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Manfredi Giulio - 10 febbraio 2000
Balcani - Regolamento di conti l'uccisione del ministro serbo Dove regna lo Stato-mafia La connection politica-criminalità è un freno alla ricostruzione
di Alberto Negri Sole 24 ore - Mercoledì 9 Febbraio 2000

Più la vittima è importante, più è difficile trovare il colpevole. Una vecchia regola che a Belgrado è quasi un dogma. L'assassino del ministro della Difesa Pavle Bulatovic forse resterà sconosciuto come gli autori degli altri 500 misteriosi omicidi che hanno insanguinato Belgrado negli ultimi sei anni. E quando si cattura il killer, come sostengono le autorità nel caso di Arkan, ammazzato tre settimane fa nella hall dell'Intercontinental, allora l'assassino sparisce senza processo, e comunque non si trovano mai né il movente (sono troppi) né i mandanti. Così vanno le cose nei Balcani da quando, ancora prima del disfacimento della ex Jugoslavia, si sono insediati gli Stati-mafia.

L'ascesa degli stati-mafia, dove potere politico e criminale sono strettamente collusi e a volte indistinguibili, ha cambiato le regole del gioco. Pulizia etnica, saccheggi, razzie, sono stati eventi generalmente interpretati come una conseguenza della guerra. Ma il conflitto balcanico ha rappresentato anche la degenerazione finale, lo sbocco obbligato di un sistema di economia criminale. Nell'anarchia dell'autogestione, la Jugoslavia era già negli anni Ottanta un Paese allo sbando caratterizzato dalle corruzione, dal furto perpetrato dietro il paravento dell'economia pianificata, piagato da scandali come l'Agrokomerc, una Tangentopoli che lasciò un buco da mezzo miliardo di dollari.

La Jugoslavia di Milosevic, soffocata dalle sanzioni e sommersa dai debiti, è sopravvissuta grazie all'economia parallela, o "grigia", che in Serbia, Albania, Montenegro, Macedonia, costituisce più del 50% della formazione del Prodotto interno lordo. Contrabbando di petrolio, sigarette, narcotraffico: sulla rotta dei Balcani passa l'80% dell'eroina venduta sui mercati europei. Dieci anni di guerra e di instabilità hanno foraggiato ai vertici della Serbia un'oligarchia che ha stretto ottimi affari con la criminalità organizzata. Odio etnico e nazionalismo si sono rivelati strumenti di propaganda micidiale non soltanto per bloccare la transizione democratica ma anche per coprire arricchimenti illeciti, il saccheggio delle risorse pubbliche, corruzione e traffici di ogni genere.

Quando si parla d'affari nei Balcani gli stati-mafia sanno superare anche le invalicabili barriere etniche. Basta vedere quanto è successo negli anni Novanta nel triangolo fra Tirana, Podgorica e Belgrado, quando era in vigore l'embargo petrolifero contro la Serbia. Soltanto un tacito accordo tra Sali Berisha, Momir Bulatovic (allora presidente del Montenegro) e Milosevic poteva consentire il passaggio delle cisterne dai porti e dalle frontiere albanesi verso il Monetenegro e la Serbia. Non è un caso che con il crollo di Berisha nel '97 sono saltati pure gli equilibri e le intese, in fondo non tanto misteriose, che fino a quel momento avevano impedito l'esplosione del Kosovo. Il conflitto del Kosovo è stato anche una guerra tra la mafia albanese in ascesa e quella serbo-montenegrina, che allora aveva fra i suoi capi la »Tigre Arkan, e una parte dell'Uck finanziato dai soldi del narcotraffico conteso agli slavi.

La connection tra potere politico e affari sporchi è stata così intensa a Belgrado da scatenare un'altra guerra di mafia. Anzi, l'attacco più pericoloso al regime di Milosevic in questi anni non è venuto dall'opposizione ma proprio dallo scontro tra reti criminali vicine al potere. Una sfilata di cadaveri eccellenti aveva preceduto i massacri del Kosovo. Una raffica di mitraglietta aveva eliminato Zoran Todorovic, arricchitosi con l'import di petrolio, licenza ottenuta grazie al sostegno dello Iul, il partito di Mirjana Milosevic. Poi avevano fatto la pelle a Vladan Kovacevic Tref, socio del figlio di Milosevic, Marko, che oggi, insieme a un consorzio di banche, controlla, ufficialmente soltanto da due mesi, la rete statale di distribuzione del petrolio. La famiglia Milosevic non ama la concorrenza in politica ma anche nel business.

La guerra del Kosovo in primavera aveva sospeso temporaneamente la resa dei conti che si è riaperta puntualmente in autunno, prima con la morte con un colpo di pistola di Zoran Sijan, chiamato il re della mafia di Belgrado, e poi con il clamoroso attentato ad Arkan. L'uccisione, lunedì, del ministro della Difesa, sorpreso in una cena d'affari a un tavolo del »Rada , ricorda quella di un altro stretto collaboratore di Milosevic, Radovan Sotjic, vice-ministro degli Interni e capo dei servizi, eliminato anche lui con una raffica di mitra nel ristorante italiano »Mama Mia . Era passato allo storia come il comandante del saccheggio di Vukovar e per una frase rimasta famosa: »In Serbia il crimine organizzato non esiste : accanto al suo corpo, in una pozza di sangue, fu trovata una valigetta con 700mila marchi in contanti.

L'eredità criminale dei massacri balcanici, proprio perchè non è una conseguenza ma una delle cause dei conflitti di questi anni, costituisce uno dei problemi più intricati che deve affrontare l'Europa e rappresenta uno dei maggiori ostacoli alla ricostruzione. Per questo andarsene dai Balcani, con armi e bagagli, sarà molto difficile, se non impossibile.

 
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