LIBERALI NELLA DIASPORA
Una cultura politica che non produce scelte univoche, se non in momenti storici eccezionali. Riformatori e conservatori possono riconoscersi in un comune impianto etico procedurale.
di Valerio Zanone
Un vecchio cliché riutilizzato da Giuliano Ferrara vuole che i liberali siano dediti all'Ego solitario, ai litigi in famiglia e alla ricerca di asili politici dove accasarsi. Chi si ritiene liberale sul serio non ha neppure diritto di offendersi, perché fra i requisiti minimi per accedere al titolo di liberale dovrebbe essere prescritta l'autoironia. Già quel requisito minimo basta tuttavia a dimostrare come nonostante l'inflazione del termine, i liberali in realtà siano pochissimi anche fra gli intellettuali. Se l'intellettuale liberale è, come dovrebbe, un tipo antropologico che tollera le critiche, essendo certo della propria coerenza, è facile constatare che il tipo di intellettuale più diffuso è l'esatto contrario, che si indigna a ogni minima obiezione perché si concede la massima volubilità. Come accade allora che il liberalismo (un'idea disarmata, se è così facile ridurla a un cliché) sembri oggi tanto in voga? La risposta richiede una distinzione fra il liberalismo come cultura e il liberalismo come
parte politica. L'attualità della cultura liberale è evidente. Nel più recente manuale di filosofia politica, pubblicato in questi giorni da Donzelli a cura di Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, dei sette argomenti trattati
almeno cinque appartengono alla letteratura neoliberale. Però la cultura liberale non è unificante e quindi a maggior ragione non produce scelte politicamente univoche. Ciò che oggi del liberalismo viene generalmente accettato è l'impianto procedurale: la procedura democratica nei rapporti politici, la procedura di mercato nei rapporti economici. Ma il liberalismo non si riduce al solo impianto procedurale. Al di là delle procedure e delle regole c'è nel liberalismo uno sfondo etico in cui hanno rilievo saliente i valori dell'individualità. E se lo sfondo comune ai liberali è quello, ne discende che dal principio comune può derivare soltanto la diversità e non l'uniformità. Infatti il genere liberale contiene una diversità di specie che tradizionalmente vengono classificate nelle due categorie dei liberali di destra e di sinistra, ovvero conservatori e riformatori, o ancora, secondo il volume di Maffettone, realisti e critici. I liberali di destra (ovvero conservatori, ovvero realisti) ritengono che dalle li
bere pattuizioni fra privati derivi un ordine sociale che non può essere alterato in profondità se non al prezzo della intrusione nelle libertà individuali. In molti liberali di quella categoria si avverte una piega pessimista nei confronti della Regione e talvolta della stessa natura umana, che spiega la loro freddezza verso l'altruismo, verso la fraternité illuminista e soprattutto verso i progetti di emancipazione sociale deliberati dal potere pubblico. Sull'altro versante, i liberali di sinistra (ovvero riformatori, ovvero critici) sono più orientati alla visione critica del presente, meno propensi ad accettare le imperfezioni della realtà; il loro è un liberalismo normativo che ritiene i progetti di emancipazione accettabili per allargare le opportunità delle scelte individuali e quindi giustifica una notevole espansione della sfera pubblica. In conclusione la cultura liberale non produce politiche unitarie, se non nei momenti eccezionali in cui la storia metta in discussione i fondamenti stessi della l
ibertà civile e politica. Invece in tempi più o meno normali la cultura liberale produce il pluralismo politico, e tende a ricondurre la stessa alternativa fra conservatori e riformatori all'interno del proprio impianto procedurale. Se in questo senso, come ha sostenuto sulla Repubblica Giancarlo Lunati, "non possiamo non dirci liberali", non si deve credere che, crollato il comunismo internazionale ed entrato in crisi il welfarismo socialdemocratico, la cultura liberale sia rimasta sprovvista di avversari. In realtà gli attentati al liberalismo non mancano sia all'esterno del mondo occidentale, con il fondamentalismo islamico, sia all'interno stesso del mondo liberaldemocratico, in varie forme: tecnocrazie depositarie di poteri più o meno "invisibili"; videocrazie che alimentano l'accoppiata di populismo e cesarismo; solipsismi comunitari, che tendono alla serrata di fronte agli sviluppi transnazionali e multietnici. Di ciò si è discusso nei giorni scorsi a Bergamo, in un convegno internazionale delle fon
dazioni di cultura liberale nel cinquantenario della Dichiarazioni di Oxford. Ma gli echi sulla stampa hanno ignorato gli argomenti trattati, ritornando al cliché della diaspora fra liberali di destra e di sinistra in riferimento agli schieramenti partitici italiani. Sul punto non si vedono prospettive, perché dopo il 1993 i liberali italiani non sono riusciti a riorganizzarsi in un soggetto funzionale alla logica maggioritaria. Ciò che per settant'anni fu il loro partito si è frantumato in due schegge, l'una vociferante nel Polo e l'altra taciturna nell'Ulivo. L'idea di ricomporle in un nuovo partito svincolato dalle coalizioni ha la stessa probabilità di riuscita che avrebbe l'idea di riaccorpare un terreno tagliato nel mezzo da un'autostrada. Si può soltanto sperare che, nello schieramento che ciascuno si è scelto, i liberali riescano a imprimere qualche segno della propria cultura politica.