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Manfredi Giulio - 27 maggio 2000
Noi ribelli nello zoo di Slobo
DIARIO DA BELGRADO di BILJANA SRBLJANOVIC (la repubblica 27 maggio 2000)

BELGRADO LA PRIMA sera dell'ultima ondata di proteste, nel momento in cui la polizia con le jeep lussuose, a grande velocità, ha cominciato a fare breccia nei gruppi di dimostranti, sono corsa a rifugiarmi in una strada laterale, sono scivolata ed ho battuto la schiena. Le conseguenze di questo banale infortunio, di cui soffro da giorni, hanno un meccanismo strano. La schiena ora mi fa male soltanto se sto seduta e immobile, ma se mi muovo, se sto in piedi, passeggio o grido, il dolore stranamente cessa. Benché esista una logica spiegazione medica per questo, in particolare per il fatto che, dopo un'esperienza decennale di dimostrazioni di piazza alle spalle, sono piuttosto provata, tuttavia il segnale metaforico mi è molto più chiaro. Questo sordo, stupido dolore, come se qualcuno mi punzecchiasse con uno spillo, non mi lascia star ferma, non mi permette di desistere, mi ricorda che non devo rimanere inattiva. Ora o mai più, in piazza con i giovani, ora o mai più per cambiare finalmente tutto. PERCHÉ per

la prima volta nell'era Milosevic, una generazione affatto nuova, non consumata, di questo paese, sta prendendo sempre più in mano le cose. "Contro il potere e contro l'opposizione", era il motto della protesta autorganizzata degli abitanti di una cittadina della Serbia centrale. Nonostante il potere e un'opposizione incapace, i giovani della Serbia si organizzano spontaneamente questa primavera e cercano di fare la rivoluzione da soli. Sia Milosevic che l'opposizione li trattano con ferocia, la polizia picchia chiunque capiti in piazza, arresta, intimidisce, condanna e mette in prigione anche i minorenni, mentre l'opposizione negozia, si accorda, scende a compromessi, e non riesce proprio a mettersi a fianco dei propri figli. Quando, qualche giorno fa, in un cittadina della Serbia, un sedicenne è stato arrestato per aver affisso dei manifesti di "Optor"(resistenza), la polizia lo ha trattato come se avesse catturato un pericoloso terrorista. Questo terrorista aveva una cartella, la colla e i manifesti, t

anto coraggio personale e determinazione, e, quel che è peggio, il desiderio di libertà. La polizia ha perquisito il ragazzo, gli ha sequestrato "l'arma" (la cartella con i libri di scuola), lo ha detenuto illegalmente interrogandolo "chi voleva uccidere?"!!! In seguito lo hanno rilasciato, trattenendo i libri di scuola e i manifesti. Ma non importa, a quel ragazzo non servono più i libri, le lezioni vengono tenute in piazza, a pieno contatto con la realtà serba e il giovane sta superando tutti gli esami della sua vita. Questa primavera gli studenti serbi si organizzano autonomamente, si chiudono dentro le università oppure marciano per le strade, invitano la gente a unirsi a loro, invitano i conformisti a trasfigurarsi, a rifiutare di farsi ricattare dallo stipendio mensile di un paio di centinaia di marchi, li invitano a prendere le proprie sorti in mano e a trasformare il mondo con una lotta pacifica. Quanto sia basso il prezzo del compromesso a cui uno può scendere i ragazzi lo sanno, ma non lo sanno col

oro i quali scendono ai compromessi, gli "adulti" reagiscono solo sporadicamente, solo in alcuni luoghi scioperano, appena appena accettano la disobbedienza civile. Aspettano che siano i figli a fare le cose al loro posto, aspettano e cercano in una futura società l'opportunità di adeguarsi ancora una volta, il piccolo conformista in loro segue attentamente gli sviluppi della situazione. Pronti alla corsa, aspettano di partire e di passare dall'altra parte quando sarà arrivato il momento. Dieci anni di vita nella guerra e nella tirannia, e ora ormai apertamente sotto dittatura, hanno lasciato profonde tracce su quelli che rappresentano la base di una società: i cittadini maggiorenni, che lavorano in aziende, ospedali, facoltà, andate in rovina, ricurvi sotto il peso della miseria, e che hanno paura di perdere, appena drizzano un po' la schiena, anche quel poco che hanno. Per questo i giovani si ribellano, non hanno nulla da perdere, perché nella vita non hanno proprio niente. Studiano all'università prendend

osi le proprie responsabilità, perché la laurea non gli garantisce un qualunque posto di lavoro, uno stipendio o un futuro; hanno perduto tutti i contatti con il mondo esterno, perché i viaggi sono un lusso che non si possono permettere, in mano hanno soltanto le loro vite, ma anche il coraggio di resistere a tutto ciò a cui si dovrà resistere, purché porti al cambiamento. Nelle loro file c'è una grande varietà di posizioni ideologiche, politiche, personali e sociali. Fanno il tifo per squadre di calcio diverse. Eppure, nelle ultime settimane, tutti insieme stanno cancellando le differenze, cercano il minimo comune denominatore e insieme, uniti, lottano. Quale sia la loro reale forza si vede soprattutto dal panico e dalla paura che regna al potere, il regime ha paura del pugno simbolo di "Optor" più di tutte le altre manifestazioni dell'opposizione messe insieme. Il potere ha paura degli studenti che ogni sera si chiudono nelle aule della facoltà di architettura e sopportano i pestaggi da parte di assalitori

mascherati che di notte spengono la luce sul più grande viale di Belgrado e in tute fruscianti, nudi fino alla cintola, con le mascherine da chirurgo sul viso, fanno irruzione nelle aule e bastonano tutti quelli che trovano. Il potere ha paura degli studenti che ridono in faccia ai loro rettori quando questi li invitano a "tornare sui libri" e a "dimenticare la politica", oggi i ragazzi in Serbia ridono in faccia ai loro professori, con il sorriso sopportano le bastonate e sorridendo non rinunciano alla resistenza. Due giorni fa ad altri studenti, di un'altra nazionalità, un giudice serbo mercenario del regime ha comminato una pena collettiva di alcune centinaia di anni di carcere. Dico collettiva perché il giudice in questione "non ha potuto individuare la responsabilità individuale ma solo quella collettiva". Anche questi studenti sono accusati di terrorismo, sono albanesi kosovari, sono stati processati per la loro appartenenza etnica, e ora si trovano nelle carceri a scontare un secolo o due di pena. E

anche per questi studenti, che solo i loro colleghi serbi possono liberare, è anche per i figli altrui, che i nostri ragazzi lottano. Il governo serbo ha reso noto che l'ingresso nelle facoltà sarà permesso solo con il controllo dei documenti personali e solo per chi in quel momento all'università ha "qualcosa da fare". Poco prima, con un gruppo di quindici professori e assistenti della facoltà dove lavoro, ho incominciato uno sciopero. Finché i nostri studenti vengono bastonati, ogni attività didattica è insensata, o meglio, ora siamo noi a dover imparare qualcosa dei ragazzi, ora loro devono far lezione a noi, insegnarci come ci si comporta nella vita, come bisogna lottare e che cosa sia il coraggio. Ora alla facoltà dove ho studiato e dove subito dopo la laurea ho cominciato a lavorare, io non posso più entrare. Io all'università "non ho nulla da fare" perché non voglio presenziare agli esami e volontariamente non permetterò mai a nessuno dei mercenari di Milosevic di controllare i miei documenti per far

mi entrare nelle gabbie di uno zoo. Perciò quella porta per me rimane chiusa a tempo indeterminato. In effetti, là dentro io non ho davvero nulla da fare. Da quando uno studente del primo anno di drammaturgia è stato arrestato per aver distribuito al mercato i volantini dell' "Optor", il mio posto non è più all' università. Allievi interessati alle mie lezioni li troverei più facilmente nel carcere alla periferia di Belgrado, dove ora i ragazzi picchiati e arrestati nel corso delle dimostrazioni, condannati a trenta giorni di detenzione, raccolgono patate guardati dai secondini. Potrei più facilmente trovare i miei allievi anche negli ospedali, ricoverati con le ossa rotte dai bastonatori di Milosevic. Con gli studenti che, non avendo io molti anni più di loro, rappresentano la mia generazione più dei colleghi "adulti" che chiudono gli occhi davanti a tutto quello che succede, con gli studenti, dunque, è il mio posto. E persino con i tifosi, (sebbene non conosca le regole del calcio) che con un sorriso accet

tano le bastonate, scappano cantando per ritornare di nuovo, quello è il mio posto più di ogni altro. Siamo punzecchiati tutti in questa tarda primavera, quel sordo dolore di schiena non ci lascia star fermi, non accetta anestesie. Tutto ci duole e ci costringe alla resistenza. Resistenza al pestaggio degli impotenti, all'arresto degli innocenti, all'uccisione della verità. Resistenza fino alla vittoria. (Traduzione: Nadira Sehovic)

 
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