Di Antonio Garbarino
(Tribuna Stampa, numero di gennaio /febbraio 1997)
La necessità di modificare la legge sull'Ordine professionale non è un un'esigenza di questi ultimi tempi. E' un ritornello nato con la stessa legge istitutiva e, dove è stato possibile utilizzando l'istituto del decreto, la legge é stata riformata fin dalle prime legislature. Una riforma più radicale più volte programmata ma tuttora pio desiderio peraltro fonte di divisioni nella categoria e quindi non supportata da una chiara e unitaria volontà politica, sarebbe auspicabile, ma, forse anche per nostra natura siamo pessimisti. Non godiamo di buona fama nell'opinione pubblica e nella classe politica ed esercitiamo spesso in modo discutibile il cosiddetto "quarto potere".
La corporazione e non mi scandalizzo di questa parola che risale ad un periodo felice di nostro tessuto economico e sociale giornalistica, é oggi inflazionata; in entrambe le categorie che la compongono, non penso che nella loro maggioranza abbiano un reddito professionale da giustificare la loro iscrizione in un elenco professionale; spesso la tessera é un fiorellino all'occhiello, un'ambizione, un'aspirazione la cui contropartita significa lavora qualitativamente modesto, mal retribuito e gratuito. Con una discriminate nella rappresentatività numerica degli organi professionali sindacali di 1 a 2 cioé un giornalista pubblicista ogni due giornalisti professionisti anche se ciò potrebbe avere una giustificazione tra impegno professionale a tempo parziale e a tempo pieno, contrattualizzato in modo diverso in modo diverso. Ma i meno giovani certamente ricordano che prima della Legge istitutiva dell'Ordine, la categoria era regolamentata dalla Commissione Unica dove il rapporto di rappresentanza era di un pu
bblicista e nove professionisti, sia in sede regionale che in sede nazionale. E per la verità gli elenchi dei giornalisti pubblicisti non erano inflazionati come oggi. I giornalisti pubblicisti quindi sono troppi. Non possiamo pensare ad una regolamentazione contributiva più equa, poiché sarebbe dicono loro troppo onerosa ai bilanci degli editori già "dissanguati" dalle retribuzioni contrattualmente spettanti ai giornalisti professioniste e notevoli difficoltà economicofinanziarie esistono nella stampa periodica periferica e provinciale. Quindi i motivi di conflittualità all'interno dell'Ordine del Sindacato, oggettivamente non sono pochi, ma quello che è sempre parso scandaloso e che a pari doveri non corrispondono pari diritti, anzi questi ultimi sono inversamente proporzionali. E già lo abbiamo rilevato per la rappresentatività , pur essendo i professionisti un quarto degli iscritti nel rapporto dei due elenchi. Ma esiste una vera perla di ingiustizia che è quella che mi ha suggerito queste brevi righe.
Se infatti i diretti si manifestano su piani diversi i doveri sono uguali: pubblicisti e i professionisti pagano le stesse quote annuali per l'appartenenza all'Ordine, ma attenzione anche questa è una parità inquinata, una parità fina ad un certo punto. Alla fine del 1995 i giornalisti pubblicisti iscritti all'Ordine professionale erano 43.099 e versarono nelle casse professionali 5 miliardi e 171.88.000, mentre i professionisti essendo numericamente un quarto e poco più, 13.419 hanno contribuito al bilancio dei nostri istituti nazionali e regionale per un miliardo e 582.280.000. Ma anche questa è una verità parziale.
Infatti l'art. 28 del Regolamento per l'esecuzione della Legge 3 febbraio 1993 n.69 sull'ordinamento della professione giornalistica relativo alle quote annuali recita: "Le quote annuali .omissis sono ridotte alla metà per gli iscritti che fruiscono di pensione di vecchiaia o invalidità a carico dell'INPGI, con decorrenza dall'anno successivo a quello in cui hanno maturato il diritto alla pensione intera". E per meglio esemplificare un giornalista professionista che ha una pensione anche di vari milioni al mese, paga il 50% di quel giornalista pubblicista pensionato e no, che per esempio ha superato i 65 anni (non potendo fare alcun riferimento all'INPGI). Questo "collega" deve fare il donatore di sangue per la categoria vita natural durante. Ogni commento mi sembra superfluo. Ma ciò che i colleghi devono sapere è che il sottoscritto dal 1994 ha sollevato questo problema a dir poco "immorale", in sede di Consiglio Nazionale, con la precedente e con l0'attuale Presidenza. Sembrerebbe che nel 1994, ministro d
ella giustizia l'on. Alfredo Biondi, il decreto ministeriale relativo fosse arrivato al Consiglio dei Ministri, ma non si conosce il motivo di un tempestivo insabbiamento e da quel momento il provvedimento è andato smarrito nei corridoi ministeriali di via Arenula, o per l'angoscioso dubbio di qualche incerto burocrate pare in quelli del consiglio di Stato.
Ma verrebbe da chiederci: perché scomodare tanti luminari del diritto per una banalità del genere, che rappresenta soltanto la riparazione a una norma tanto iniqua, codificata nel regolamento della legge sull'ordine professionale. E la nostra Presidenza, la nostra burocrazia, impegnata spesso a generare più o mento inutili commissioni, non ha sentito il dovere di seguire con la diligenza necessaria l'azione riparatrice di una vergogna da tempo perpetrata nei confronti di tanti colleghi. Io non voglio pensare che tanta disattenzione sia dovuta al vil denaro tanto ingiustamente introitato nelle nostre casse sociali, che fa sempre comodo nella disponibilità di bilancio, così come le quote dei molti che non hanno il diritto ad essere o rimanere iscritti, croniche fasce inflazionistiche del nostro ordinamento professionale. Ma ci sono anche i malpensanti e forse in questo caso sono proprio loro ad avere ragione.