'incertezza sui futuri sviluppi in

Croazia, gia' in piena crisi economica e

politica; la ripresa delle rivolte operaie in

una Romania sempre piu' in un vicolo cieco

economico; la caduta del fidato Majko in Albania

e le faide interne al Partito Socialista di Nano

e al Partito Democratico di Berisha, con la

sconfitta dei rispettivi "moderati"; le gia'

menzionate elezioni macedoni, che hanno

dimostrato l'assenza di una base sufficiente di

consenso popolare per l'attuale governo

Georgievski, salvato poi all'ultimo dal partito

di Xhaferri; la parallela fragilita' del governo

in Bulgaria, evidenziatasi alle ultime

amministrative, e l'emergere del fatto che anche

in questo finora tranquillo paese covano

tensioni nazionali.

Una campagna mirata a negare, o a

"ridimensionare", i crimini compiuti in Kosovo,

costituisce un'arma politica rilevante nei

conflitti all'interno della NATO per quelle

lobby che intendono ottenere, tra le e'lite,

maggiori consensi a qualche nuova forma di

distensione con la Serbia o a nuove

"architetture" balcaniche delle quali la Serbia

deve necessariamente essere il centro

geografico. Al limite estremo, negando il

"genocidio", mirano al ritiro

dell'incriminazione degli indagati dal Tribunale

dell'Aja, che costituisce un ostacolo non

indifferente. Tale ritiro non interessa tanto

per quanto riguarda Milosevic (o al massimo

interessa solo nella misura in cui permetterebbe

a quest'ultimo di andare in un dorato esilio),

con il quale ormai i ponti sembrano

definitivamente rotti e per la riabilitazione

del quale ci vorrebbe un voltafaccia colossale,

quanto piuttosto per "sdoganare" tutto il folto

sottobosco di personaggi medio-alti che

potrebbero minare le basi del regime passando

all'opposizione (quelli che lo hanno gia' fatto

prima della guerra sono una schiera, ma i veri

detentori del potere politico ed economico sono

ancora con Milosevic). Ma un ritiro delle

incriminazioni non ci sempra probabile visto

che, come abbiamo esposto, ne mancano le basi.

La campagna, piu' verosimilmente, e' sostenuta

da quei soggetti che vogliono in generale creare

il clima piu' adatto per le nuove architetture

di cui sopra, approfittando tra le altre cose

dei prossimi cinque mesi in cui gli operatori

del Tribunale Internazionale non lavoreranno

alla ricerca delle fosse comuni e quindi non ci

sara' l'impaccio di macabre scoperte a turbare

il loro agire. Vista la contraddittorieta' dei

loro obiettivi e le difficolta' del dovere fare

i conti con una realta' estremamente complessa,

i loro piani non dovranno necessariamente avere

un pieno successo.

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