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Conferenza Partito radicale
Manfredi Giulio - 13 maggio 2000
Serbia, incombe il fantasma della guerra civile
(Sole 24 Ore, Venerdì 12 Maggio 2000)

di Elena Ragusin Il prossimo focolaio di crisi nei Balcani potrebbe essere il Montenegro. Sembra essere questo il principale timore delle cancellerie occidentali che negli ultimi tempi hanno ripetutamente ammonito Milosevic a non intervenire militarmente nella piccola repubblica che assieme alla Serbia costituisce quel poco che rimane della Repubblica federale jugoslava. »A essere pessimisti nei Balcani non si sbaglia mai recita un adagio caro agli osservatori che si occupano dei Balcani. Ma in questo caso, una sparuta minoranza va controcorrente. Un mese e mezzo fa il primo ministro jugoslavo Momir Bulatovic assicurò che Belgrado non interverrà militarmente in Montenegro nemmeno se Podgorica dichiarasse la secessione. Di bugie e impegni non rispettati la storia degli ultimi 10 anni nella ex Jugoslavia, trabocca. Ma forse oggi c'è da chiedersi se le affermazioni del premier Bulatovic non siano da prendere in seria considerazione. Le ragioni sono molteplici. La prima si base sulla risposta alla domanda: a

chi gioverebbe in questo momento lo strappo definitivo del Montenegro da un lato e l'intervento di Belgrado, dall'altro? Il presidente montenegrino Milo Djukanovic sa bene che nonostante le spinte separatiste interne, uno stato di 600 mila abitanti avrebbe scarsissime possibilità di sviluppo e di integrazione economica in ambito europeo senza il retroterra della Serbia. Perchè dunque giocare la carta della rottura definitiva, a costo di una guerra civile, quando l'attuale situazione consente a Djukanovic di ottenere l'appoggio e soprattutto i finanziamenti di un Occidente (Usa in testa) disposto a chiudere entrambi gli occhi di fronte a una repubblica che alimenta il 50% il bilancio statale con i proventi del contrabbando di sigarette? Dall'altro lato Belgrado. Il regime di Milosevic è all'angolo, ma sembra difficile che possa pensare di ricompattare il sostegno popolare giocando la carta del nazionalismo per il Montenegro. Nemmeno l'aspetto strategico dell'accesso al mare sembra essere più una valida moti

vazione: tanto che, in silenzio, nell'ultimo anno Belgrado ha venduto, non si sa ancora a chi, gran parte della flotta militare jugoslava. Il precipitare del confronto tra Belgrado e Podgorica, al momento sembra dunque improbabile. A meno che gli Stati Uniti, che sono divenuti il principale referente politico ed economico di Djukanovic, non decidano di indurlo a forzare la situazione. Ma è difficile che ciò accada nel semestre che precede le elezioni presidenziali americane. Nel frattempo all'attuale dirigenza montenegrina conviene mantenere un basso profilo, nella speranza che siano le opposizioni serbe a rovesciare Milosevic: in questo caso la Jugoslavia serbo-montenegrina sarebbe inondata di aiuti internazionali (la Ue ha stanziato ieri in questa eventualità 2.060 milioni di euro di qui al 2006) e il Montenegro allora potrebbe veramente aspirare a divenire una piccola Montecarlo dell'Adriatico. Magari con Djukanovic non più presidente della repubblica, ma guida politica della nuova democrazia jugoslava,

al posto di "aspiranti al trono" quali Vuk Draskovic o Zoran Djindjic, i leader dell'opposizione serba che ancora non sono riusciti a far dimenticare alle cancellerie occidentali il loro passato di accesi nazionalisti. Al centro della partita comunque resta ancora lui, Milosevic. L'incriminazione al Tribunale dell'Aja non gli lascia via di uscita ed è per questo che di fronte allo sfaldamento interno del sistema di potere, testimoniato dai delitti "eccellenti" degli ultimi mesi, alle pressioni internazionali e dalle crescenti insofferenze che traspaiono nell'ambiente militare, sta giocando la carta della repressione sempre più dura del dissenso. Il rischio vero oggi, più che un intervento militare di Belgrado in Montenegro, sembra essere quello di uno scontro frontale tra il regime e le opposizioni. Scontro che potrebbe sfociare in una guerra civile.

 
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