Milosevic manda alla sbarra 146 albanesi - Arrestati durante la guerra, ricompaiono davanti ai giudici di Nis per tre attentati. Condannata la "pasionaria" di Pristinadi RENATO CAPRILE
(Repubblica, 19/4/00)
RASTRELLATI a migliaia casa per casa sparirono nella notte tra la fine di maggio e i primi di giugno dell'anno scorso. Erano ragazzi albanesi nel fiore degli anni. Tutti tra i venti e i trenta. Studenti e intellettuali per lo più. Furono caricati sotto la minaccia dei fucili su pullman e portati in Serbia a marcire nelle galere di regime. Ostaggi, si disse. Moneta di scambio di ogni sporca guerra. Desaparecidos per madri, mogli, sorelle e fidanzate che quotidianamante nelle strade di Djakovica ancora ne invocano il rilascio. Duemila, forse addirittura tremila. Tutti uomini, ecceziona fatta per tre donne. Una delle quali, Flora Brovina, poetessa e leader della Lega delle donne kosovare, è stata già processata a Belgrado nel dicembre scorso e condannata a 12 anni di reclusione per attività sovversiva. Ma quanti siano in realtà i desaparecidos nessuno può dirlo. Quel che è certo che 146 di quegli sventurati ieri sono improvvisamente riapparsi in un'aula di un tribunale di Nis nella Serbia meridionale. Tutti imp
utati di un maxiprocesso che si prevede andrà per le lunghe e che comunque puzza di farsa lontano un miglio. L'ultima di un gruppo di potere che vuole gettare un po' di fumo negli occhi del mondo fingendo di processare un centinaio e passa di giovani che non c'entrano nulla con la lotta armata. Secondo l'accusa sarebbero tutti - e tra loro ci sono anche due minorenni - a vario titolo responsabili di tre attentati contro esercito e polizia jugoslavi avvenuti nei villaggi che fanno corona alla città di Djakovica, in Kosovo, fra l'aprile e il maggio del 1999. Attacchi nei quali persero la vita un soldato e un agente e altri sette rimasero feriti. Se riconosciuti colpevoli rischiano fino a vent'anni di reclusione. Ma questa è teoria. E' opinione diffusa infatti che i giudici abbiano avuto l'ordine di non calcare la mano. Questioni di immagine lo imporrebbero. Perduto il Kosovo, alla Serbia non giova certo mostrare all'Occidente la faccia feroce in un'aula di giustizia per giunta affollata di giornalisti e senza
oltretutto avere uno straccio di prova contro gli imputati. Meglio essere magnanimi e mandare tutti a casa. Tanto una punizione esemplare non gioverebbe a nessuno. Solo così si spiega perché negli ultimi tempi gran parte dei procedimenti contro albanesi ritenuti membri dell'Uck si siano risolti quasi sempre con assoluzioni. Ne sarebbero stati già rilasciati 750 dei circa 2.000 che si ritiene siano ancora nelle prigioni serbe. Una cinquantina solo la settimana scorsa. Natasa Kandic, coraggiosa presidentessa di un comitato che da anni si batte in Serbia per i diritti umani definisce il processo di Nis "una farsa, a metà tra politica e cattiva coscienza". Nella prima udienza i giudici - il processo si sarebbe dovuto tenere a Leskovac ma per ragioni di spazio è stato dirottato a Nis - hanno potuto soltanto esaminare i documenti di una cinquantina degli accusati. Difensori e associazioni per i diritti umani accusano senza mezzi termini la polizia di aver pescato a caso tra la folla al momento degli arresti, me
ntre i veri responsabili degli attentati, soldati dell'Armata di liberazione del Kosovo, avevano già lasciato la zona. Alcuni degli imputati hanno rivelato di essere stati prelevati nelle loro case, altri per la strada, alcuni addirittura da colonne di profughi in fuga. Il maxiprocesso si è aperto a due giorni di distanza da un altro procedimento giudiziario, già rinviato per tre volte, che sta calamitando l'attenzione dei media serbi. Quello che domani dovrebbe portare alla sbarra due fratelli albanesi, Ljuan e Bekim Mazreku, accusati di complicità nella presunta strage di serbi a Klecka, avvenuta secondo la polizia jugoslava nel luglio del 1998 e che il regime di Belgrado utilizzò come pretesto per dare il via alla massiccia repressione nel Kosovo. I Mazreku, che secondo gli inquirenti sarebbero rei confessi, hanno accusato gli agenti di aver loro estorto la confessione con la forza.