AL MULO STANCO CHE TIRA IL PAESE NON RESTANO CHE I REFERENDUM
Articolo di Stelio Solinas prima pagina
Per rimettere in moto il carro delle riforme istituzionali saremo costretti "ancora una volta a ricorrere al referendum?" s'è chiesto sconsolato domenica scorsa il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. E Barbara Spinelli, sulla Stampa dello stesso giorno, di fronte alla protesta "borghese" culminata nella manifestazione romana, ha accusato di "ignoranza una nomenklatura politica che pattina sul ghiaccio delle irresponsabilità, glissa di fronte ai segnali di insofferenza d'un paese, ironizza su chi si agita, affetta un'aria di superiorità..." I nostri due illustri colleghi fanno bene a rampognare la classe dirigente e, più in generale, quella politica, ma la sensazione è che di tali rampogne la classe di cui sopra se ne faccia un baffo: per cecità e per supponenza. Gli italiani, che non saranno fini politologhi, ma sono gente pratica, questo l'hanno capito da un pezzo e infatti mai nella storia cinquantennale della Repubblica il discredito verso le istituzioni ha toccato i vertici odierni . Se qualc
uno ieri ci avesse detto che saremmo giunti a rimpiangere Lupis o Tremelloni, soavi nullità del tempo che fu, l'avremmo preso per pazzo: oggi, di fronte a Prodi e compagnia cantante, rischiano di apparire dei giganti. E' per questo che nessun cittadino dotato di buon senso è disposto a scommettere su un sistema che si riformi e si rifondi da solo. Esso infatti trascina con sè tanti di quei veti e vizi incrociati, rendite di potere, corruzione diffusa, miseria morale ed intellettuale, perdita di contatto con la vita reale, da frustrare qualsiasi tentativo correttivo. Non è l'istinto di sopravvivenza a spingere i suoi membri all'immobilismo: se ci fosse un barlume di lucidità in quei cervelli capirebbero che la salvezza è nel cambiamento, nel rivedere le regole del gioco, nel progettare uno scenario nuovo, un nuovo patto di alleanza fra eletti ed elettori. No, è una specie di cupido dissolvendi, di beota e beata allegria di naufraghi, fra un trillare di telefoni, uno sgommare di autoblù, qualche comparsata te
levisiva e un summit oggi con i cantautori, domani con i vignettisti, dopodomani con gli addetti al trucco... Da quattro anni oramai l'Italia è in mezzo al guado. Al referendum, a stragrande maggioranza, s'era pronunciata per il maggioritario: non per feticismo di formule, ma nella convinzione che la partitocrazia imperante trovasse in esso un ridimensionamento ed una barriera. La scelta del maggioritario stava ad indicare la priorità della governabilità sull'assemblearismo, della distinzione netta fra maggioranza e opposizione, del rifiuto di ogni tentazione consociativa. le è stato rifiutato invece grazie a sotterfugi, "mattarelli" e "tatarelli" vari, un pasticcio indigeribile dove il primo cittadino di una Repubblica parlamentare si muove come se fosse il capo di una Repubblica presidenziale, il premier è prigioniero dei suoi stessi alleati, armata Brancaleone "apparentata" a forza, le segreterie dei partiti continuano a contare più dei ministri, la spartizione di posti ed incarichi ha del vergognoso. Il
malessere profondo dei ceti produttivi nasce anche da qui, dalla consapevolezza che chi li dovrebbe guidare non sa neppure da dove cominciare, più preoccupato a durare che a governare, a mascherare le difficoltà che ad ammettere la gravità del momento. Ed è un malessere che può avere effetti devastanti, perchè proviene dalla componente moderata, dal borghese medio senza estremismi nè grilli ideologici, il "mulo" dell'Azienda Italia, il concentrato d'ogni conformismo su cui ironizzano gli intellettuali con i boccoli e l'erre moscia. Solo che se il "mulo" si pinata ci troviamo tutti a piedi, e se prende la fuga può trascinarci in un burrone. Per il momento, il nostro "mulo" riesce ancora ad essere paziente. Sa che, all'orizzonte si prepara un'altra valanga di referendum e fra essi quello dell'abolizione della quota proporzionale che farebbe ripartire, a forza e suo malgrado, la macchina impantanate delle riforme. Lo attende come una liberazione e un regolamento dei conti. La Corte Costituzionale deve ancora d
are (ma guarda un po'...) semaforo verde alla sua liceità, e Dio non voglia che per motivi di opportunismo politico s'acconci a dare invece semaforo rosso. Perchè anche i moderati, come le formiche, nel loro piccolo s'incazzano... E allora son dolori.