(Enzo Bettiza, "La Stampa" del 15/07/00)"Si ripete ancora una volta uno scenario tristemente noto da un decennio. Mentre l'ultimo atto della fisiologica decomposizione della Jugoslavia sta consumandosi nel Montenegro, e minacciando perfino la Vojvodina, l'Occidente perde tempo o con tirate da diplomazia spettacolo o con tentennamenti da diplomazia ondivaga dall'altro lato. In prima linea troviamo la Francia che, per celebrare la presidenza semestrale dell'Unione Europea , si propone di organizzare in Croazia un grande vertice multinazionale sui Balcani; in seconda troviamo gli americani e altri governi dell'Ue che discutono a vuoto se alleggerire o appesantire le sanzioni, comunque sempre inutili, contro la Serbia. A nessuno pare venire a mente l'eventualità che la Nato possa da un momento all'altro vedersi coinvolta in un nuovo e duplice conflitto balcanico. Sia in Montenegro che nella Vojvodina.
Il no compatto di Podgorica al colpo di Stato antifederale ordito da Milosevic, tramite emendamenti costituzionali che dovrebbero praticamente incoronarlo presidente <> a vita, sembra aver portato la tensione regionale al punto del non ritorno. Milosevic ha congegnato con la consueta astuzia l'ennesimo dei suoi micidiali trabocchetti. Gli emendamenti votati dalle Camere di Belgrado, miranti a colpire e ad asservire 600 mila montenegrini (contro 9 milioni di serbi) sono stati pensati col proposito di spingere il presidente <> Djukanovic ad avventurarsi in quel referendum sull'indipendenza del Montenegro che potrebbe sfociare in una guerra civile. La situazione interna nella piccola repubblica adriatica, che assieme alla Serbia costituisce la vacillante Federazione jugoslava, è tutt'altro che semplice e univoca. Un terzo dei montenegrini appoggia la linea filoccidentale e secessionista di Djukanovic; un altro terzo non vorrebbe spezzare i tradizionali vincoli etnici e culturali con la Serbia; l'ultimo terzo oscilla a metà del guado fra Djukanovic e Milosevic. Se l'ipotetico referendum di Podgorica, come spera il dittatore belgradese, dovesse travolgere le tre componenti nel vortice di una guerra fratricida, la Serbia in tal caso <> dando l'impressione di non aver sparato per prima.Al punto in cui sono giunte le cose non si tratta più, per l'Occidente, di organizzare spettacolari tavole rotonde sui Balcani. Si tratta di prendere in considerazione la possibilità di dover dare un aiuto, non soltanto economico, al governo autonomista di Podgorica. Al tempo stesso l'Europa dovrebbe consigliare il presidente Djukanovic a sbarazzarsi di quei ministri corrotti che gettano una luce ambigua sulla minuscola repubblica, favorendo con le loro azioni mafiose le critiche degli elementi locali serbofili e gli argomenti della propaganda serba.
Non si dimentichi la Vojvodina. Essa è popolata non solo da serbi, ma da una miriade di etnie danubiane, fra le quali spicca una civile e cospicua comunità di quattrocentomila ungheresi. Anche in questa benestante plaga multietnica nel Nord della Serbia la reazione al colpo di Stato di Milosevic è stata immediata e dura. I leader dell'opposizione hanno pronosticato l'imminente indipendenza del Montenegro, soggiungendo che pure la loro provincia, la cui autonomia venne soppressa da Milosevic insieme con quella del Kosovo, potrebbe sottrarsi al sopruso e proclamarsi libera. Se l'ultimo fuoco balcanico dovesse raggiungere tramite il Montenegro la Vojvodina, e tramite la Vojvodina l'Ungheria, membro ormai consacrato della Nato, sarebbe ben difficile per i governanti atlantici tirarsi in disparte e lasciar divampare l'incendio senza muovere un dito.".