UN ESECUTIVO PER LE ELEZIONI
Di Giulio Savelli
Il referendum Segni del 1993, con l'introduzione del sistema elettorale maggioritario (peraltro sconciato dal "Mattarellum"), avrebbe dovuto servire a garantire la governabilità: in un Paese ben ordinato e che tutela la libertà, lo Stato dovrebbe occuparsi di meno cose di quanto non accada in Italia e allo stesso tempo quelle cose essere in grado di fare davvero. L'esperienza dell'ultimo triennio conferma invece che lo Stato e l'amministrazione pubblica continuano a occuparsi (male) di tutto, il grado di efficienza della macchina burocratica rimane a livelli infimi e contemporaneamente nessuno e davvero in grado di governare. Dopo la vittoria del 27 marzo 1994, Berlusconi riuscì a governare per poco più di sei mesi; la ricerca, di volta in volta, di una precaria maggioranza parlamentare fu addirittura istituzionalizzata col governo Dini oggi, a meno di un anno dalla vittoria dell'Ulivo, un anno trascorso tra continui ricatti di Rifondazione e mediazioni impossibili, del governo Prodi si parla come di un mori
bondo. Tornare a votare, quando viene meno la maggioranza scelta dagli elettori, è la via democraticamente corretta: era vero dopo il "ribaltone", è vero oggi. Ma ciò che sarebbe corretto politicamente incontra non poche difficoltà nel nostro sistema istituzionale, per due ragioni. La prima consiste in questo: nel sistema parlamentare il presidente della Repubblica può legittimamente sciogliere le Camere solo quando constati l'impossibilità di formare una maggioranza a sostegno di un governo, quale che esso sia. Non sfuggono a nessuno le trame ordite da Scalfaro per propiziare il "ribaltone", le promesse false di sciogliere il parlamento entro pochi mesi, le garanzie offerte a Bossi che il capo della Lega ha rivelato senza smentite, l'instancabile lavorio per rovesciare un governo legittimo e liberamente scelto dagli italiani. Ma la fiducia che Dini ottenne era giuridicamente vincolante: lampante esempio della contraddizione tra il presunto e auspicato bipolarismo e un sistema istituzionale consociativo. La
seconda ragione sta nel fatto che, realisticamente, una nuova consultazione elettorale non avrebbe esito diverso dalle precedenti: si formerebbero coalizioni intese più a battere gli avversari che a predisporsi a governare; la quota proporzionale farebbe il resto. Dalle urne uscirebbe presumibilmente, ancora una volta, un equilibrio precario, un governo succubo di partiti e partitini. Vi è quindi qualche buona ragione per ritenere che quella delle elezioni immediate non sia necessariamente l'unica strada da percorrere. Non per procedere alle "larghe intese" dal momento che non si vede su che cosa si debbano intendere due schieramenti che hanno programmi alternativi. Meno che mai per consentire all'Ulivo di continuare a governare sottraendosi al ricatto di Rifondazione in cambio di contropartite consociative. Né col pretesto della spedizione militare in Albania, dietro la quale ha ragione Diaconale si muovono interessi politici divergenti; nè per Maastricht, dal momento che il risanamento dei conti pubblici
può essere stabilmente conseguito solo prendendo cognizione delle nuove tendenze dell'economia mondiale, cui va risposto con un processo di liberalizzazione e deburocratizzazione cui si oppongono i ceti conservatori rappresentati dall'Ulivo; nè per la riforma dello Stato sociale che, se per alcuni consiste solo nel cercare di far quadrare i conti, per il Polo dovrebbe prevedere la restituzione ai cittadini del controllo della maggior parte del reddito da ciascuno prodotto, nel campo della scuola, come in quelli della sanità e della previdenza. Ma solo, garantendo l'ordinaria amministrazione, per il breve tempo (tre sei mesi), che permetta che, anche in Italia, governi chi vince e faccia opposizione chi perde: un buon sistema istituzionale, insomma. Se c'è in parlamento una maggioranza visibile capace di far questo si faccia avanti. Altrimenti, a malincuore meglio, molto meglio, prepararsi, dopo Prodi a votare.